Dal catalogo Merchant & Mills  

Mais oui. Si sa, tutto quello che è francese è aggraziato e allusivamente sexy, vere nuziali, scarpe, culotte.
Tutto quello che è americano è pratico, semplificato, facile da gestire.
Oh Yeah.
Ed è stato così che i letti, certo, non il mio, hanno perso i bottoni.
O meglio, le federe dei loro cuscini, ritrovatesi con una chiusura «a busta», cioè senza asole e senza quei deliziosi dischetti di madreperla a quattro buchi che, d’accordo, ogni tanto si staccavano e bisognava riattaccare.
Ma se non sei capace di attaccare un bottone, al mondo, che ci stai a fare.

Ricominciamo.
Avevo messo da parte tutta la mia vicenda con i bottoni, che a un certo punto si era delineata chiaramente e sulla quale ho lavorato per un pezzo.
Poi, lo sappiamo, le cose cambiano e pure noi non siamo più gli stessi.
In seguito, però, c’è stato l’acquisto.
E tutto è ritornato fuori e pure con prepotenza.
Adesso vi racconto.

Per prima cosa vi presento i miei nuovi blue jeans.
Eccoveli.
Essi sono stati un po’ una deviazione rispetto a quello che cercavo, però c’è un senso nelle cose che accadono, quindi, le cose, le ho lasciate accadere.
Entrata a Parigi nel negozio della mia marca prediletta con l’idea di acquistare degli skinny, che sono dei blue jeans molto aderenti per togliere i quali ci vuole il cavastivali, sono uscita con dei cropped, che sono, invece, dei blue jeans tagliati corti, con la gamba dritta.
Li aveva addosso, in un colore diverso, la vendeuse che me li ha proposti, mi stavano bene, e, soprattutto, avevano i bottoni.
Se vi sembrano un po’ provati dall’uso, sappiate che li ho indossati solo due volte, insomma, sono nati così.
E non ho alcuna intenzione di cambiarmi per i prossimi cinque/sei mesi.
Rassegnatevi a vedermi, o a pensarmi, con i bottoni.

Voi prendete una camicia da uomo e poi prendete una T-shirt. Ditemi quale è più bella. Senza dubbio la prima, una camicia si sbottona, è come sbucciare un frutto, una maglia si toglie dalla testa, c’è sempre un po’ il senso dello spogliatoio della palestra.
Insomma, poi però dipende da quello che uno ci trova dentro e sotto, l’una e l’altra.

I bottoni hanno una serie di regole loro connesse: per esempio, si dice che se ne perdi uno e non lo ritrovi uguale, devi cambiarli tutti.
Io ho cominciato a cucire bottoni diversi su un paio di maglie, il risultato mi sembra interessante e, soprattutto, liberatorio.
L’abbottonatura varia fra maschio e femmina, ma, mi dicono, in Giappone il nostro verso si inverte.

Due artiste hanno lavorato sui bottoni.
Si chiamano Alexandra e Zoé, vivono a Strasburgo, Francia, e raccontano in un libro delizioso che loro si interessano all’Altro e che dunque hanno dato vita a questa ricerca documentaria, che indaga i rapporti fra arte e società.
Provocano degli incontri e li registrano in modi diversi, scrittura, intervista, film. Chiamano i loro documentari paesaggi umani e questo nome mi sembra bellissimo.
Hanno deciso di interpellare delle persone, tutte anziane, attraverso i bottoni. Hanno inviato una cartolina nella quale si presentavano e pregavano il destinatario di spedire loro un bottone accompagnato da una storia.
Hanno annotato il loro indirizzo.
Hanno imbucato alcune cartoline nelle cassette di una casa di riposo, si sono messe a cercare altre persone, hanno lavorato sull’evidenza che il bottone di un abito «è un pretesto per risvegliare i ricordi di un’epoca passata: la guerra, mestieri oggi scomparsi o ancora aneddoti intimi».

La risposta è stata caldissima.
Tutte le storie sono scritte a mano, tranne una, quella di Jeanne P., che usa il computer perché sta facendo un corso di informatica.
Tutti i bottoni stavano in una scatola, anche voi avete sicuramente una scatola dei bottoni.

Per cui queste persone sono andate a prendere la loro scatola, hanno cercato un bottone particolarmente significativo, l’hanno messo nella busta o cucito sulla carta e hanno spedito la loro lettera.

La corrispondenza di Alexandra e Zoé

Le storie narrate sono infinite, tutte piene di sentimenti, un bottone dorato con un’ancora, per esempio, aveva decorato la divisa di un ingegnere del Genio Marittimo, padre della mittente e combattente nella Grande Guerra, per vivere tutta una serie di avventure, costruzione di imbarcazioni, tour del Mediterraneo, ricostruzione dell’Arsenale di Brest dopo la Seconda Guerra e l’Armistizio, poi Parigi e anche l’America, poi il pensionamento e, finalmente, una nuova partenza per Strasburgo.

Il libro di Alexandra e Zoé

Un bottone bianco era attaccato a una «blouse de travail», un indumento che, con il grembiule, proteggeva la madre di una famiglia con sette figli nella cura dei bambini piccoli, nei lavori domestici e in quelli specifici della cucina, nell’accudimento degli animali, del giardino e dell’orto. La sua semplicità rispetta e rispecchia «l’ambiente caloroso di una grande famiglia, nel corso degli anni in cui è bello vivere fra genitori e gli altri membri».
Qualcuno invia una fettuccia con cuciti sopra dieci bottoni, uno dei quali rotto, con la storia di ciascuno di essi, bottoni da bambino in forma di animale, semplici bottoni di madreperla, un bottone ricoperto di stoffa fatto in casa in anni di povertà.
Un filatelico accanito manda un bottone e chiede in cambio dei francobolli.
Un altro è attaccato su una cartolina con una fotografia di una pianta di Botton d’oro, con i suoi fiori gialli.

Botton d’oro, praticamente dei ranuncoli

Un vedovo ricorda il giorno in cui andò con la moglie a fare la spesa al supermercato e aveva il portafogli in una tasca del giubbotto che avrebbe dovuto avere un bottone di sicurezza ma il bottone si era staccato e stava sulla sua scrivania in attesa di essere ricucito. Il portafogli scivola dalla tasca e cade in macchina, lui se ne accorge solo dopo, si preoccupa, si spaventa, lo ritrova, finalmente risistema tutto, scrive e saluta le due ragazze con un consiglio che possiamo fare nostro: sempre abbottonare ciò che ha bottoni.
La cosa più bella è che Robert ha inviato loro proprio quel bottone, non un altro. Cioè lo ha staccato, spedito e sostituito.

C’è un «Piccolo orfanello trovato nella sala di aspetto del mio luogo di lavoro».
Mi sono resa conto che anch’io raccolgo e conservo sempre un bottone che trovo, manco lo avessi perso io.

Ci sono le merciaie.
Ci sono i collezionisti.
C’è il bottone armadillo, con un’illustrazione dell’animale.
C’è una nota con la quale tutti concordiamo: quando si buttano gli abiti, si conservano i bottoni.
Si è aperta una diga, diciamo meglio, la ricerca delle due artiste l’ha aperta, e un flusso di narrazioni e ricordi ne è uscito fuori.
Il libro, stampato in 1000 copie nel 2006, è di una ricchezza umana incommensurabile.
Come sempre davanti a un’idea geniale di arte, ci viene da dire perché non ci ho pensato io, pure io ce l’avevo tutta in mente ma non ero capace di esprimerla.

Trovai il libro, o il libro trovò me, perché quell’anno avevo deciso di lavorare sui bottoni. Insegnavo Storia della moda in Accademia, quindi il progetto ci stava benissimo.
Per prima cosa, cominciai a farmi dare un bottone da tutte le persone che incontravo con le quali avevo un rapporto affettivo.
Dicevo ci vediamo lì a quell’ora ma tu ricordati di portarmi un bottone.
A qualcuno il bottone l’ho chiesto per corrispondenza.
Ho anche organizzato uno scambio, una scatola con dei bottoni dalla quale se ne poteva prendere uno mettendone, però, un altro.
Mia sorella mi dette un bottone di metallo con sopra una specie di divinità orientale che, io ricordavo benissimo, stava su un golf di angora grigia di mia madre.
D’accordo, la madre era di entrambe, quindi, nostra.
Mi arrivarono bottoni di camicia, bottoni gioiello, bottoni senza storia, un bottone fu rubato da una busta che mi giunse con un taglio, era un bottoncino tipico di una zona di campagna campana, evidentemente, al tatto, fece gola a qualcuno.
Quattro bottoni mi sono rimasti nel portafogli, incollati sul soffietto interno, ogni volta che prendo una moneta, li vedo e dico ora li stacco.
Finora non li ho staccati, nemmeno mi ricordo chi me li ha dati, ma se si sono attaccati con tanta tenacia, forse non vogliono lasciarmi.
Mi procurai bottoni vintage e carte di bottoni, che sono degli oggetti fantastici, soprattutto quando non hanno i bottoni attaccati sopra.
Vi mostro qualcuno dei miei tesori nascosti.

Le carte dei bottoni sono sulla sinistra, pensavo di usarle come segnalibri ma temevo di rovinarle.
Vedete anche una lettera con dei bottoni attaccati sopra, se non ricordo male, è di una mia studentessa che si era fatta regalare dalla nonna quei segreti gioielli.

E feci lavorare sul tema i miei studenti, ai quali assegnai il compito di realizzare una loro carta dei bottoni, alcuni costruirono personaggi con bottoni cuciti al posto degli occhi, uno arrivò all’esame avendo confezionato un’intera giacca, visitai mercerie storiche di Napoli, un collega mi regalò tutto il contenuto del barattolo dei bottoni che stava nell’ingresso di casa sua da sempre, rientrai a Roma, pesai la busta e vidi che faceva 313 grammi, un dono di una generosità che non dimentico.

Cominciai a pensare che quello che aveva inventato la chiusura lampo era una persona che voleva boicottare il gusto dell’abbottonare e dello sbottonare.

Insomma, un cretino totale.

Ricordai che un’amica che si era sposata con il classico abito bianco mi aveva detto che la cosa che più le piaceva in esso era la fila di bottoni che lo chiudeva sulla schiena.
Mi tornò in mente un paio di scarpe con i tacchi e i cinturini e questi ultimi erano chiusi da un bottone. Esso era fissato su un elastico, quindi era possibile indossare la calzatura senza slacciarlo. Ma, al negozio, il titolare si era quasi commosso, il bottone aveva anche la sua asola, cioè il livello di artigianato in fabbrica era tale che avevano ritenuto doveroso completare la lavorazione con un dettaglio del tutto inutile dal punto di vista funzionale, ma che era importante per la qualità dell’accessorio.
Al contrario, mi è capitato di acquistare un piccolo cardigan di ottima marca e di dover assicurare tutti i bottoni prima di indossarlo perché erano stati cuciti a macchina e bastava tirare il filo per staccarli.
Una caduta imperdonabile.

Camicia button-down

Conoscete tutti la camicia button-down.

Sapete che c’è la stanza dei bottoni, che è un centro di potere importante.

Quando salite in ascensore, azionate una bottoniera scegliendo il piano dove dovete andare.
Allo stesso modo, continuamente nella giornata giriamo o premiamo un bottone.

I tasti della fisarmonica si chiamano bottoni.

Fisarmonica

Ogni comando manuale dell’organo si chiama bottone.

In quella meraviglia che è la nostra bocca, per la precisione nella nostra lingua, c’è un bottone gustativo, in cui risiedono le cellule del gusto.

Un bocciolo di fiore si chiama bottone e il termine viene da bouter «colpire, buttare, germogliare».

Bouton de rose

In francese la derivazione è diretta, vi mostro un «bouton de rose», del quale vi faccio omaggio.

Spero di non avervi attaccato un bottone, nel senso di un discorso inutile e noioso.

Comunque, con voi non sono mai abbottonata e non è che non mi sbottono, nel senso di essere laconica, anzi.

E mi fa piacere salutarvi oggi con un formaggio delizioso.

Bouton de culotte

Si chiama Bouton de culotte, è fatto di latte di capra della Borgogna, ha un sapore piccante e andrà benissimo per completare la vostra cena.
Che significa il nome?
Ma è facilissimo: bottone di mutandina.

E siamo ritornati al tema iniziale, quello di un indumento.
Esso ha provocato l’articolo di oggi, partendo dai miei nuovi blue jeans con i bottoni, che dopo tutto questo ragionarci sopra mi stanno ancora più simpatici.

E per il titolo ho usato il verso di una canzone, dove c’è un bottone e dove c’è un’asola.
Casomai parliamo un’altra volta del genere dell’uno e dell’altra, perché se ci mettiamo a pensare al ruolo di entrambi e a come un bottone si infila bene nella sua asola, qui finisce che non la finiamo più e che, soprattutto, cominciamo a capire sul serio perché i bottoni sono dotati di una suggestione così bella e potente.

Fosse che fanno pensare ad altro?