Totò, Peppino e la malafemmina, 1956

Con Totò c’è solo un avverbio di differenza.
La versione della domanda è: «Per andare dove dobbiamo andare, come dobbiamo andare?».
Lui chiedeva per dove, a un vigile urbano locale.
La differenza fra Napoli e Milano sta invece tutta nel corno che il principe de Curtis porta attaccato al panciotto: al Nord non hanno bisogno di fortuna.
Ma lasciamo i due viaggiatori alle prese con la ricerca della malafemmina di cui si è invaghito il nipote e torniamo a noi.
Ovvero al problema che hanno tutti i romani quando devono andare da qualche parte: come fanno ad andare?
Mezzi pubblici insufficienti.
Parcheggi inesistenti.
Non ci si crede, che una metropoli grande e importante come Roma possa avere un problema strutturale così pesante, quello di non sapere come andare da una parte.
Uno poi si abitua, però appena esce fuori un confronto con un’altra città, si afferra lucidamente il lato surreale della situazione.
Altro che Totò e Peppino.
Io ho sempre abitato in quartieri dove non c’era parcheggio.
Dove sto adesso ho risolto con il garage, che è un luogo per me molto importante, che compensa tutte le mancanze con la quantità di servizi che offre.
Servizi non solo legati alla macchina.
Dentro ci tengo pure la bicicletta.
Lì mi faccio consegnare, come fanno tanti clienti, quasi tutti i pacchi.
Da loro passo a fare un saluto, chiedere notizie delle ferie, vedere la fine di una partita.
Sono aperti diciotto ore al giorno per sette giorni a settimana, tutto l’anno. Questo significa che mi è capitato solo due volte di lasciare la macchina per strada.
Ma avevo davvero fatto tardi.


I titolari sono due cugini, credo per parte di madre, visto che hanno cognomi diversi.
I garagisti sono sei e con ciascuno di loro ho un rapporto diverso.
Quello col quale vado più d’accordo è il primo che ho conosciuto.
Lui è uno dei pochissimi che mi fanno domande personali; da ragazzo ha fatto il camionista; è un uomo che non ha studiato perché non ne aveva voglia ma che è molto intelligente.
Per esempio fa considerazioni sulla lettura alle quali non tutti arrivano, dice che è un impegno che richiede continuità, che se tu guardi, mettiamo, le istruzioni per l’uso del POS, mentre leggi il punto 3 devi ricordarti che cosa c’era scritto al punto 2, altrimenti perdi il filo e non capisci come procedere.
Con Proust succede la medesima cosa.
A lui io pago il mese; a lui porto i doni natalizi e pasquali che mi sembrano sempre inadeguati rispetto a quello che ricevo, diciamo che è il gesto, che è il pensiero.
Da lui mi faccio consigliare faccende di assicurazione, tagliando, cambio delle gomme.
A Roma si dice chi tocca bambino diventa padrino, fateci caso, è sempre così, c’è, all’inizio, un contatto privilegiato, che rimane impresso come un marchio.
L’altro giorno lui mi diceva che la figlia più piccola, con la quale pure ho un dialogo  perché capita che stia col padre durante il turno e che ogni tanto io le offra una bibita al bar, diceva, dunque, che la ragazzina lo preoccupa perché è troppo umorale.
In quinta elementare si era classificata seconda a una specie di Olimpiade della Matematica che aveva coinvolto tutta la scuola.
Alle medie non saliva oltre il cinque.
Adesso, primo anno Geometri, ha finito con un otto.
Perché va a simpatia e studia solo se le piace il professore.
Studenti che vanno a simpatia, attenzione, non professori, come si sostiene spesso (ed è praticamente sempre vero).
Si è rovesciato il mondo.
Un paio di giorni dopo una persona a me molto vicina mi ha raccontato che a scuola studiava poco il francese perché non le piaceva la professoressa e che studiava parecchio l’inglese perché le piaceva il professore.
A distanza di anni, questo era ancora un pensiero vivissimo, capace, fra l’altro, di agire sulla distanza: leggo volentieri l’inglese ma non il francese.
La Treccani definisce la simpatia un «sentimento di inclinazione e attrazione istintiva verso persone, cose e idee».
Rimaniamo sulle persone.
Non sta scritto da nessuna parte, e nessuno potrebbe sostenerne la necessità, che un professore debba essere simpatico.
Uno che insegna dovrebbe, nella sostanza, conoscere bene la sua disciplina e saperla trasmettere.
Che già così non è roba da poco.
Se poi deve essere anche un conoscitore dell’animo umano, ci sto; come ci sto per la vivacità dell’esposizione (altrimenti ti addormenti); per la capacità di tenere in mano una classe (che è qualcosa di molto simile a un circo con dentro delle belve e se siete entrati in una sala dove eravate uno contro venti, trenta, cinquanta, cento sapete di che sto parlando. Ma anche con le belve si riesce ad andare d’accordo); per la lucidità e la prontezza dell’organizzazione.
Ma che c’entra la simpatia con tutto questo.
C’entra, evidentemente. Perché i risultati lo dicono chiaramente, senza quel sentimento di inclinazione e attrazione istintiva la scuola non funziona.
Nessuno sceglierebbe il chirurgo, il sarto, il macellaio o il parrucchiere sulla base della simpatia, sarà perché quelli tagliano e il taglio è una cosa, giustamente, incisiva, che interrompe una continuità e a me non sembra un caso che si dica tranchant per indicare qualcosa di deciso e di perentorio, talvolta anche di ostile.
Uno va da quel chirurgo perché è bravo e perdona casomai al macellaio una certa ruvidezza per avere in cambio una buona bistecca.
Ma, come abbiamo capito, con la scuola questo ragionamento non funziona, con la scuola bisogna che entrino in campo l’inclinazione e l’attrazione.
Altrimenti è un guaio, che getta la sua ombra sui decenni a venire.

In questa seconda metà del mese di luglio abbiamo un paio di Sorbetti freschi e piacevoli da gustare.
L’op. 63 è A letto con…, titolo che ho preso da una serie di incontri con artisti, chef, DJ e altri amici del mio ultimo albergo di Parigi, che sta a Pigalle e che organizza (organizzava) anche un’attività di quartiere, di intrattenimento e di scambio con talenti locali, piccoli produttori e anche con gli abitanti della zona che, se non vanno in vacanza, sono invitati a passare una notte nell’hotel a metà prezzo (può essere un’idea).
La faccenda del letto del titolo allude all’intimità dell’atmosfera e anche alla collaborazione con una marca di pigiami.
Da parte mia sto elaborando un Sorbetto nel quale ci sono letti diversi e umori complementari.
Attacchiamo con il mio immancabile galateo degli anni ’50, La Vera Signora di Elena Canino, che dà indicazioni molto precise su come deve essere il letto della destinataria di tutti i preziosi consigli dell’autrice.
Certamente non come quello rappresentato da Properzia de’ Rossi, scultrice vissuta fra Quattro e Cinquecento, a proposito di Madame Putifarre, dal quale fugge il casto Giuseppe, probabilmente spaventato dal suo aspetto arruffato.

Properzia de’ Rossi, Giuseppe e la moglie di Putifarre, 1520

Talmente arruffato che, fra tanti svolazzi, il giovane non distingue il proprio mantello e lo lascia lì, dando alla donna la possibilità di vendicarsi del suo rifiuto, accusandolo di tentata violenza (mica solo a scuola, le parti si invertono).
Meglio, molto meglio per la signora il letto dipinto da Carpaccio per Sant’Orsola.

Che però, lo dice l’autrice stessa, «non manca di inconvenienti: rigido, scomodo e casto, suggerirà spesso al marito di cercar morbidezze altrove».
Canino, e allora perché lo consigli.

Carpaccio, Sogno di Orsola, 1495

La verità è che con i mariti non si sa mai come comportarsi, come fai, o fai bene o fai male, senza che ci sia una logica.
Tale e quale a quello che accade a scuola, fra professori e studenti e fra studenti e professori.
Bisogna essersi simpatici a vicenda o è meglio essere seri e bravi.
Casomai sarete voi a illuminarmi.
State bene e fate cose simpatiche, che poi sono sempre quelle che lasciano il ricordo più bello.

* L’illustrazione di apertura è di Lorenzo Rocco

Lorenzo Rocco per la Newsletter de Il sole al guinzaglio

** L’assistenza tecnica è di Virgilio Piccardi
*** Sul mio blog è in pieno svolgimento la serie estiva che si chiama Replica, con cose diverse e con un carattere che mano a mano diventa più chiaro. Anche per me. Perché le cose, si sa, si fanno da sole, così nel matrimonio come nei blog. Figuriamoci a scuola