VERSO LE GUIDE, 4. MORE GEOMETRICO: FIRENZE

Firenze, foto Maria Di Pietro

Facoltà di Lettere. Università La Sapienza.
L’Aula è grande ma non enorme, sobria. Solo tre file di sedie sono dotate di tavolo sul quale appoggiarsi per scrivere. Hanno anche piccole luci.
Arrivano mano a mano studenti diversi, tutti giovani, ma si capisce che ci sono le matricole, i laureandi, i perfezionandi.
Tutti in attesa del Maestro.
Che si manifesta, seguito da un corteo di assistenti adoranti.
In mano ha una lunga bacchetta con la quale indicherà alcuni punti nelle immagini e che batterà a terra seccamente, un po’ come facevano in passato i direttori d’orchestra per dare il tempo e gli attacchi.
Lui impartisce al tecnico l’ordine di cambiare diapositiva.
Un attimo di buio, luce, immagine.
Il silenzio è totale. L’atmosfera è di emozione sospesa.
Il Maestro comincia a parlare e comincia per me una fascinazione della quale sono vittima ancora oggi.
Una magia. Una malia.
Ho 19 anni. Esco da quell’aula, nella quale sarei tornata tutti i giorni e ho bene in mente che la vita mi mette davanti a un’evidenza: sarò storico dell’arte.
Se non sarò storico dell’arte, sarò infelicissima.

Pensavo da sempre che avrei fatto qualcosa che avesse avuto a che fare con le parole. Probabilmente, Italianistica.
Al primo anno, alla prima lezione di una disciplina che avevo inserito perché, a detta di tutti, era indispensabile per la mia formazione, ecco che la mia strada scartava con violenza in un’altra direzione; il botto fu analogo a quello di Saulo sulla via di Damasco.
Si chiama vocazione.
Per me si chiama vita e si chiama Storia dell’arte.
E quella di cui si occupava il Maestro era la Storia dell’arte moderna, che inizia con una data, un fatto e un luogo precisi: 1401, Concorso per la seconda porta del Battistero. Firenze.

da sin.: Lorenzo Ghiberti, Filippo Brunelleschi, Sacrificio di Isacco, 1401

Sei mesi di studio sui due volumi del manuale. La prima cosa che impari è che Brunelleschi, a destra, è più audace di Ghiberti, che vincerà il concorso e che è ugualmente uno immenso. Solo, l’attacco del primo è troppo moderno: nel suo Sacrificio di Isacco, tema del concorso, c’è addirittura contatto fisico, Abramo il figlio lo sta per ammazzare per davvero, l’angelo arriva e in quella situazione concitata decide di afferrare la mano al carnefice, mica gli parla: agisce.
Solo il povero ariete non ha capito che ci andrà di mezzo lui fra breve, sostituendo la vittima.
A sinistra, in basso, esce dalla cornice la citazione de Lo Spinario, che dice chiaramente l’interesse dell’artista per il classico.
Ghiberti, orafo, elegante, ancora voltato verso il gotico, fa una cosa profondamente diversa, diciamo più digeribile, con Isacco che porge il petto e l’angelo che se la prende comoda.

Comincio a frequentare Firenze come posso. La prima visita agli Uffizi fatta con gli occhi aperti suscita in me un’emozione violentissima.
Io che non sono timida per niente, provo timidamente a chiamare per nome alcuni artisti, come fanno i miei libri. All’inizio è un balbettio: Arnolfo, Ambrogio, Piero.
Poi vado più spedita.
In una delle prime sale rimango interdetta davanti al Bambino della Presentazione al tempio del Lorenzetti, che si ciuccia il dito in quella situazione ufficiale.

Ambrogio Lorenzetti, Presentazione al tempio, 1342, part.

Caravaggio, Bacco, 1595, part.

Masaccio comincia da subito a inquietarmi per la sua durezza. Botticelli è ben più complesso di quanto non mi era sembrato al primo approccio. Piero mi tranquillizza. Leonardo mi affascina. Michelangelo da subito mi schianta. Raffaello avrò modo di conoscerlo meglio in seguito.
Il Bacco di Caravaggio ha le unghie orlate di nero ed è vero che sullo stelo della coppa che tiene in mano c’è il riflesso della finestra della sua bottega.
Per non parlare del vino appena versato, che ancora si muove, è tutto a piccoli cerchi.
La bevuta sarà violenta.

Da una delle vetrate, come in un film, vedo S. Miniato al Monte, anch’essa contrassegnata da quella dicromia che qui è un marchio di fabbrica: bianco di Carrara e serpentina del Monte Ferrato, una roccia più nota come verde di Prato, il cui colore, così ornamentale, tocca diversi toni del verde, dal chiaro al quasi nero, e può anche presentare screziature gialle e verdi. Essa è simpaticamente chiamata «pietra ranocchiaia».

Chiedo ufficialmente al ministro che sia dato il permesso a un professore di prendere a calci nel sedere lo studente che sta in Accademia e che non conosce l’autore della cupola di S. Maria del Fiore.
Comincio da subito con Brunelleschi una tresca che va avanti ancora oggi e che, anzi, si è arricchita negli anni di motivi diversi.
L’orgoglio. I panni dell’artigiano gli vanno stretti. Disprezza l’Arte de’ maestri di pietra e legnami, alla quale appartengono tutti i lavoratori edili. Quindi, pure lui.
Si rifiuta di pagare le tasse. Lo sbattono in galera il 21 agosto del 1434: deve avere sofferto il caldo come solo a Firenze.
Ma sta lavorando alla cupola fantastica, quindi il Capitolo del Duomo interviene e lui viene liberato dopo 11 giorni.
Quando c’è una specie di ammutinamento dei capi muratori, lui li licenzia tutti in tronco.

Filippo Brunelleschi, Cupola di S. Maria del Fiore, sec. XV

Li riassume con un salario più basso, così imparano a seccare.
Le maestranze protestano di continuo: devono lavorare a quell’altezza senza alcun tipo di protezione. Quanto si lamentano questi.

Alla fine, guarda che meraviglia hanno fatto.

La sua cupola, possente eppure leggera, che si innalza nell’aria con quel gioiello di accordo cromatico del laterizio con il marmo, la vedi subito, appena arrivi alla stazione.
La vedi e pensi: «Firenze».
Ci sono salita sopra più di una volta. Lì capisci che è davvero autoportante, a spina di pesce, lì capisci l’impresa.

Fantastico spesso sull’amicizia fra Brunelleschi e Donatello, sui loro viaggi a Roma, immagino finiti sempre ubriachi all’osteria e al bordello. Una vera amicizia virile, di quelle che le donne non intaccano.
Per arrivare ad apprezzare Donatello ho impiegato anni. Mi faceva paura, era uno deviato, mi obbligava a rimangiarmi tutto quello che imparavo faticando di continuo sul Rinascimento.

Donatello, Cantoria, 1438, part.

Questo è matto totale, questo ha perso il controllo.
I putti della sua Cantoria non sono dei ragazzini, sono degli ossessi, è probabile che siano tutti ubriachi già di primo mattino, un po’ come Dioniso, che, rimasto orfano di madre, viene prima cucito in una coscia del padre, che poi è Zeus, fino alla nascita e poi affidato da Mercurio, certo, non uno stinco di santo, a Sileno perché lo cresca. L’unico dettaglio è che il dio vive in un perenne stato di ebbrezza.

Donatello, Cantoria, 1438, part.

Ma tu guarda che ti combina questo. Dove è finito il rigore, dove sta la simmetria, la quiete superiore, il raggiungimento di un ideale di sapore classico.
Perché questi si agitano tanto.
Infatti, a proposito della Cantoria, il Maestro parla di opera dionisiaca. Non si scappa. Pure Dioniso è un classico, e ciò nonostante la sua irregolarità, il carattere fumantino,  lo squilibrio perenne.
Sono costretta a rivedere tutto il mio vocabolario. A ricominciare a vivere daccapo, azzerandomi.

Una volta rimango sola nella sala del Museo dell’Opera del Duomo dove c’è la sua Maddalena lignea.
Siamo vicini alla chiusura, questi sono i momenti che io chiamo effetto Belfagor, potermi aggirare in solitudine perfetta fra le opere d’arte, senza che nessuno mi cacci, mi chieda, mi parli.

Donatello, Maddalena, 1455, part.

La statua è alta più o meno quanto me. Siderata, mi avvicino, la guardo.
Lei, che era bellissima, si è ridotta così nella penitenza dell’abbandono del suo Signore. I capelli, che erano il suo vanto, la divorano, è vestita di stracci, sdentata, scavata, il fantasma di se stessa.
Quanto, quanto deve aver pianto. Quanto deve esserle pesata quella lontananza.
Provo un sentimento profondo di paura. Adesso lei si muove e mi afferra al collo e stringe.
Adesso lei mi contagia con il suo mal d’amore. Solo le braccia sono rimaste belle, lo scultore le ha ben tornito i muscoli.
Imploro una teca, non è sopportabile avercela così davanti, a portata di mano, quelle sue mani da strega, quelle sue mani oranti.

Mi salva un custode, che mi invita a uscire perché si è fatta l’ora di cena.

Ribollita, pappa col pomodoro, bistecca.
A Firenze mangio locale.
Frequenti e reiterate ubriacature di rosso, tanto per entrare di più nel sentimento del viaggio.

Benvenuto Cellini, Perseo, 1554, part.

Un’altra tresca la imbastisco con il Perseo, che frequento a lungo.
«Innanzi che io muoia lascerò di me un tal saggio al mondo, che più d’uno ne resterà maravigliato».
E ci riesce perfettamente, il Cellini.

Benvenuto Cellini, Perseo, 1554, part.

Pure qui, una donna infelice.
Violentata da Poseidone mentre si reca al tempio di Atena, trasformata dalla dea per gelosia in un mostro (vatti a fidare delle donne guerriero), Medusa è sempre ritratta terrificante e terrificata, in bilico fra lo splendore fisico e lo spavento.
I suoi bellissimi capelli si trasformano in serpenti e lei vive la terribile situazione  di non poter essere guardata da nessuno, una condanna atroce per una donna. Se qualcuno la guarda, diventa di pietra.
I francesi si sono pure inventati il verbo méduser, che significa qualcosa di simile all’essere paralizzati dalla sorpresa.

E allora l’eroe magnifico, quello col corpo da saltatore in lungo, la libera da se stessa, le dà la pace. La uccide con il trucco dello scudo, nel quale la vede riflessa.
Benvenuto Cellini ci mostra qui Perseo nel suo trionfo, la spada ricurva, dono di Mercurio, sguainata al punto giusto, quindi, eretta come un pene, il volto concentrato, la testa di lei è esibita, il corpo con il capo mozzato giace ai suoi piedi.
Un momento di unione profonda, come spesso accade, fra vittima e carnefice.
Dal sangue di Medusa nasce Pegaso, il cavallo alato.
Lo cavalca Perseo, quando libera Andromeda.
Lo cavalca Bellerofonte, quando uccide la Chimera.
Una piccola consolazione post mortem, generare la cavalcatura di un paio di eroi, per una donna condannata a un destino orribile.

Lavoro alla Guida di Firenze nella seconda metà di agosto. Lavoro sicura e quasi senza inciampi, la città mi esce fuori dalla memoria e dalle ricerche rigorosa, geometrica, non ci sono, in essa, diverticoli stilistici, perdo subito il conto di quante volte ci sono stata, tantissime.
Riemergono, invece, limpidissimi, i temi dei miei viaggi, una suddivisione rigorosa, fatta di volta in volta e poi rimessa insieme: il viaggio dei Cenacoli, con quello di Andrea del Castagno che mi sconcerta; quello solo Beato Angelico, con il viatico della novelletta di Tabucchi; quello per vedere la Deposizione del Pontormo restaurata; il tutto Leon Battista Alberti; il tutto pittura; il solo architettura; la volta del Bargello; l’Antico Setificio Fiorentino, con i damaschi e i broccati che hanno i nomi delle grandi famiglie che li commissionano; la musica, per il Maggio e la Pergola, dove una volta vado a sentire Julia Fischer perché ho letto una sua intervista e la vedo pure stizzita perché le si rompe una corda del violino, che butta a terra, rabbiosamente (sto parlando della corda); i miei alberghi; i miei ristoranti; compro un paio di orecchini in un negozietto che si rifornisce al Monte dei Pegni; cinque cucchiaini d’argento rigorosissimi dall’antiquario davanti a Pitti, che mi propone prima di darmene uno in prestito, poi di tornare la settimana successiva (avevo un impegno professionale) per acquistare anche gli altri quattro dopo aver usato quello in prova, per le mie colazioni.
Compro in un negozio di modernariato un magnifico vaso di vetro verde degli anni ’50 che mi portano, tutto bello imballato, nel mio albergo e che sta a farsi ammirare sul tavolo del mio soggiorno.

Vado a vedere, quando gioca in casa, Michelangelo.

Michelangelo, David, 1504, part. Foto Maria Di Pietro

Chiedo al Ministro anche il permesso di cacciare a male parole dall’aula durante gli esami chiunque non abbia mai visto un Michelangelo di persona. Ma forse, per questo, non mi serve né il permesso, né il ministro.
Lo faccio più o meno regolarmente. Poi, casomai, quando lo vedi e te lo trovi davanti, capisci che cosa intendo e capisci che cosa ti perdi se non fai quest’esperienza.
Non ci sono possibilità di sostituzione, l’immagine non serve, il cinema fa alzare le spalle, forse la letteratura potrebbe avvicinarsi, però devi trovare quella giusta.
Dunque, va’ e guarda.
Guarda l’eroe gigantesco e straordinario, alto, con la sua base, 517 centimetri. Guarda il suo essere simbolo di Firenze, città che, nonostante il confronto con forze apparentemente superiori alla sua, seppe dominare per decenni l’Italia.
Guarda il giovinetto ardente e un po’ sbruffone che si presenta da Saul e gli dice adesso ve lo ammazzo io, quel Golia di Gat, il campione dei filistei.
Rifiuta pure l’armatura che gli viene offerta, lui, quando era pastore, più di una volta ha dovuto difendere le sue greggi, una volta da un lupo, un’altra da un orso, lui prende solo cinque sassi per la sua fionda e li mette nella sua scarsella.
Ma Michelangelo figurati se si distrae con i dettagli. Niente bisaccia.
Una volta mi sono messa lì e ho fatto la conversione: avevo letto che Golia era alto sei cubiti e un palmo. Essendo il cubito pari a cm 50 e il palmo pari a cm 25, il tipo era alto m 3,25.
Niente male, per un uomo umano.
Poi, però, il Libro di Samuele, che racconta il fatto, non aveva pensato che sarebbe arrivato un artista capace di rilanciare l’offerta e di sovvertire l’ordine.
L’eroe è nudo.
La sua è una storia di erotismo e di malinconia: danzerà cinto solo di un perizoma di lino, in preda a una gioia frenetica, davanti all’Arca dell’alleanza, per intenderci, quella di Indiana Jones; sarà ritratto mentre, divenuto re, suona la cetra per scacciare la tristezza.

Michelangelo ce lo mostra armato solo della sua magica fionda, fieramente concentrato, che guarda lontano.
Sappiamo come va a finire. Il ragazzino atterra Golia colpendolo in fronte con uno dei suoi sassi, poi, afferrata prontamente la spada dell’avversario, gli taglia, con essa, la testa.
Nelle intenzioni dell’autore, l’eroe avrebbe dovuto incarnare la volontà di libertà della Repubblica fiorentina.

Per noi, oggi, il David è diventato altro: uno splendore fisico che non conosce paragoni; la metafora del bene che vince sul male; la parabola di colui che, armato solo della sua virtù e delle sue mani, ciò che potremmo tradurre con qualcosa di molto simile al talento, sconfigge chiunque gli capiti a tiro.
E poi l’eroe di Firenze, la sua superstar.
Il motivo di una Guida e di un viaggio.

Michelangelo, David, 1504, part. Foto Maria Di Pietro

2 Comments

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  1. Bellissima la descrizione della Maddalena lignea,mi ha colpito profondamente e violentemente, forse perché in questo periodo mi sento esattamente come lei.
    Complimenti sempre per la passione delle sue parole, delle descrizioni minuziose ed elaborate che anche le persone semplici come me possono apprezzare

    • Lucia carissima, grazie a lei (noi siamo al lei, vero?), leggo con grandissimo piacere le sue parole. Secondo me è possibile entrare e uscire dallo stato di quella Maddalena lì, che è ritratta in uno situazione che non avrà soluzione, il deserto, il digiuno, l’assenza. Se ci fa da specchio e ci dice qualcosa di noi, è ora di prendere provvedimenti. Grazie della lettura, grazie di questa presenza, che è per me preziosa e importante. L’altro giorno ho visto delle mele cotogne e l’ho pensata intensamente. Un affettuoso abbraccio, stretto e nostro

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