Cominciamo dalla carne, che è sempre eloquente.
Guardate il quadrante del vostro orologio: alle nove c’è Canova, che ha inventato una carne che non esiste al mondo, pura e priva di muscoli e tendini, che della carne fanno sempre parte.
Carne come materia liscia, liscia come il marmo quando il marmo è liscio come solo Canova sa lisciarlo.
Alle dodici c’è Courbet, che, se lo diceva da solo, è un realista.
Quindi la sua è carne vera e le sue donne sono palpitanti di vita e accendono il desiderio.
Alle tre, al polo opposto di Canova, c’è Freud, che all’apogeo di Courbet ha fatto seguire la caduta, il degrado, l’indagine ravvicinata.
La sua è una carne lubrica, oscena, imbarazzante, più vera della carne vera.
Sembra che gridi la sua sofferenza.
Dunque, quando la carne di Freud nidifica negli stracci, è come se trovasse un rifugio e finalmente fosse accolta.

Stracci.
Stracci che servono all’artista per pulire i pennelli e che qui sono ammucchiati davanti a un termosifone, nascosto. Siamo nel suo studio londinese e ci sembra lecito interpretare gli stracci come un «segno codificato» della sua presenza nell’immagine. E come se vedessimo un paio di scarpe e pensassimo alla persona che le indossa.

Lucien Freud, Standing by the Rags 1988-9

Gli stracci hanno sopra della pittura, che possiamo leggere come allusiva al sangue che certe volte il corpo butta fuori.
Come butta fuori altri umori, qui tutti inventariati.
Agli stracci è dedicata la medesima, meticolosa attenzione che è riservata alla carne, non c’è idealizzazione, c’è uno sguardo indagatore, cui niente sfugge.
Freud parla di verità e, volendo, possiamo dargli retta, anche se poi la sua pittura ci sembra ancora più vera di quanto non sia la verità stessa, insomma, è come se lui si situasse in una verità più astratta, superiore, immobile, che noi classifichiamo come la verità dell’arte.
Lo spazio è poco profondo e la donna, che non ha nessuna bellezza fisica, oppure che le possiede tutte, come qualunque persona normale, sta in piedi contro gli stracci, lo dice anche il titolo, e ha l’aria sognante, insomma, a noi sembra che lei stia comoda, del resto è stato il pittore stesso a dirle di cercare per sé, visti i tempi lunghi della posa, una posizione confortevole.
Il braccio destro sollevato trasforma la spalla in punto di appoggio della testa e sappiamo, dato l’interesse dichiarato dell’artista, che è una citazione di un dipinto ben più classico, londinese anch’esso quanto a ubicazione, insomma, una cosa che si poteva vedere facilmente.

Questo anche se Ingres, da cui Freud prende ispirazione, è un pittore di grandissima classicità, che noi possiamo piazzare all’ora di Canova, di cui condivide l’idealizzazione del corpo.

Jean-Auguste-Dominique Ingres, Ruggero libera Angelica, 1819

Dunque, la sua Angelica, incatenata alla roccia ed esposta al mostro, proprio come la principessa di San Giorgio e l’Andromeda di Perseo (le donne stanno sempre incatenate da qualche parte e ci vuole sempre l’eroe che venga a liberarle), dunque, dicevamo, l’Angelica di Ingres ha un corpo di una luminosità che incanta, con le consuete distorsioni care all’artista, che le usa per aumentare il senso astratto della carne.
La modella di Freud, invece, ha la carne «cascante, screziata, arrossata».
Ora, è evidente che è più facile incontrare nella vita una come lei che non una come Angelica, però questo è un altro discorso.
E, in ogni caso, il realismo di Freud è una specie di ossessione, per cui il viso di lei, i seni e il pube sono trattati con un impasto molto denso, a sottolineare la sua presenza fisica.

Racconto sempre che anni fa ero a Venezia e vidi la mostra di Freud al Museo Correr.
A parte il senso di straniamento che mi veniva dal passaggio fra l’esterno, con la città più leggera e femminile del mondo, e l’artista, che ti investe come una massa solida, fu lì che mi resi conto di quanto i suoi nudi potessero essere scabrosi.
C’era poca gente e in una sala mi trovai da sola con un uomo che non conoscevo.
Lui guardava me, io avvertivo la sua presenza.
Non sono timida, ma provai un violento sentimento di pudore offeso, quasi di vergogna, come se alle pareti di quel luogo, peraltro molto veneziano anch’esso, tranquillo, vecchiotto, un po’ buio, ci fossero stati appesi ritratti miei privati, violati da un occhio estraneo.

Gli stracci di Freud compaiono per la prima volta nel dipinto che si intitola Red Haired Man, che è del 1962.

Lucien Freud, Red Haired Man, 1962

Questo significa che Freud anticipa Pistoletto nell’utilizzo di questi scarti di stoffa.
La Venere degli stracci, della quale parliamo nella seconda parte, è infatti del 1967.
Questo tanto per ristabilire la cronologia, anche se i due artisti fanno cose diverse.
Entrambi, però, è come se recuperassero la dignità di questi materiali, che hanno già vissuto una vita, per esempio sotto forma di indumento, e che, poeticamente, ne conquistano un’altra quando sembrava che fossero da buttare.

Michelangelo Pistoletto, Venere degli stracci, 1967

Bellissima metafora di qualunque vicenda umana, è come se negli stracci si annidasse la speranza.

Un dipinto di Freud analogo a quello che vi ho presentato è il complementare dal titolo Lying by the Rags, di poco posteriore.

Lucien Freud, Lying by the Rags, 1989-90

Qui, però, l’impaginazione è diversa e il corpo sdraiato della modella, che è sempre la stessa, Sophie de Stempel, una non professionista, giace a terra e abbiamo subito l’impressione del naufragio e degli stracci come salvezza, la sponda alla quale si approda dopo la disgrazia.

Freud voleva che i modelli fossero se stessi, non che interpretassero il loro ruolo con pose già frequentate.
Forse anche in questo sta l’orrenda sua grandezza, nell’aver aperto porte nuove e scandagliato altri territori.

Il primo dipinto di oggi, quello con la modella in piedi, compare in un’altra opera, Two Men in the Studio.

Lucien Freud, Two Men in the Studio, 1987-89

Qui il gioco di rimandi si fa più sottile e diventa quasi gioco di specchi. Nell’atelier dell’artista è stato allestito un letto, dentro il quale c’è un uomo, del quale vediamo solo la testa.
In piedi ce ne è un altro, nudo, con le braccia alzate.
E la carne maschile è tale e quale a quella femminile, livida, e piena di segni.
Sullo sfondo, la nostra tela di apertura.
A destra, di nuovo il cumulo di stracci.

Qui esce fuori anche la questione dell’odore. Quello della pittura qui non si avverte, a meno di non infilare il naso nella tela, insomma, se entri nella sala al museo o in mostra non sei investito dalla sua presenza.
Con la Venere di Pistoletto, invece, gli stracci sono dirompenti, io ho visto l’opera più di una volta, è probabile pure con delle variazioni in fatto di materiali, ed era violentissimo, nell’aria c’erano effluvi di disinfettante, di magazzino, di umido e di sporco.
Del resto, quegli stracci, come fai a pulirli, mica puoi metterli tutti in lavatrice, stenderli e risistemarli davanti alla dea seguendo lo schema che sta nella testa dell’artista.

Io attraverso un periodo pieno di stracci, quest’estate, a parte i blue jeans, mi sono comprata solo una T-shirt e ho continuato a indossare le mie vecchie maglie. Alcune di esse sono probabilmente arrivate al loro capolinea e bisogna solo individuarlo.
Di solito trasformo i miei panni in stracci quando diventa impossibile indossarli, quando, sottoposti a un ulteriore lavaggio, uscirebbero a brandelli e sarebbero inutilizzabili.

È stato così che un paio di magliette americane, che mi piacevano molto, sono state tagliate e sono diventate stracci di cotone, ottimi per pulire gli specchi. Sono i miei prediletti, non lasciano pelucchi, sono solidi e poi mi ricordano tutte le volte che li ho avuti addosso.

Lamento la mancanza sul mercato di stracci belli per quando si cucina. Dovrebbero essere diversi dai canovacci, dovrebbero essere più piccoli, più agili, pronti ad assorbire l’unto, a pulire rapidamente le mani o ad asciugare una colatura di olio della padella.

Ho la massima cura degli stracci che servono per le faccende domestiche. Quelli per i pavimenti sono catalogati a seconda dello spessore. Quelli da spolvero comprendono tessuti diversi, quelli antistatici cattura polvere servono per le superfici grosse, poi ci sono quelli per passare la crema ai mobili o per lucidare la targhetta di ottone della porta con il mio nome.
Gli stracci sono lavati una volta a settimana e stesi con mollette a loro riservate sul loro filo.
La lavatrice viene poi passata con la candeggina e sottoposta a un risciacquo, procedimento probabilmente inutile, che però acquisisce il sapore del rito, quello che divide il sacro dal profano, l’alto dal basso, la dignità delle lenzuola dalla villania del cencio.
Di solito pulisco anche il filtro dell’elettrodomestico.

Gli stracci sono un tipo di pasta in uso soprattutto in Liguria e in Piemonte.

Stracci

Sono di madre piemontese, ma io sono romana.
E a Roma la stracciatella viene servita come introduzione alla pastasciutta nelle situazioni di festa, per esempio, io me la ricordo sempre alla vigilia di Natale, portata in tavola prima degli spaghetti al tonno.
Si tratta praticamente di un brodo nel quale sono sciolte, cioè ridotte a straccio, delle uova, spesso legate con il pangrattato o il semolino.
Artusi chiama questo primo Minestra del paradiso, la definisce «sostanziosa e delicata», però chiarisce che «il Paradiso, fosse pur quello di Maometto, non ci ha nulla a che fare».

La stracciatella di bufala è un formaggio tipico della provincia di Foggia e la sua origine è, giustamente, povera. Essa risale, infatti, a quando i contadini riutilizzavano i residui della produzione casearia mescolandoli con della panna.
C’è anche il gelato alla stracciatella, nel quale la parte miserabile è ricoperta, paradossalmente, dal cioccolato, alimento esotico e nobile.

Ci sono anche gli straccetti di carne, che hanno però la loro bella fierezza, si tratta, infatti, di una pietanza tenera e raffinata, che a me sembra anche bambinesca o donnesca.

Straccetti di manzo

Certi giorni mi sento proprio uno straccio, soprattutto moralmente.
La sensazione mi è sembrata sgradevole fino a che non mi sono messa a ragionare su tutti i cenci che mi circondano.
Alla fine, mica mi dispiace fare parte di questa famiglia di reietti, logori, postumi, che, però, guardati con simpatia, come fa anche certa industria, raccontano una debolezza che, presa per il verso giusto, diventa forza e poesia.

Insomma, se avete ancora bisogno di me, fatemelo sapere, sono buona per il riutilizzo, il reimpiego, il riciclo.
Sono pronta per altri, nuovi e, spero proprio, utili pezzi di vita.

Francesco Guccini, Quattro stracci, 1996