Arianna addormentata, sec. II o III d. C.

La porta e il portone. Secondo me, quando qualcuno vi dice che chiusa una porta si apre un portone, avete tutto il diritto di guardarlo in tralice.
Ma tu che ne sai.
A quel punto, è meno ipocrita un su con la vita, generico ma a modo suo consolatorio, almeno non ti senti uno scalognato.
Il modo di dire sembra che derivi da Alexander G. Bell, l’inventore del telefono, che ebbe molto successo dopo parecchi fallimenti.
Ciò che mi colpisce, dopo un rapido controllo, è che il detto in inglese e in francese non parla di un portone, ma solo di porte.
Ma quand’è che noi italiani siamo diventati così spropositati.
In ogni caso, il fatto che oggi vi racconto è uno dei pochi che dimostrano la giustezza dell’asserzione.


Ma, per cominciare, altre due citazioni.
1. «Cavalleresco: architetto che prima progetta la porta e poi te la apre», Michele De Lucchi nel suo delizioso Gli attributi dell’architetto.
2. «Quando si chiude una porta, si può aprire di nuovo, perché di solito è così che funzionano le porte», Albert Einstein, che taglia la testa al toro.
E, a proposito di tori, mettiamone subito uno in scena.
Cattivissimo.

Personaggi. 1. Il Minotauro, una specie di freak col corpo umano e la testa taurina non sappiamo quanto infelice, nato dall’unione della madre Pasifae con un toro.
Lei era sposata con Minosse, re di Creta e evidentemente aveva bisogno di distrarsi.
(Il grande grattacapo delle donne, da Madame Bovary, avanti e indietro: la noia).
Il Minotauro, che era impresentabile, venne chiuso in un labirinto e ogni anno pretendeva in pasto sette ragazzi e sette ragazze ateniesi.
Tutti gli venivano concessi per via di un vecchio conto in sospeso che qui non vi sto a dire.
2. Teseo, eroe vissuto in Atene una generazione prima della guerra di Troia.
Dopo una serie di imprese mirabolanti, si offre per accompagnare i ragazzi che erano il tributo al Minotauro e farlo fuori.
(È arrivato Cacini).
Per indicare l’umore dell’impresa, il padre gli fornisce delle vele nere, da sostituire con vele bianche al ritorno a casa nel caso la missione fosse stata coronata da successo.
3. Arianna, figlia di Minosse e di Pasifae, dunque sorellastra del Minotauro.
Perde la testa per Teseo, lo aiuta con il famoso filo che l’avrebbe condotto fuori dal labirinto, spera che lui la porti via con sé e la sposi (voi che sapete: come sono le donne).

La storia. Teseo uccide il Minotauro, esce dal labirinto, imbarca Arianna.
Ma l’abbandona sull’isola di Nasso.
C’è pure chi sostiene che da qui viene la locuzione «piantare in asso».
Lei, tristissima, vuole morire.
Nell’opera Ariadne auf Naxos di Richard Strauss/Hugo von Hofmannsthal, che sono pure loro, proprio come Mozart/Da Ponte, un po’ Mogol/Battisti, c’è un bellissimo tentativo di consolare la giovane donna da parte di Zerbinetta, una maschera della Commedia dell’Arte, che le dice che gli uomini sono fatti così, infidi, una breve notte, un rapido giorno, un moto dell’aria, il lampo di uno sguardo, tutto cambia il loro cuore.
È successo anche a lei.
(Andiamo bene).
Qui trovate l’interpretazione dell’aria di Zerbinetta di una deliziosa Sabine Devieilhe.
Ma non si capiscono le parole. E che ve ne importa, abbandonatevi alla leggiadria di questa voce, a me capita regolarmente di non capire la vita, cosa forse più grave, visto che non trovo da nessuna parte un libretto o una traduzione che mi aiutino.
Ma, stavamo dicendo, se si chiude una porta, si apre un portone.
Quindi ecco che arriva l’uomo cui Arianna è destinata.
Più portone di così.

Vi presento Dioniso. Secondo me, non c’è gara.
Davanti a uno come lui, Teseo fa la figura del cioccolataio.
Nato da Giove e da Semele, Dioniso ha una vita a dir poco avventurosa.
È il dio della viticoltura, dell’esaltazione dei sensi, della gioia e della festa.
Ha armi e arti magiche.
Lui è la glorificazione dell’ebbrezza, fisica e spirituale.
Tutto il contrario di quel musone di Teseo, che casomai era pure astemio e che, per quanto trionfante, è talmente stordito da dimenticare di cambiare le vele da nere a bianche quando rientra.
Il padre vede da lontano quei segni di lutto dovuti alla distrazione e si suicida, gettandosi in mare.
Orfano e pieno di sensi di colpa.
Ben ti sta, così impari ad abbandonare le donne su un’isola.
Nel frattempo, Dioniso, di ritorno da uno dei suoi viaggi esotici, passa proprio da Nasso, vede Arianna, se ne innamora e la sposa.
Teseo, tesoro, ti chiamo io quando sono un po’ più libera.
Per darvi conferma di quanto detto, vi mostro un gran bel Bacco (più o meno la versione più recente di Dioniso), giovane e piuttosto canaglia, così come appare nel dipinto di Velázquez Los borrachos, che tradotto significa Gli ubriaconi.

Diego Velázquez, Los Borrachos (Gli ubriaconi), 1628

Accanto al dio, così carnale, c’è uno dei suoi accoliti, che sarà pure rozzo, ma che tiene il calice proprio come un sommelier.

Biglietto n° 24. L’Arianna addormentata (sec. II d. C.). Solo per motivi di veniale campanilismo scelgo la versione dei Musei Vaticani dell’opera protagonista del biglietto di oggi.
Perché c’è una statua del tutto simile anche agli Uffizi, che vi mostro, in modo che possiate fare un confronto.

Arianna addormentata, Uffizi, Firenze

Comunque, mia nascita a parte, l’Arianna romana è la migliore delle repliche di un originale ellenistico perduto.
E non stupisce, davanti a un soggetto così suggestivo, che esso sia stato  più volte replicato e che il modello in bronzo della scuola di Pergamo, databile al sec. II a. C., diventi per noi un fantasma e un oggetto di desiderio.
Arianna è addormentata in una posizione elegante e scomoda, il viso appoggiato al dorso della mano sinistra, il braccio destro sopra la testa, l’abito che le è scivolato scoprendo un seno, il panneggio annodato, ripreso, sontuoso, che ci riporta alla bella descrizione che Giovanni Becatti fa di quelli raffinatamente virtuosistici di centri fra cui lo studioso comprende anche Pergamo: «i panneggi… acquistano un complesso fluire di pieghe profonde, di lembi fastosi, di plastici rotoli, di groppi, di nodi».
Quasi un guscio, una corazza che pure rivela lo splendore del corpo, che la replica degli Uffizi spoglia un po’ di più.
Dunque, vulnerabilità e sensualità, con l’offerta di sé che esprime qualunque creatura addormentata.
Ritenuta a lungo una Cleopatra per via del bracciale con il motivo del serpente che indossa su un braccio, e la regina d’Egitto si suicidò facendosi mordere da un aspide, Arianna nei secoli è stata oggetto di molte attenzioni.
La replica degli Uffizi, per esempio, è stata pesantemente restaurata, con aggiunte, integrazioni, sostituzioni, addirittura entrate e uscite nelle collezioni museali fiorentine, delle quali non fu ritenuta degna «per quel poco che ha d’antico».
Ma così come era uscita dagli Uffizi nel 1794, Arianna ci ritorna nel 2012.
Evidentemente, in questi nostri tempi in cui non si capisce perché su un corpo femminile tutto debba essere autentico e in situ fin dalle origini, anche lei è stata presa così com’è, pure con qualche rilettura e revisione.
Ma qui non parliamo solo di restauri e occupiamoci quindi dell’attenzione che le hanno riservato artisti che a lei si sono ispirati.
Per esempio Tiziano, che cita la sua posizione e il suo splendore fisico nel dipinto del Prado Il baccanale degli Andri, dove vediamo l’isola prediletta da Bacco, Andros, nelle Cicladi, dove si celebrano il vino e i suoi effetti.

Tiziano, Baccanale, 1526

La ninfa nell’angolo inferiore destro, esausta e voluttuosa, deriva evidentemente dal modello del nostro biglietto di oggi, forse desunto da un sarcofago sul quale pure compariva e che era stato disegnato e riprodotto da artisti del Nord Italia.

Tiziano, Baccanale, 1526 part.

Per non parlare di De Chirico, greco di nascita e di educazione, per il quale il mito di Arianna sembra essere stato un filo conduttore di molta della sua produzione.
Vi propongo come esempio la Malinconia del 1912, che introduce anche il nostro MaxiSorbetto di aprile,  Il sapore dello spleen.

Giorgio De Chirico, Melancolia, 1912

Perché tutte queste donne sembrano più malinconiche che disperate, e noi sappiamo quanto uno stato d’animo differisca dall’altro e soprattutto quanto la malinconia sia il luogo della creazione, l’invaso all’interno del quale si trovano la forza e le vie d’uscita che sono estranee alla disperazione.

Le notizie. Il lunedì abbiamo ormai lanciato il nostro corso di storia dell’arte Fare ordine nel disordine: Suprematismo (Russia); De Stijl (Olanda); Bauhaus (Germania), quest’anno una Stagione unica con 11 Episodi, tutti irresistibili.
Giovedì 24 marzo con il Sorbetto op. 70 Primavera non bussa degustiamo una stagione che è l’incarnazione medesima del concetto dei Sorbetti: nuova, fresca, aperta alle innumerevoli possibilità che ci sono in ogni inizio.

Il titolo. Tutte queste donne, ciascuna a modo suo, abbandonate, suscitano la mia simpatia e mi fanno venire in mente una cosa che ho letto in un’intervista a una brava scrittrice italiana dei nostri giorni.
Lei ha raccontato di aver visto in un ospedale di Roma questa scritta: «Se non potete guarire, curate; se non potete curare, consolate».
Non potendo io per via della lontananza nel tempo e nello spazio né guarire, né curare, mi trasformo a modo mio in Zerbinetta e scelgo per cullare il loro sonno la più bella barcarola che mai sia stata composta, quella che con due note e due voci è capace di creare l’incanto.
Ed ecco per loro, ma anche e soprattutto per voi, il brano de Les Contes d’Hoffmann (I Racconti  di Hoffmann) di Jacques Offenbach/Jules Barbier interpretato qui da Anna Netrebko e Elīna Garanča, vestite da libera uscita.
«Belle nuit, ô nuit d’amour / Souris à nos ivresses / Nuit plus douce que le jour / Ô, belle nuit d’amour! / Le temps fuit et sans retour / Emporte nos tendresses / Loin de cet heureux séjour / Le temps fuit sans retour  / Zéphyrs embrasés / Versez-nous vos caresses / Zéphyrs embrasés /Donnez-nous vos baisers!»
Stavolta però vi traduco io le parole:
« Notte bella, o notte d’amore / Sorridi alle nostre ubriacature / Notte più dolce del giorno / O bella notte d’amore! / Il tempo fugge e senza ritorno / Porta via le nostre tenerezze / Lontano da questo soggiorno felice / Il tempo fugge senza ritorno / Zefiri incendiati / Versateci le vostre carezze / Zefiri incendiati / Dateci i vostri baci».
La barcarola è una melodia cullante che si ispira al canto dei gondolieri e che si affaccia tutte le volte che in una scena compare Venezia oppure un altro luogo d’acqua.
Qui l’azione si situa in diversi posti nei primi anni del XIX secolo.
Nell’atto IV siamo appunto nella città lagunare e due interpreti cantano la barcarola del titolo: la cortigiana Giulietta, soprano; l’amico del protagonista (Hoffmann, poeta) Nicklausse, contralto.
Il contralto è una donna.
Ovvero, qui siamo davanti a un ruolo en travesti, «quel personaggio d’opera che richiede una voce di sesso diverso da quello rappresentato».
Se state pensando che l’argomento è tremendamente attuale, siete nel giusto. E come sempre, l’arte, in questo caso la musica, la sa molto più lunga della cronaca e del contingente.
Perché, altrimenti, che arte sarebbe.

State bene e fate cose belle che, pure se non vi guariscono, e spero che una guarigione non vi serva, vi consolano.
E poi aprite tutte le porte chiuse che volete aprire.
Tranne casi disgraziati che stanno soprattutto nelle favole (vedi Barbablù), le porte chiuse sono fatte per essere aperte.
E entrate prendendo esempio dalla primavera: sicuri. Stavolta non c’è bisogno di bussare.

*L’illustrazione di apertura è di Lorenzo Rocco


** L’assistenza tecnica, attenta e solerte, ovvero impagabile e consolatoria, è di Virgilio Piccardi
*** Dalla #80 della scorsa settimana, ritorno a pubblicare le Newsletter sul mio blog, con il décalage che giustamente richiede l’invio settimanale agli abbonati. Rubrica: Ispirazione. E ci mancherebbe