Senza il tuo amore

Murakami Haruki, 1Q84, capitolo 13. Aomane

Con il 50% di probabilità di azzeccarci, sbaglia.
Succede.
Anche se non mi sembra così difficile da capire.
La griglia della cucina a gas si sovrappone ai fuochi, quindi le aperture dell’una e il diametro degli altri corrispondono.
I fuochi sono due grandi, uno medio, uno piccolo.
Se la griglia è messa con le parti invertite, la padella con dentro l’olio che frigge traballa.
Dopo averlo sfilato, non capisce come si rinfila nel supporto uno degli specchi del bagno, quello che mi porto in viaggio per truccarmi.
A occhio e croce mi sembrerebbe un’operazione nelle corde di un bambino di cinque anni.
Volendo proporre un parallelo, è come non capire qual è la scarpa destra e quale la sinistra. Se pure non lo vedi, te ne accorgi quando te le infili.
Le scarpe non sono come i guanti usa e getta, ambidestri. Se fossi mancina salterei su per la discriminazione, chiamateli ambisinistri.
Non sono mancina.
E i guanti veri si distinguono.
Per capire quanto è difficile stare al mondo, basta vedere come l’altra tenta di cambiare il sacchetto dell’aspirapolvere, che ha due versi, di cui uno dovrebbe prendere mentalmente nota, se non basta mentalmente, farsi una foto col telefono o scrivere la nota su un pezzo di carta.
Se si mette il sacchetto dalla parte sbagliata, il coperchio dell’elettrodomestico non si chiude o, se si chiude, la polvere finisce nel motore.
Un’altra ancora, che pure stira bene e fa camicie come corazze, non distingue il dritto dal rovescio, uno dice, guardi, la prego, qui c’è la cucitura.
Se c’è la cucitura, a meno che non sia una creazione di Sonia Rykiel, che aveva questo vizio, o di quella marca di T-shirt che gioca al ribasso sul medesimo campo, siamo al rovescio.

Una casa ha il suo carattere, la sua storia, le sue fisime e le sue trappole.
Qualunque persona se ne occupi, va seguita passo passo, perché altrimenti ti crea qualche guaio.


E qui non stiamo nemmeno a parlare di cose più serie, che ne so, il lavaggio delle tende, l’eliminazione delle macchie.
Mi è capitato di ritrovarmi con tutta una zona di un mobile della cucina bella liscia dopo un intervento della domestica che si era prodigata per eliminare i segni della teiera.
L’unico problema è che i mobili della cucina sono ruvidi e che, per la pulizia, non necessitano di decapaggio.

Ormai mi occupo personalmente della stiro, non riuscendo a venire a capo della piegatura della biancheria. Che decido io, perché la casa è mia ed è mia la biancheria.
Qui, ci sto, siamo davanti a un’operazione culturale complessa e sapiente, come ci racconta Fleur Jaeggy, che è stata educata in un collegio svizzero.
«L’ispezione era al mattino, si aprivano tutti gli armadi: i nostri mucchietti di biancheria e pullover piegati dovevano avere l’aspetto di una muraglia.

Fleur

Come gli orientali, dovevamo conoscere l’arte di piegare la nostra roba».
L’arte di piegare.
(Collegio come confinamento.
In questi giorni l’idea di collegio ci sta benissimo.
Io ho studiato alle scuole pubbliche, tutte pure di quartiere.
Che non erano affatto male).
Una volta, in un corso di novanta studenti, ho detto ai ragazzi di andare a casa, di aprire l’armadio della biancheria e di portare il giorno dopo in Accademia, senza toccarlo, un asciugamano piccolo, quello per gli ospiti.
Gli asciugamanetti erano piegati in novanta modi diversi ed è probabile che almeno le ragazze avrebbero riproposto nella vita il medesimo tipo di piegatura.
Alla piegatura degli asciugamani dei maschi, ci avrebbero pensato femmine provenienti da un’altra famiglia.
Il più strambo degli asciugamani sembrava un dipinto di van Gogh: era di spugna arancione e aveva sopra un sole.

Vincent, Il seminatore, 1888

Il sole era tridimensionale, fatto in stucco.
I raggi erano ricamati.
Cioè uno si asciugava e già doveva asciugarsi in una spugna di colore arancione, cosa che personalmente trovo inaccettabile, poi urtava pure contro il sole di stucco.
Che era fissato tenacemente, in modo da non staccarsi durante il lavaggio.

A un certo punto ho smesso di chiedere agli studenti se le loro madri erano matte.
Mi rispondevano tutti: «Sì».
La madre del sole color arancio doveva essere una degna rappresentante della categoria.

Ieri mi ha telefonato un amico.
Abbiamo parlato. Lui è di Napoli.
Gli ho chiesto che cosa gli mancava in questo periodo di reclusione.
Mi ha risposto le passeggiate al mare e le uscite serali.
Lui ha rilanciato la domanda.
Io ho detto che a me non mancava niente e che questa vita è più o meno quella che conduco normalmente.
Non vado a fare passeggiate al mare e la sera esco solo per fare qualcosa di interessante.
Escludo di uscire solo per vedere gente.
Sto lavorando diversamente dal solito, ma avevo già più o meno pianificato di farlo perché ho i miei soliti problemi di voce, dunque avevo già pensato di eliminare tutta una serie di impegni.
Diciamo che la situazione, ora, è solo un po’ più radicale.
Avendo trovato un fornaio ottimo, esco per comprare il pane fresco.
Vado a comprarmi le mie riviste estere all’edicola a via Veneto.

In uno dei supermercati di cui sono cliente, fino a qualche settimana fa si tolleravano ampiamente ragazzini grandi come vitelli, già in età di fare uso di sostanze stupefacenti e di intrattenere relazioni sessuali, che i genitori facevano accomodare con tutte le scarpe nel carrello.
Essendo per loro lo spazio del seggiolino riservato ai bambini ormai insufficiente.
Adesso entri al supermercato solo con i guanti che ti danno all’entrata dopo che hai fatto un’ora e quaranta di fila.
Come si vede, un sensibile miglioramento del concetto di igiene.
Non ho più guardato i cestini, che un designer avvertito ha progettato in modo che le ruote di ciascuno, una volta impilato, andassero dentro l’altro.
Poi chissà perché i cestini dei supermercati sono sempre così sporchi e nessuno ci fa caso.
Penso spesso a quelli che sul treno si tolgono il cappotto, lo rovesciano dalla parte della fodera, lo piegano e lo mettono sul portabagagli, a contatto con le ruote dei trolley.
(Proprio come i cestini).
Una volta che ho chiesto il motivo di quell’operazione, la persona che l’aveva espletata mi ha guardato con occhi talmente sbarrati che di così sbarrati non ne avevo mai visti in vita mia.
Che ne so, casomai la parte interna di un soprabito è quella che hai più a contatto con il corpo.
Comunque stamattina davanti al fornaio è passato un camioncino dell’AMA con un marziano a bordo e un altro che camminava a fianco e che con una pompa spruzzava la strada.
Ho chiesto se era disinfettante.
Il marziano che stava sul marciapiedi mi ha risposto: «No, è solo acqua».
Strano, a casa mia, il pavimento prima si spazza, poi si lava con lo straccio.
Buttare acqua su una strada dove il pattume non manca, significa sporcarla ulteriormente, le cartacce fradicie, le cicche di sigarette sfrante.
E quante ne vuoi.
Comunque i cassonetti sono sensibilmente migliorati, non dico che sono svuotati regolarmente, dico che non navigano fra montagne di spazzatura come succedeva da un pezzo.
Immagino che si siano messi paura.
Potrebbe scoppiare un’altra epidemia e sovrapporsi a quella già in corso.

Mi chiedo se un artista possa uscire da casa e, munito di autocertificazione, andare nel suo atelier.
Cioè andare a fare il suo lavoro.

Una collega di Milano, incontrata nella prima Accademia in cui ho prestato servizio, mi diceva che aveva lo studio sul medesimo pianerottolo del suo appartamento. Cosa che le consentiva di dividere la vita privata da quella professionale.
Io ho lo studio in casa da sempre. Non ho mai capito perché dovrei dividere le mie vite.
Lei era una gran mangiona e mi diceva che spesso lasciava il saggio al quale stava lavorando, faceva due metri sul pianerottolo e andava a controllare la cottura del lesso.

Magnifica pentola di lesso

A me i mangioni mi stanno simpatici.
Non fanno niente di male e la storia del lesso da controllare mi sembrava una delizia.

In questi giorni ho ripreso 1Q84 di Murakami Haruki.
Lo lessi tutto d’un fiato, 1113 pagine buttate giù senza interruzione.
Due volumi, nei quali ho ritrovato mie sottolineature e mie note che anche oggi mi stanno bene.
Mi sono ricordata di botto che la narrazione è piena di confinamenti.
La trama non è riferibile, troppo complicata, poi, a raccontarla, sembra stramba. Mentre la segui, non è stramba per niente.
Miracolo della grande letteratura.
In questo caso una letteratura assolutamente moderna, talmente moderna che ha, fra le tante cose, anticipato il confinamento.
Il titolo è un omaggio a 1984 di Orwell. In giapponese, inoltre, la lettera Q ha lo stesso suono del numero 9.
Siamo a Tokyo.

Tokyo

I due protagonisti sono Aomane e Tengo.
La prima è una killer professionista.
Il secondo un professore di matematica che ha ambizioni da scrittore e che viene incaricato della revisione di un romanzo di una diciassettenne dislessica, che scrive cose interessanti ma illeggibili.
Insomma, lui è un ghost writer.
Il romanzo ha un grande successo, ma questo poco ci interessa.
A noi interessa il confinamento. E a noi interessano i sentimenti.

Aomane e Tengo si sono incontrati quando avevano dieci anni.
Poi si sono perduti.
E si cercano.
Si cercano per più di mille pagine.
Lui ha un’amante che vede una volta a settimana e che a un certo punto sparisce.
Lei, quando ha voglia di uomini, se ne cerca uno in un bar apposito.

A un certo punto, dopo l’ennesimo omicidio, Aomane è in pericolo e deve sparire dalla circolazione: «- La chiave è sotto lo zerbino, attaccata con il nastro adesivo. L’appartamento è attrezzato con tutto quello che serve per un breve soggiorno, così per qualche tempo non avrai bisogno di uscire».

«Aomane ringraziò e scese dal taxi. Era un palazzo di sei piani, elegante e di recente costruzione, al centro di un quartiere residenziale. All’ingresso non c’era nessuno. Aomane digitò il codice, il portone si aprì, e con un ascensore pulito ma stretto salì al secondo piano».

Ha inizio il confinamento.

«Nel frigorifero, oltre alle lattine di birra, c’era una quantità di cibo sufficiente a resistere, se necessario, più di una settimana. Frutta e verdure, alcuni cibi pronti da poter mangiare anche subito. Nello scomparto del congelatore c’erano vari tipi di carne e di pesce surgelati. C’erano persino dei gelati. Gli scaffali della cucina contenevano una varietà di cibi precotti, scatolame e condimenti. Riso e pasta in abbondanza. Acqua minerale, due bottiglie di vino bianco e due di rosso…».

«Gli asciugamani per il viso e per il corpo erano accuratamente piegati e ordinati in pile nell’armadietto».

«”Ma io amo Tengo”, pensò Aomane».
(Pure se non lo vede da vent’anni, precisi, di calendario. Al peggio, ma pure al meglio, non c’è mai fine).

Che cosa fa Aomane durante il confinamento.
Stretching. Lei è una molto fisica, è una killer e ha bisogno del corpo.
Ammazza il tempo.
Stabilisce in che ordine cucinare e mangiare i cibi, che sono in quantità così grande che «secondo un calcolo sommario avrebbe potuto sopravvivere almeno dieci giorni senza mettere piede fuori di casa. Forse con un po’ di attenzione, e facendo qualche economia, anche due settimane».

Nell’armadio della biancheria in camera da letto tutto è bianco.

L’appartamento è dotato di televisore, videoregistratore, impianto stereo, giradischi e registratore a cassette.
(Ricordate che siamo negli anni ’80).
Una ventina di libri, tutti di recente pubblicazione e in edizione rilegata, sono allineati in una credenza di legno.
Fra i libri, anche quello che Tengo aveva contribuito a far nascere.

E poi una sera Aomane esce sul balcone per guardare la luna.
Indossa una «tuta da ginnastica grigia di jersey e pantofole. In mano aveva una tazza di cioccolata calda».
Vi ho già raccontato qui che in 1Q84 ci sono due lune che, quando sono doppie, indicano un mondo parallelo a quello in cui siamo tutti.
Lei è uscita sul balcone.
Il balcone dà su un piccolo parco.
E in quel parco, seduto sullo scivolo per i bambini, lei vede quel giovane uomo dal fisico imponente, che sta guardando, pure lui, le due lune.

«Aomane era nel balcone al secondo piano e lui laggiù…Poi, tutt’a un tratto, Aomane capì. Quell’uomo era Tengo».
«Il suo corpo massiccio le diede una sensazione di naturale e profonda tranquillità. Aomane desiderò appoggiargli il viso sul petto. Lo desiderò con straordinaria intensità. E con una sensazione di felicità».

Siamo a pagina 676.
Hai voglia.
Lei esita, si chiede che cosa può dirgli, cerca le parole, trema, è confusa, prende un binocolo «della Nikon» (Murakami Haruki è sempre straordinariamente attento ai dettagli), lo guarda, vuole essere toccata da lui, vuole che lui sciolga il gelo che lei ha dentro.
«E poi che mi penetrasse, rimescolandomi con forza. Come si mescola la cioccolata calda con il cucchiaino».
(A questo livello, per me c’è solo una battuta del film Il Club di Jane Austen in cui la professoressa dice a proposito di un allievo, chiamiamolo, intraprendente: «Mi guarda come se io fossi un secchiello di gelato e lui il cucchiaio»).
Lei esita a scendere.
Quando scende, lui è andato via.

Poche storie.
Siamo in confinamento.
E dobbiamo #stareacasa.

Però io ho un balconcino che dà su un giardino.
E mi sa che fra un po’ vado a vedere quante lune ci sono nel cielo.
E anche se ormai penso che non andrò mai a Tokyo dove, pure, fino a un mese fa, sarei voluta tanto andare, nemmeno mi dispiace più di tanto.
Tokyo me la posso pure immaginare da un romanzo.

E poi è successa questa cosa stranissima. Il capitolo numero 13 che, nel corpo del libro, si intitola Senza il tuo amore, nell’indice  compare come Se non ci fosse il tuo amore. 

Strana gente, i traduttori.
Fanno certi errori, di cui ogni tanto ci rendiamo conto.
Ma forse vedono chiaro e vedono lungo.
Ce ne accorgiamo in situazioni fuori dall’ordinario e più fuori dall’ordinario, e pure con questi accenti romanzeschi di avventura, di solitudine metropolitana e di erotismo, più del confinamento, almeno al momento non mi sembra che ci sia niente.