HO RIVISTO LA DOLCE VITA

Federico Fellini sul set de La Dolce Vita, 1960

Il momento più critico dell’esame di Storia dell’arte medioevale erano i crocefissi. Ho triennalizzato l’esame, cioè l’ho dato tre volte e ogni volta con un programma  che aumentava in modo esponenziale, quindi so di che parlo.
Arrivavano i crocefissi ed erano dolori: tutti uguali, anzi, no, siamo precisi, erano po’ Cristi vivi, del tipo triumphans, di derivazione bizantina, e un po’ morti, ovvero del tipo patiens, occidentali nella sostanza.
L’Occidente, si sa, è legato alla terra, noi abbiamo il peso e l’ombra, lo dicono Giotto e Masaccio, e pure Peter Pan l’ombra ce l’ha, infatti, quando lo conosciamo, se l’è persa e la rivuole, a un certo momento ci fa pure a pugni.

I crocefissi, dicevo.
Non finivano mai.

Saranno state le foto in bianco e nero del manuale, sarà stato che non ne avevo mai visto uno dal vivo, ma avevo delle crisi formidabili, mi avvitavo, non andavo avanti, volevo smettere di studiare e andare a fare la commessa da qualche parte, la piantavo lì e riprendevo il giorno dopo.
Se trovavo il coraggio.

Cimabue, Crocifisso di Santa Croce, 1280 (dopo l’alluvione e prima del restauro)

Il coraggio, evidentemente, l’ho trovato e ora amo tutti i crocefissi medioevali, del tipo triumphans e del tipo patiens, parlo con disinvoltura del naso a forcella e del ventre tripartito, faccio considerazioni sulla posizione dei piedi e su quella dei chiodi.
Mi commuovo, anche, quando ne vedo o ne spiego uno.
Però la fatica non me la scordo.

Il momento più critico de La Dolce Vita è dopo due ore.

Due ore per un film sono già tante, ma Fellini non era uno fluido e tantomeno era sintetico, quindi, di ora, gliene serviva un’altra.
L’unico appunto che mi sento di fargli è che avrebbe dovuto corredare il film con un foglietto tipo il bugiardino dei medicinali, non guardatelo quando siete stanchi, prendetevela con comodo, sappiate che è una maratona, quindi: allenatevi.
Oppure che avrebbe dovuto rimetterci mano.
E qualcuno avrebbe pure potuto suggerirglielo, ma si sa com’è.
Sto leggendo un libro bellissimo, un’autobiografia, no, meglio, una confessione di un’attrice che ha lavorato con i registi della Nouvelle Vague.
Lei a un certo punto scrive: «i cineasti, non bisogna annoiarli».
Se lo dice lei che li conosce.
Però poi mi chiedo se i cineasti possono annoiare il pubblico.
Perché loro sono dei geni.
Perché loro sono immensi.

Ho visto La Dolce Vita un certo numero di volte. Non quando è uscito perché non ci siamo con le date, ma certamente quando la pellicola è stata restaurata ed è tornata al cinema. Mi ricordo una serata molto impegnativa ma bella, doveva essere il Barberini, mi ricordo che, uscendo, ne parlai tutta la notte.
Ho dimenticato con chi ho visto il film, ma ho avuto più di un amico di cinema, alcuni miei coetanei, altri più vecchi, avevamo relazioni sporadiche ma profonde, ci incontravamo solo per vedere un film e per parlarne.
Non puoi vedere Fellini con una persona qualunque, ammesso che con una persona qualunque ci siano più di un paio di cose che si possano fare.

(Specializzazione paranoica delle relazioni, la mia prima giovinezza ha funzionato così per anni.
E non so se il verbo funzionare sia corretto, comunque è così che è andata avanti).

Ricordavo di aver rivisto La Dolce Vita anche per mio conto, tempo fa, nella mia fase Fellini.
Infatti ho il dvd.
Ma avevo dimenticato di averlo diviso in due parti, come se fossi stata al cinema, primo e secondo tempo, due giorni diversi.
Il film mi aveva fatto bene, mi aveva riempita di un sentimento di ricchezza intellettuale, mi ero sentita di far parte di una cultura, quella italiana del dopoguerra, che aveva avuto tanto da dire e da dare.
Ci ho riprovato l’altro giorno, tirata dalle Felliniadi che seguo alla radio, cento anni dalla nascita del Maestro.
Devo premettere che quando Fellini è morto ho preso la metropolitana e sono andata a Cinecittà a salutarlo.
Pioveva, c’era una fila infinita, stavo con le scarpe nella melma.
La bara era esposta sul palcoscenico del gigantesco Teatro 5 fra due carabinieri in alta uniforme, credo che l’idea di stare come Pinocchio fra due carabinieri gli piacesse.
Sotto al palco, raccolto, tristissimo, c’era Mastroianni.
E la gente sfilava, e mandava baci, e piangeva e al massimo qualcuno diceva «Ciao, Marcello».
(Quanto è grande il cuore di Roma).
Il rito pubblico più pop al quale abbia partecipato insieme ai funerali di Berlinguer.
Comunque, quando è morto Fellini ero un po’ meno ragazza.
Dopo, sono anche andata a salutarlo a Rimini. Mi sono raccolta sulla tua tomba, c’è una panchetta.

Tomba di Federico Fellini, Cimitero Monumentale di Rimini

Ho dormito al Grand Hotel.
Quello è il posto più felliniano del mondo, mi dettero la stanza di Fellini, ero tutta contenta, poi il giorno dopo, a cena, mi avevano presentato un amico d’infanzia del regista e quello venne a salutarmi e mi disse che tutte le stanze le chiamavano così,  era per fare contenti i clienti.

Ci rimasi malissimo ma li perdonai. Il Maestro era un grande cultore della menzogna, arte che pratico anch’io quando non voglio farmi seccare, quindi, se qualcuno mi mente, non me la prendo.

Cenai al ristorante dell’albergo. Avevo chiesto una bistecca al sangue come se fosse stata per un vampiro. Dentro, però, era fredda.
Il calice di rosso, invece, era ottimo. La Romagna, si sa, dà i vini giusti.

Comunque Rimini mi piacque tantissimo, era inverno, faceva freddo, c’era l’Arco di Augusto e poi al Museo c’era uno dei miei Bellini prediletti.

Giovanni Bellini, Pietà, 1470

Una Pietà dolente, con quattro putti che si affannano a tirare fuori dal sepolcro quel povero Cristo, lui, sì, certamente patiens.

Tutto questo tanto per dire che sono italiana e che amo il cinema.

L’altro giorno, allora, decido di rivedere La Dolce Vita.
La situazione era perfetta.
Avevo dormito fino a tardi la mattina; lavorato bene tutto il giorno per preparare una lezione; era anche tornata la domestica, che aveva raddrizzato la casa, ancora in dissesto per il Capodanno.

Ho inserito il dvd nel lettore.

Non so come sia stato, ma dopo un’ora mi è tornato in mente il commento che mi aveva fatto una volta una persona a proposito di un incontro culturale al quale non avevo partecipato.
«Come è stata la conferenza?».
«Come la spada di Carlo Magno: lunga, piatta e letale».
Questa definizione pungente, che mi diverte da quando l’ho sentita la prima volta e che spero nessuno applichi mai a una mia uscita professionale, me l’ero completamente scordata.
Guarda tu, mi riesce fuori con La Dolce Vita.
Che però non è un film piatto. Almeno questo.
Forse, lungo e letale.
Oggi mi metto comunque a ragionare su qualche suo aspetto.
Sperando di uscirne fuori.

La noia. Io sono di quelli che lasciano la poltrona e se ne vanno. Dal cinema, dal teatro, dalla sala di concerto.
Dalla cena.
Pure se ho pagato il biglietto. Anzi, soprattutto: se resto, il danno diventa doppio, denaro e tempo.
Per non parlare dell’umore.
Ci sono state città, ci sono state lezioni, ci sono state vacanze, ci sono state persone, ci sono state sessioni di palestra e di aerosol a causa delle quali per la noia avrei dato la testa al muro.
Non mi annoio se sto in una città viva; se parlo con una persona interessante; se leggo un romanzo avvincente; se guardo un film che mi trascina.
Non mi annoiano le cinque ore delle Nozze di Figaro di Mozart.
Non mi annoio quando sto da sola, cosa che, fra le mie conquiste, è una delle più grandi.
Invidio coloro che non si annoiano mai.
Mi chiedo se abbiano una vita interiore superiore alla mia.
O se si divertono con poco.
Oppure, se si accontentano.
Ne La Dolce Vita si annoiano tutti. Si annoiano oltre ogni umana possibilità di sopportazione, si annoiano di se stessi e degli altri, si annoiano dappertutto, in tutti i locali notturni nei quali vanno a infilarsi, nelle conversazioni, si annoiano mentre lavorano, mentre parlano di se stessi, mentre guidano la macchina, si annoiano mentre cercano un telefono a gettoni e mentre cercano di suicidarsi (e qualcuno ci riesce pure), mentre stanno davanti al miracolo.

Si annoiano davanti alle vita.

E la loro noia, come spesso accade con i film degli anni ’60, è contagiosa ed esiziale.
In una parola, la loro noia mi fa stare male.
A guardarli uno per uno, hanno ben ragione di annoiarsi: sono tutti dei falliti, nessuno fa niente di interessante, passano giornate fra cose insulse, mai uno slancio, mai un sentimento autentico, vivono in una città schizzata, via Veneto tutta la notte che sembra la metropolitana alle otto del mattino di un giorno lavorativo e Fontana di Trevi, che sta lì a due passi, senza un’anima, un posto deserto, nel quale farsi un bagno di mezzanotte.
Fanno l’amore per noia, per noia vogliono sposarsi e per noia tirano a campare.
I più annoiati sono gli intellettuali, con salotti che sono autentici covi di noia, stanno lì e fanno discorsi incomprensibili, mi sono letta un po’ di testi di esegeti e critici che ne spiegano il senso ma non basta.
Ecco, quello che mi viene in mente è che questo film non è universale e non è un classico. Se dopo sessant’anni non capisci più che cosa dicono i personaggi, vuol dire proprio questo.

Comunque, dopo due ore della loro noia ne ho avuto abbastanza, ho lasciato la poltrona, lasciato il dvd andare da solo e sono andata a fare altro.
Una toletta rapida, di una quindicina di minuti; due WhatsApp; una telefonata; un paio di mail, una delle quali, professionale, mi ha irritata.
Ho letto un capitolo del mio libro.
Quando ho deciso che era ora di andare a dormire, il film stava ancora lì che andava.
Vai, vai.
Tanto lo so come va a finire.

Le donne, 1. Sono una donna e guardo le donne come una donna guarda le altre donne. Ogni tanto mi metto lì e, come si dice a scuola, mi applico, cioè cerco di guardarle come le guarda un uomo.
Non sono in grado di dire come l’operazione mi riesca, secondo me, maluccio.
Mi sono applicata per Rubens e per Renoir, che dipingono donne che io, prima di metterle su una tela, metterei a dieta stretta, una foglia di insalata e qualche grammo di riso bollito al giorno. Sono riuscita nel mio intento più con Rubens che con Renoir. Avendo quest’ultimo solo una fase cosiddetta monumentale e l’altro, invece, tutta una carriera di carne che deborda, sto già un pezzo avanti.

Sir Peter Paulus Rubens, La Piccola Pelliccia, 1630

Il giorno che mi sono accorta di apprezzare un nudo di Rubens, mi sono fatta i complimenti.

Ma che fatica.

Proprio grazie a Federico Fellini ho messo a punto una mia teoria personale: per una donna, l’amante è quello che lei è; il marito, quello che lei vorrebbe essere.
Per un uomo, è il contrario. Ovvero: l’amante è quello che lui vorrebbe essere; la moglie, quello che lui è.
Provate a rifletterci su, poi ditemi che cosa ne pensate.

Fellini doveva essere d’accordo con Benoît, il padrone di casa della Bohème (e pure nella Bohème c’è un Marcello. Fa il pittore), quello cui i nostri amici artisti devono alcuni mesi di affitto arretrati, quando canta:

Non dico una balena,
o un mappamondo,
o un Viso tondo
da luna piena,
ma magra, proprio magra, no e poi no!
Le donne magre sono grattacapi
e spesso… sopraccapi…
e son piene di doglie,
per esempio… mia moglie…

Marcello frequenta alcune donne.
Ce ne fosse una normale.

È fidanzato con Emma, «calda, innamorata, dedita, desiderosa di un nido vero e infrangibile». Almeno così la vede Nazareno Taddei, insigne figura di studioso di immagine di cinema, di semiologia e di comunicazione di massa, Segretario Nazionale della Compagnia di Gesù per poco meno di trent’anni.

Emma

Così, tanto per dire da quale pulpito la predica si innalza.
Solo che Emma, vista oggi, è una donna insopportabile: tenta di suicidarsi perché sta sola quando lui lavora, non fa niente dalla mattina alla sera, appena ce l’ha sotto mano lo ingozza di uova sode e banane, i due abitano insieme in un appartamento incompleto che è un po’ la metafora di una relazione andata a male, lei avrà pure delle «aspirazioni idealmente sane», come dice don Nazareno, però è talmente distante da tutto ciò che lui è e che cerca, che non si capisce perché lui dovrebbe (ancora) darle retta.

La Cadillac di Maddalena

Le donne, 2. Infatti lui ogni tanto dà retta a Maddalena, ricca, bella, che guida una molto scenografica Cadillac Series 62 del 1958.
Non ho mai guidato una Cadillac, ma mi divertirebbe molto. Trovo quindi fuori luogo l’uggia di lei, occhiali da sole pure di notte, che sbatte la macchina fino ai Cessati Spiriti, un po’ oltre casa mia, fra stradine all’epoca dissestate e costruzioni che albeggiano.

Maddalena

Non so se sia vero che Maddalena «tocca il vertice della turpitudine» e ciò solo perché, da creatura notturna, una volta invita Marcello nel letto della prostituta che hanno riaccompagnato a casa.
Scontenta, umanamente miserabile, in cerca di calore, non esce, comunque, da dove sta. Un universo ben fornito di denaro, che non le lascia scampo.
Secondo me è la donna più bella del film: scura, altera, elegante, può permettersi qualunque cosa, anche di avere per Marcello un innamoramento blando, se c’è o non c’è, la cosa non la tocca, quando lo vede, è contenta di vederlo, ma non lo va cercando.
Il tiepido è anch’esso un grado più che rispettabile del sentimento amoroso.
In mancanza d’altro.
E poi, la passione mica te la compri con i soldi.
Quella è gratis, ma è lei che ti trova, è inutile che tu ti metti a cercarla.

Le donne, 3. Uno slancio di passione, almeno carnale, Marcello lo prova per Sylvia.
Una quantità buona per un esercito; la nave da crociera più grossa del mondo, con capacità di seimilasettecentoottanta (6.780) passeggeri; la pancia come una capanna; la moto Parigi-Dakar che ho visto nel mio garage con un serbatoio tale che ho chiesto al mio garagista come si fa a guidare con una protuberanza di quelle dimensioni fra le gambe.
(Manco a Roma ci fosse il deserto).

Flaiano e Fellini con Sylvia

Giunonica, d’accordo.
«Alle soglie del mito», ci sto.
Capace di un contatto istintivo con la natura, mi sta bene: infatti ulula come un cane, trastulla un gattino, scambia la fontana più famosa di Roma per il mare da cui Venere nacque e l’attraversa, diventando sacerdotessa di una rinascita di Marcello, che battezza proprio con quell’acqua, versandogliela in testa.
Poi, fate voi.
Io, per me, ogni tanto un po’ a dieta la metterei.

La città. Bella, Roma mia, bella e tutta finta. Quella volta che sono andata a Cinecittà per una visita agli stabilimenti, ho detto non ci credo. Poi, non voglio saperlo. C’era un ampio corridoio con gigantografie della ricostruzione ordinata da Fellini della Fontana di Trevi.
Allora l’altra sera mi sono messa a guardare questo film a cielo aperto, questo affresco, questa narrazione senza capo né coda (non l’ho detto io) con l’occhio di chi guarda il thriller già sapendo chi è l’assassino, seguendo le sue mosse per vedere se il conto torna.

Marcello e Sylvia sulla Cupola di San Pietro

E ne La Dolce Vita il conto torna perché si vede benissimo che tutto è finto, non so come io non me ne sia accorta le altre volte.
Finta via Veneto, finta la cupola di San Pietro, finta la fontana.

Via Veneto ricostruita nel Teatro 5

Finti gli sfondi che si vedono dietro le macchine, ma talmente finti che mi sono convinta che Fellini l’abbia fatto apposta. Del resto la sua idea, fra le tante, era anche quella di restituire la sua immagine della città di Roma. A lui l’operazione è sempre riuscita bene. Da provinciale visionario qual era, ha centrato il bersaglio, colpendo al cuore il lato decadente e immaginifico della mia città, che esce fuori sia nel I secolo del Satyricon, che negli anni ’60.
Dunque, ben vengano le scenografie di cartone.
Le poche scene girate all’esterno mostrano una città in piena, si fa per dire, fioritura, con i palazzi che spuntano come funghi dalla pioggia, le strade già con il traffico, lacerti di campagna sopravvissuti qui e là, e stiamo parlando della campagna romana, quella dal fascino d’eccezione, celebrato nei secoli da artisti e letterati, che vanta una perfetta fusione di storia e natura, con un paesaggio inevitabilmente classico, con tratti desolati e selvaggi, insomma, «la più strepitosa concentrazione di storia e d’arte del mondo occidentale».
(E questo non lo dice don Nazareno, lo dice la Guida del Touring, anch’essa un pulpito di tutto rispetto).
Voi pensate solo agli acquedotti che compaiono nel film, al loro essere il marchio di fabbrica inconfondibile della città.
Quanto sei bella, Roma mia, quanto sei bella, ti credo che Fellini quando ti racconta perde la testa e la tira per le lunghe.

La macchinetta. Nel film Marcello guida una Triumph TR3 A del 1958. Gli uomini assomigliano sempre alle macchine che portano e quest’automobile gli sta molto bene.

La Triumph TR3 A di Marcello

Lui viene dalla provincia, ha coltivato il sogno di diventare scrittore, lo ha messo nel cassetto e spreca la sua vita rincorrendo notizie. Ma lo fa con una macchina che è tutto un programma, una decappottabile a due posti, svelta, piccola, che è il contrario di un’auto familiare.
Insomma, i suoi desideri più o meno segreti si esprimono, come sempre negli uomini, fra donne e motori.
Non ho mai guidato una spiderina di questo genere, anche questa macchina mi divertirebbe molto,  ma la trovo inadatta ai nostri giorni, queste sono macchine basse, al semaforo ti guardano tutti, indiscretamente, dentro.
Meglio la macchina guscio, la macchina protezione.

Leggo che, terminate le riprese, Mastroianni si comprò una Triumph uguale a quella del film.
Evidentemente gli era piaciuta l’esperienza.
Evidentemente gli era piaciuto entrare nella storia del cinema, lui sempre così leggero, garbato, elegante, seduttore pigro e un po’ malgré soi,  al volante di una macchinetta che gli dava la possibilità di svignarsela rapidamente e in velocità, voi pensate solo che la Triumph passava da 0 a 97 km/h in 12 secondi.

Un po’ il contrario del suo alter ego Fellini, che sembra aver affidato a lui tutte queste doti che attengono alla lievità, di cui evidentemente sentiva la mancanza, un po’ come quello che si prende per amante la donna che è proprio come lui vorrebbe essere ma che, per quanta fatica faccia, non sarà mai capace a diventare.

2 Comments

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    • Rosella Gallo

      6 gennaio 2020 — 7:45

      Andrea, grazie a te. Della lettura, della presenza, delle parole e, come sempre, delle immagini

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