Linda Lomelino

…le petit génie de son métier
(il piccolo genio del suo mestiere)
Marie Ndiaye, La Cheffe, roman d’une cuisinière

Nevermore.  Tre giorni fa ha chiuso il mio albergo, che vi avevo raccontato qui.
Lo ha annunciato su Instagram il giovanissimo staff, tutti così in gamba.
Dopo aver fatto un lavoro costante di comunicazione, foto delle camere, gli esterni, i tetti di Parigi, le belle ragazze a letto con la prima colazione la domenica mattina, è arrivato il momento di tirare giù la serranda.
Del resto un albergo ha senso solo se ci sono gli ospiti.
Anche se quello esordiva con una presenza spiccata nel quartiere, dandoti il benvenuto e poi infilava  tutta una serie di feste, dalla cena libanese, alla lap dance, arrivando fino alla sfilata di biancheria intima, ça c’est Pigalle era la risposta a ogni interrogativo.
Infatti.
Il post di chiusura aveva un tono consapevole e mogio, STAY HOME STAY SAFE, pensano a tutti coloro che fanno parte del corpo medico, ai viaggiatori, ai vicini, ai colleghi, ai confratelli.
L’albergo è «provvisoriamente chiuso fino a nuovo ordine», stringeva il cuore non il provvisoriamente, ma il nuovo ordine.
Quell’ordine, chissà quando sarebbe arrivato.

La poesia di Edgar Allan Poe The Raven (Il corvo), con la quale lui divenne giustamente famoso nel giro di un giorno, racconta la notte di un amante rimasto senza amata. Lui è tristissimo, lei è morta.
A un certo punto sente qualcosa che tocca la sua porta, poi la finestra, il pensiero di Lenora lo sfinisce.

Dante Gabriel Rossetti, The Raven, Angel Footfalls, 1848

E qui entra il Corvo, che si appollaia sul busto di Pallade.
Lui pensa che possa essere un messaggero di lei.
E comincia a chiedergli se e quando la rivedrà.
Tutta la poesia, sufficientemente lunga per avere respiro e sufficientemente breve per essere letta in una sola seduta, vive di onomatopee.
E il Corvo gracchia sempre e solo una parola: «Nevermore».
Lascio perdere i guai che ha procurato il termine ai traduttori.
(Però i traduttori se la sono cavata proprio bene, trattandosi di Baudelaire, «Jamais plus!» e di Mario Praz, «Mai più, ora»).
Penso solo agli incubi che ha causato a un battaglione di giovani romantici quella narrazione. Uno che aveva in casa un busto di Pallade aveva paura a guardarla.
È che quel Nevermore in questi giorni straniti non riesco a togliermelo dalla mente, gracchia anche la mia testa, nessun progetto di viaggio, ho il cuore stretto, soprattutto oggi, giorno in cui per abitudine e rituale di solito mi regalo (mi regalavo) il mio viaggio di studio estivo.
Lo so, certo che lo so che fino a nuovo ordine non significa nevermore, ma tu vammelo a far capire.

Supersonic. A me piace volare. Andrei in aereo pure a fare la spesa. E avevo in progetto di prendere il Concorde, la sola idea di andare da Parigi a New York in tre ore e mezza mi sembrava fantastica.
Il fotografo tedesco Wolfgang Tillmans ha occupato un posto importante nel mio cuore fino a che non è diventato troppo concettuale.
Lui, così legato agli oggetti, era ormai astruso e astratto.
Una volta in Accademia organizzai una Giornata monografica con il cestino del pranzo: due ore di lezione la mattina; pausa; interventi degli studenti nel pomeriggio sulle immagini che avevamo visto.
Fu un successo. Alle 13:30 in punto arrivarono sessanta cartoni con dentro sessanta pizze.
Avevo proibito gli alcolici, fosse stata pure solo la birra, perché temevo eccessi.
Andò benissimo e mi sembrò che i ragazzi fossero contenti nonostante li avessi tenuti a bocca (un po’) asciutta.
Tillmans ha dedicato al Concorde uno dei suoi lavori più importanti.
Lui definisce l’aereo «un’invenzione tecno-utopistica».
Così, l’ha centrato in pieno.

Quando ci fu la sua mostra a Londra, alla Tate Britain, mi misi in viaggio.
Il pomeriggio del mio arrivo me ne andai a King’s Road, dove avevo un paio di negozi che visitavo abitualmente.
Mi ricordo che a un certo punto passò sulla mia testa un oggetto assordante.
Era primavera, era una giornata stranamente calda.
Guardai in alto, poi mi guardai le scarpe, mi ricordo benissimo il marciapiedi con sopra l’ombra dei miei lacci.
Fu un segno come pochi: era l’ultimo volo del Concorde, e mi era passato sopra.
Non ho volato sul Concorde, lo avrei potuto fare per anni, l’idea stava lì e l’accarezzavo, dicevo lo prendo fra due mesi, ci vado l’estate prossima.
E invece, no.
Mi sto chiedendo, e cerco di evitare che diventi un’ossessione, perché non l’ho fatto.
E che altro mi sarebbe piaciuto fare ma mi è sfuggito di mano: per un soffio, per distrazione, perché non ero dell’umore giusto.
Perché le cose sono così: quando accadono, le devi prendere al volo.
E non ci sono scuse se al volo, le cose, non le prendi.

Take your Time. Il tempo in questi giorni è diventato balzano. Già di solito lui gioca sporco: stai in montagna e lui non passa mai; stai con un uomo che ti piace, e lui si contrae; certe lezioni sembrano eterne pure se sulla carta durano quarantacinque minuti; uno dice scendo fra un attimo e l’attimo rasenta l’infinito.
Mi sono resa conto che il tempo del cibo si è dilatato. Io, che pure sono relativamente disinteressata a quello che mangio, nel senso che mi interessa mangiare poco e bene e la sola idea della crapula natalizia mi fa venire voglia del digiuno quaresimale, mi sono scoperta a occuparmi del cibo.

Albrecht Dürer, Melencolia I, 1514, part. con la clessidra

Il pranzo, la cena; oggi a pranzo e oggi a cena;  domani a pranzo e domani a cena.
Mi ricordo che quando andai a trovare la mia amica di università a casa dei suoi a Cosenza, lei una volta sbottò e disse che si stava sempre a mangiare.
Avevo anch’io la medesima sensazione.
Mi ricordo che una volta in viaggio per me di lavoro c’era un gruppetto che parlava solo di dove avrebbero mangiato, a pranzo e a cena. L’argomento suscitava discussioni, confronti all’ultimo verbo, prove di forza, roba per me inconcepibile.
I musei che avevamo in calendario diventavano robetta in confronto alla ristorazione.
Per carità, anche quella è cultura, uno viaggia pure per sapere come si sta con le gambe sotto al tavolo e che cosa ti mettono nel piatto.

À la bonne heure! Vi ho raccontato qui il mio rapporto con la lettura.
Che sbilenco era e sbilenco è rimasto, pure in isolamento.
Ne ho approfittato però per riprendere un romanzo che ho abbandonato due volte.
Con tutto che lo trovavo bellissimo, con la sua scrittura sontuosa e l’argomento, di massimo interesse. Ieri mi veniva in mente che forse ho timore di finirlo.
A parte che posso rileggerlo, mi sono sentita come quello che non mette le scarpe nuove per non sciuparle e mi sono chiesta se per caso non ci fossero anche relazioni che rimangono così, sospese, per motivi analoghi.
La Cheffe racconta una cuoca, narrata dal suo assistente e innamorato, non ricambiato.
Forse perché lei è concentrata solo sulla sua cucina,  che vive come un’avventura erotica e spirituale.
Lui pensa di lei che lei sia «una grande artista» e che il caso ha voluto che le sue propensioni trovassero nella cucina un terreno di prova.
In altre circostanze lei si sarebbe espressa e realizzata nella pittura o nella scrittura.
«La Cheffe non amava che io considerassi le cose così, non pensava di avere un’inclinazione particolare, un talento che le fosse proprio, soltanto la chance di essere organizzata, lavoratrice, intuitiva e di ospitare in sé, senza garanzia che fosse per sempre, il piccolo genio del suo mestiere».
Quando la Cheffe apre il suo ristorante, lo chiama la Bonne Heure, un nome «allegro, semplice, facile da ricordare», che lei aveva in mente da tempo visto che ogni giorno, da sempre, lei sentiva la madre esclamare a ogni proposito: Alla buon’ora!
Un po’ come faceva mia madre, che ripeteva continuamente: con tutti i sentimenti.
E infatti, eccoci.

The Cat is on the Table. Mi sono rimessa a studiare matematica. Per un anno, in passato, presi lezioni e fu una serie di scoperte.
Andai pure a visitare il Museo della Matematica qui a Roma, alla Sapienza, nell’edificio progettato da Gio Ponti, raccontai quello che stavo facendo al direttore, una squisita signora, che mi invitò a tenere una conferenza da loro, accanto a grandi nomi.
Professionalmente, niente mi fa paura.
Considerai questa cosa paradossale e divertente, feci una bella uscita a modo mio, presentandomi così: «Buongiorno, sono un’aliena», quando ci penso, ancora rido, la sala era piena di gente e me la cavai disinvoltamente, raccontando le infinite relazioni che ci sono fra l’arte e i numeri.

Emma

Applausi.

Poi smisi perché il mio professore non capiva quanto ero lenta.
Ho ricominciato daccapo, mi ero comprata i libri di Emma Castelnuovo, studiosa di cui avevo sentito dire un gran bene da parte degli allievi.
Lei è morta ultracentenaria e ha un linguaggio limpido, legato alla vita, che capisco pure io.
Ho ricominciato dall’inizio, ma poco male.
Vuol dire che la mia preparazione avrà basi più consistenti.
E poi la matematica a me serve a razionalizzare i pensieri, a mettere nero su bianco, mi dà l’accesso, per quanto minimale e da dilettante, a un mondo i sacerdoti del quale, ovvero coloro che la capiscono, suscitano in me un sentimento di venerazione.
Ho ritirato fuori la mia calcolatrice scientifica, il mio manabile di Matematica, un librettino piccolo piccolo con tutte le formule, il quaderno.
Se vi fa piacere, vi darò notizie dei miei studi.

La pazza gioia. Ieri ho fatto la prima riunione via Skype con i miei nuovi studenti. Avevo chiesto loro di presentarsi in mezzo foglio A4 e lo hanno fatto nei giorni passati, poi abbiamo dato avvio alla nostra conoscenza.
Quando chiedo loro di presentarsi in aula, aiuto sempre un po’ perché sono impacciati e non trovano subito gli argomenti.
Per cui chiedo io se hanno fratelli, se vanno d’accordo con loro o se pensano spesso di liberarsene in modo cruento, se hanno animali, che cosa vogliono fare dopo l’Accademia.
Di che segno sono e quando sono nati.
Per iscritto, nessuno ha fornito queste informazioni spicce, che a me sembrano invece importanti.
Ieri, allora, ho chiesto di integrare.
Abbiamo anche visto il cane di uno dei ragazzi, che lo è andato a prendere e lo ha messo di fronte alla videocamera.
Un barboncino di nome Junior.
Quando è arrivato il giro del giorno di nascita, non ho potuto ignorarne una in particolare.
E ti credo, perché il caso ha voluto che io e questo ragazzo, che si chiama Marco, fossimo nati il medesimo giorno.
La dico tutta: oggi.
La dico meglio.
Come sappiamo, il Tempo è il più acerrimo nemico delle donne, quindi c’è poco da festeggiarlo, il compleanno.
(Anche se io non sono mai stata così bene come adesso).
Lo dico sempre alle ragazze, evitate di farla troppo lunga a venticinque anni, perché poi la gente se lo ricorda e si fa i conti.
Il tempo, potete imbrogliarlo, è consentito e legittimo e poi il compleanno è una faccenda personale, uno fa il punto della situazione, mica è obbligatorio mettere su una torta quei razzi terribili che ho visto più volte, come se le candele non fossero più sufficienti.
E si dovesse per forza passare al pirotecnico.
Comunque, siccome sono riuscita a far perdere tutte le mie tracce, di solito mi fanno gli auguri solo le persone che se lo ricordano.
Nonostante tutto.
Oltre, ovviamente, a quelli dell’assicurazione della macchina e dei negozi, ai quali non mi sento di presentarmi sotto un altro segno zodiacale, perché, tutto sommato, ci tengo.
Dunque, stamattina è stato inevitabile.
Ed è arrivata dai miei nuovi studenti una gragnuola di faccette e palloncini e cotillon  e arcobaleni e bottiglie di spumante e calici che facevano cin cin.
Ce li siamo divisi equamente io e Marco, che è divertito tanto quanto me per la coincidenza.
Non solo.
Siccome, per i motivi che sappiamo, oggi non mi sono potuta regalare il mio viaggio di studio dell’estate prossima, ho deciso di darmi, per una volta, alla pazza gioia.
Come dicevo al telefono a una collega preoccupatissima per il lavoro e il resto, qui ci manca solo che ci preoccupiamo, visto che non sappiamo quanto tempo ancora staremo dentro il tunnel e, soprattutto, se ne usciremo.
Le ho anche detto che lei qualche risorsa spirituale dovrebbe averla, nonostante l’insonnia che le è venuta e la depressione che l’attanaglia, le ho detto di studiare, di prepararsi delle lezioni, di fare qualcosa che avesse a che fare con l’arte.
Altrimenti, perché di arte ti occupi.
Se non pensi che sia salvifica e se non sei capace a tirarne fuori le risorse.
Soprattutto adesso.
Forse l’ho trattata un po’ brutalmente, però, come dicono i miei studenti, ci stava.

Non amo i dolci e trovo quasi tutte le torte che vedo in giro poco invitanti, approssimative, stortignaccole, se ne può pure fare a meno.
Essendo la pasticceria una delle arti più raffinate che ci siano al mondo e richiedendo, essa, una perizia e un talento ineguagliabili.
Però anch’io ho le mie torte predilette: quelle di Linda Lomelino, che trovate qui.

Lei vive in Svezia, a Halmstad, una cittadina di 66.124 abitanti.
L’equivalente da noi di Maccastorna, provincia di Lodi, che io nemmeno sapevo che facesse provincia e che naviga al momento in cattive acque.
(Ennesima prova della mia teoria secondo la quale il talento è un fiore di campo e nasce dove gli pare).
Ho comprato i suoi libri.
Ho comprato via internet i suoi props, che sono gli attrezzi di scena dei fotografi e dei registi, per quanto la riguarda le posate e altri piccoli oggetti, portacandele e poi stampe, che lei, a un certo punto, ha messo in vendita.
Lei fa torte fantastiche ed è una fotografa senza pari, un po’ malinconica, suggestiva, piena di atmosfera.

Quelli che si fanno gli auguri da soli per il loro compleanno mi fanno strano, se non altro perché se li fanno in pubblico.
Lo abbiamo capito, che l’epoca è all’isolamento e che lo era anche prima che questo isolamento qui ci cascasse fra capo e collo.
Ma preferirei esprimermi diversamente.
E oggi sono pure uscita e me ne sono andata a spasso e ho visto le prime pattuglie di controllo che mi è capitato di vedere, faceva freddo e le file fuori dal supermercato, dalla banca e dal negozio di detersivi erano brevi e più sgranate del solito.
Ho parlato un momento con una mendicante buttata per terra in una via Appia deserta, le ho detto: «Andiamo male, eh».
Poi le ho dato dei soldi, il cuore stretto, peggio che con il mio albergo.
Dalle mie parti ha riaperto un fornaio con una nuova gestione.
Mi sono detta, rientrando, andiamo a vedere.
Un cliente alla volta, tutti, dentro, con guanti e mascherine.
Avevano anche delle tortine di mele e ne ho comprata una.
Era ancora calda.
Stasera ci metto sopra una candelina.
Linda non ne sarà gelosa, lei sa quanto la stimo.

La candelina, comunque, non è per me, bensì è per il mio studente, che, compiendo vent’anni, certamente ci tiene.
E ha ragione a tenerci.
Dunque, buon compleanno.

Speriamo che il prossimo ventitré marzo sia migliore.
E che riapra il mio albergo.
E che io possa farmi il mio consueto regalo: il mio bel viaggio di studio estivo.

(Comunque, stasera, Champagne, torta di mele, candelina.  E pazza gioia).