Porta Asinaria, Roma

Voi prendete, per esempio, la porta Asinaria.
Già il nome è simpatico, anche se non si sa se sia legato davvero agli asini che percorrevano la via dal medesimo nome o alla gente Asinia.
Poco male.
Intanto ve la mostro, e ditemi voi se non è bella.

Bella come sono belle tutte le porte di Roma, che si aprono nelle mura urbane, queste ultime una delle più autentiche cifre della Città Eterna, l’unica fra le capitali europee ad averle conservate e mantenute efficienti, grazie alla cura dei papi, per ben sedici secoli.
Se volete capire davvero il fascino di Roma, fate il giro, anche solo parziale, delle Mura Aureliane, la cui costruzione fu avviata nel 271 dall’imperatore da cui trassero il nome.
E guardate le porte. Quelle antiche, Tiburtina, Maggiore, la nostra Asinaria, Latina, San Sebastiano, San Paolo; e quelle moderne, a firma di artisti della portata di Michelangelo e Bernini.
A quel punto dimenticherete i disagi che la città causa a chi la abita.
E forse saprete perdonarli, visto che tanta bellezza deve pur avere un qualche prezzo da pagare per essere goduta.


La porta Asinaria a me è familiare per il semplice fatto che le passo davanti spesso.
Essa è vicina alla porta San Giovanni, punto di partenza dell’Appia Nuova, sulla quale apre la via in cui io abito.
Sapete quando si dice essere di casa.
In questi giorni di agosto in cui la città è sollevata dal peso del suo traffico perenne, ecco che le sue linee sono più leggibili.
L’altra settimana, per eccesso di zelo e diffidenza, avevo caricato troppo il parchimetro e mi avanzava del tempo.
A quel punto, sono andata a parcheggiare la macchina da un’altra parte e ho fatto un giro a piedi verso la basilica, il cui respiro mai mi era sembrato così vasto.
(Peccato il caldo).
E mai mi ero accorta che la porta Asinaria avesse per così dire un suo parco, gestito dalla Sovrintendenza Capitolina, che gli dedica anche una scheda, come sempre completa e ben fatta, e contiguo ai giardini di via Sannio, inaugurati dopo la riqualificazione nel febbraio di quest’anno.

Giardini di via Sannio, Roma

Belli anch’essi, soprattutto per i blocchi di travertino ritrovati durante i lavori della metro C e appartenenti al portico costruito sotto l’imperatore Claudio che sono stati rimessi là dove stavano e per il filare di cipressi, piantati dove c’era il colonnato.
Il mio era lo stato d’animo di quello che vede la sua città per la prima volta.
«Être hors de chez soi, et pourtant se sentir partout chez soi», essere fuori di casa, e ciò nondimeno sentirsi ovunque a casa.
Questo è Baudelaire nel suo Il pittore della vita moderna, per la precisione al capitolo III, dove c’è il tema della convalescenza che, per forza di cose, in questo momento mi sta a cuore.
Per Baudelaire il convalescente opera una specie di ritorno all’infanzia, perché, come il bambino, ha la facoltà di interessarsi vivamente alle cose, anche alle «plus triviales en apparence».
Se volete tradurre triviale con banale, potete farlo.
Ma, insisto: se solo potete un po’, leggete Baudelaire in originale.
Nessuna delle traduzioni che conosco utilizza un linguaggio moderno come il suo.
Esse sono tutte un po’ agghindate, retoriche, imbalsamate è il termine giusto.
(E mi scuso con i traduttori, che fanno un lavoro difficile, pure quando sarebbe meglio andare sul facile).
E la poesia, come è noto, non è traducibile. E Baudelaire è poeta pure quando scrive in prosa.
Ma dicevamo, lo stato d’animo del convalescente.
Quello in cui nessun aspetto della vita risulta «émoussé».
E pure qui potete tradurre con attutito.
Ma nell’originale c’è il senso della mancanza della mousse, che è la schiuma.
Pure Venere è nata dalla schiuma del mare, non devo ricordarvelo.
E spumeggiante si può riferire allo champagne, a un abito, a una conversazione, a una donna.
Insomma, ci siamo capiti: una vita senza schiuma, che vita è.
Questo e altro mi passava per la testa davanti a spazi urbani di solito farciti di macchine, ai quali mancava fra l’altro l’attributo fondamentale della folla, che Baudelaire considera il dominio dell’artista, «come l’aria è quello dell’uccello, come l’acqua quello del pesce».
Dunque, un quadro incompleto e stranito, però non privo di fascino.
Fosse solo perché ero nello stato d’animo del convalescente.

La notizia è che ci sono poche notizie.
Ho buttato giù un primo calendario per il nostro Corso di storia dell’arte In volo sul XX secolo, che arriva al suo secondo anno e che, nelle intenzioni, inizia lunedì 4 ottobre con l’Episodio pilota.
E che, viste le informazioni, intendo proseguire on line, con la possibilità di qualcosa di ibrido, ovvero in presenza, se la situazione lo consentirà.
E poi ci sono i Sorbetti.
Che mi stanno così tanto a cuore e che sono stati la vera novità del periodo che ci siamo lasciati alle spalle.
E che vorrei riprendere appena possibile, anche se non riesco ancora a stabilire quando.
Perché per farlo ho bisogno di poter contare sulla mia voce, che si è affacciata, ma senza volume né durata.
E la voce bisogna lasciarla in pace, perché porta con sé non poche bizzarrie, e una sua logica interna, secondo la quale si protegge dagli sforzi che la vorrebbero più capace di prestazioni rapide nel modo più semplice ed efficace: negandosi.
Non sia mai.
Sto qui e aspetto.
State bene, fate cose belle e ricordatevi del bambino, che «vede tutto in novità…qualunque essa sia, viso o paesaggio, luce, doratura, colori, stoffe cangianti, incanto della bellezza imbellita dalla toilette».
Di nuovo la toilette, così vicina al cuore di Baudelaire (che è quello che ho citato qui sopra) e alla quale abbiamo dedicato due Sorbetti, l’op. 19 e l’op. 20.
Il bambino che è, inoltre, sempre ivre, ovvero ubriaco: di ispirazione e di gioia.
E ricordatevi del convalescente.
Al momento e se posso (certo che posso), della vostra professoressa.
Che non vede l’ora di ritrovarvi, in pienezza, voce e gioia.

* L’illustrazione di apertura è di Lorenzo Rocco


** L’assistenza tecnica è di Virgilio Piccardi
*** Se avete voglia, vi ricordo il mio blog, al quale mi dedico in questo tempo strano di agosto, troppo vuoto ma anche troppo pieno, come qualunque tempo che si rispetti
**** Questa è la Newsletter #50. Che arriva nel mezzo dell’estate e in una situazione precaria, ovvero fragile e malferma. Ma che mi sembra lo stesso, anzi, proprio per questo, un traguardo, da celebrare con almeno quattro asterischi