John Singer Sargent, Le figlie di Edward Darley Boit, 1882

Ieri la mia giornalaia mi ha detto che le manca l’enzima per digerire il vino rosso.
Povera donna.
Ho fatto una ricerca e sono arrivata a un risultato inquietante: i giovani fino ai sedici anni di età e le donne, sempre, mancano di un enzima a livello epatico che rallenta la metabolizzazione dell’alcol. Quindi giovani e donne sarebbe meglio che assumessero quantità minime di alcolici.
Ora, fra tutte le battaglie femminili per la parità, io non ho mai sentito parlare di parità di enzimi, cosa che mi sembra importante tanto quella di salario, di carriera, di condivisione dei lavori domestici e via elencando.
Detto questo, oggi mi sento di rendere una piena confessione: non so se dipenda o no da un enzima pure questo, ma io sono quasi completamente priva di istinto materno.
L’ho detto.
Quell’avverbio in corsivo non indica una quantità minima, casomai per uso personale. No, quel quasi apre a possibilità diverse.
Io sono in possesso di un istinto materno completamente dispiegato, vibrante, potente come il più forte dei sentimenti solo nei confronti degli uomini e degli animali.
Da tutta la vita sto aspettando che mi si affacci l’altro versante, ma finora non è successo.
Infatti, per esempio, nessuno mi ha mai visto cercare una complicità femminile, fatta di cì cì e ciù ciù, con altre donne sul tema bambini.
Questo per chiarire qual è la mia posizione sull’argomento che affrontiamo oggi: obiettiva, lucida, razionale.
E l’argomento di oggi è questo: perché le foto dei bambini che si vedono dappertutto sono così scadenti e come fare a farle venire meglio.

La prima cosa da dire, ovvia, è che le foto sono troppe. Una buona fotografia, anche con un grande fotografo, esce ogni tanto, lo dicono i fotografi stessi, quindi bisognerebbe fare mille scatti e salvarne uno.
Già questo snellirebbe l’ingolfamento.
Poi bisognerebbe dare un’occhiata a come i grandi artisti hanno guardato i bambini, gli uomini molto meglio delle donne, questo è un dato di fatto, forse perché loro hanno implicazioni affettive diverse, forse perché un uomo è più estraneo al cì cì ciù ciù.
Un’artista come Mary Cassatt, che pure stimo, amica di Degas, cosa non facile perché Degas era uno chiuso in questo senso, si è molto dedicata all’infanzia.

Mary Cassatt, Breakfast in Bed, 1897

E dopo un po’ (molto poco), mi annoia. Mentre invece, non mi annoia quando ritrae i bambini Velázquez.
Uno dice, eh, brava, tu prendi il pittore probabilmente più grande di tutta la storia dell’arte e lo metti a confronto con un’americana che si è ritagliata a fatica il suo spazio in quella Parigi della seconda metà del XIX, piena di uomini che facevano alle colleghe piccole concessioni ma che, nella sostanza, non vedevano l’ora di rimetterle al loro posto.

Diego Velázquez, Il principe Filippo Prospero, 1659

Sarà, però Velázquez non mi annoia.
Ve lo mostro alle prese con il figlioletto di Filippo IV e di Marianna d’Austria, un bambinetto che campa solo quattro anni, nato con una deformazione della fronte che l’artista dissimula, come fa sempre, con animo grande, davanti a una tragedia umana.
Ritrae il fanciullo regale con il grembiulino con attaccati in vita i giochi, compresa quella festosa campanella, con il cagnetto che si affaccia dalla poltrona.

Ecco, Velázquez, per me può pure dipingere solo bambini, per me va benissimo.

Adesso vi racconto il mio incontro con Sargent.
Una folgorazione.
Certamente a Londra, non ricordo in quale mostra.
Chiesi a un signore quale fosse la giusta pronuncia del nome, lui si profuse in spiegazioni, quando li prendi per il verso giusto, pure gli inglesi si entusiasmano.

Questa è la formula per descriverlo: «un americano nato in Italia, educato in Francia, che sembra un tedesco, parla come un inglese e dipinge come uno spagnolo».
Credo che adesso i motivi della mia fascinazione siano chiari.

L’opera che vi propongo come ispirazione per le vostre fotografie è molto grande, fa quasi tre metri di altezza per una larghezza di poco meno di due metri e mezzo.
È a Boston e un buon colpo di fortuna, e di teatro, ha fatto sì che i due giganteschi vasi di porcellana giapponese, che stavano nell’ingresso dell’appartamento parigino della ricca famiglia Boit e che Sargent ha dipinto, siano stati donati al Museum of Fine Arts e messi accanto al ritratto delle quattro figliolette del committente.
Effetto assicurato: o i vasi sono usciti dal quadro o tu ci sei entrato dentro.
Le ragazzine sono rappresentate ciascuna in una posizione diversa, senza alcuna relazione fra loro.
Sargent tratta le luci e le ombre da quel grandissimo artista che è, con assoluta maestria: le figure sorgono dall’oscurità, raggiungendo la ribalta.

Il risultato è bello e misterioso e a modo suo inquietante.

John Singer Sargent, Le figlie di Edward Darley Boit, 1882, part.

Qui non c’è nulla dei ritratti convenzionali, soprattutto di quelli fotografici che si vedono in giro, addirittura una ragazzina si vede solo di profilo, tutto è asimmetrico, c’è del vuoto, ci riempie un sentimento di sgomento, è questa, l’infanzia?
Isolamento.
Nessuna complicità.

John Singer Sargent, Le figlie di Edward Darley Boit, 1882, part.

E il gioco che cos’è, quella bambola di pezza priva di vita abbandonata fra le gambe, due bambole sul tappeto che visivamente ci conduce dentro l’opera.

Qui Sargent paga pegno.
Abbiamo detto che dipinge come uno spagnolo, aggiungiamo che è stato educato dal suo maestro Carolus-Duran, un altro artista di cui vorrei parlarvi presto, a uno studio antiaccademico, le pennellate devono molto al Seicento spagnolo e Seicento spagnolo significa Velázquez.
Ritorniamo, quasi, al punto di partenza.

Dietro questa lettura inusuale dell’infanzia, c’è lui.
Lui nel suo dipinto chiave, e chiave di tutto.

Diego Velázquez, Las Meninas, 1656

Ritorna l’interrogativo di ieri.
Lì, Rembrandt, qui il suo grandissimo contemporaneo.
Insomma perché non abbiamo direttamente proposto nel nostro percorso di educazione fotografica Las Meninas.
Perché è troppo, perché ci sarebbe scappato da tutte le parti, perché se solo ci venisse in mente di ispirarci all’Infanta Margherita, qui in posizione centrale e di festa, per scattare una foto a una bambinetta, ne usciremmo schiacciati.
Qui non c’è gara, qui non c’è confronto.

È, questa, con ogni probabilità l’opera più importante di tutta la storia dell’arte, quella in cui c’è la prospettiva, l’impaginazione, lo specchio, l’orgoglio dell’artista che si autorappresenta, la regalità, l’imbroglio visivo, l’atelier, la narrazione, ci sono i nani di corte e pure il mastino castigliano.

E c’è l’infanzia.

Tenuta con il fiato sospeso, come si sta di fronte a un regalo ancora impacchettato, agghindata come solo in questa reggia dal cerimoniale così rigido, eppure fremente, gioiosa, piena di speranza, aperta al mondo e a tutte le sue promesse.

Ecco, di fronte a questi artisti qui, l’enzima non mi manca e quasi e finalmente sento chiaro il desiderio di andare verso tutti questi ragazzini, di prenderli fra le braccia e di invitarli a far parte del mio immaginario.
Quasi sono capace di giocare con loro, di raccontare loro delle storie.
Quasi e finalmente ritrovo in me quell’istinto di protezione, di ascolto, di accoglienza e di cura che chiamiamo semplicemente materno.