Jeff Koons, Puppy, 2004

Conosco persone che hanno un cane.
Conosco persone che hanno due cani.
Conosco persone che hanno tre cani.
Quando i cani cominciano a essere tre, mi viene sempre da chiedere come mai, un po’ come mi viene da chiedere come mai a quelli che hanno quattro figli, casomai tutte femmine.
Se posso chiedere, chiedo. Se posso, nel senso se sono in rapporti tali da poter fare questo tipo di domanda: come mai questa cupidigia in fatto di cani.
O di figli.
Comunque, le persone sono sempre molto contente di raccontarti il perché e il percome dei cani.
(Anche il perché e il percome dei figli).
Per esempio, l’ultimo in ordine di tempo, il mio nuovo idraulico, che ha sostituito il mio idraulico storico quando questo ha deciso di smettere di lavorare. A ottantadue anni.
Il mio nuovo idraulico l’ho conosciuto tramite il tecnico dei rubinetti in una prima emergenza.
Piccola.
E mi è sembrato uno perbene, simpatico e bravo.
Adesso, poi, che l’ho visto sul campo alle prese con un’emergenza grande.

È successo che martedì notte, il telefono segnava le quattro, mi sono finalmente decisa ad alzarmi per vedere come mai i pesci rossi facevano tutto quel rumore, quando di solito la notte dormono.
Quella volta lì, no, era un rumore di acqua continuo, come se saltassero dentro e fuori la vasca.
Perché, quell’inquietudine.
Ma loro erano tranquillissimi.
Solo, la mia stanza da bagno aveva a terra almeno dieci centimetri di acqua.
Ho lasciato uno scarico chiuso e un rubinetto aperto.
No, era lo scaldabagno, che buttava fuori liquido, il termostato indicava che probabilmente stava scoppiando.
Ho aperto tutti i rubinetti, ho salvato il salvabile, la bilancia completamente affogata, il phon che è sempre attaccato, il termoventilatore, il mio bidoncino danese, una delle cose cui più tengo nella mia casa.
Ho impiegato un’ora, tutti gli stracci e due grossi accappatoi di spugna, per asciugare.
Poi ho capito che dovevo chiudere il rubinetto generale dell’acqua, perché lo scaldabagno continuava a riempirsi e, appena si riempiva, ricominciava a buttare fuori acqua.
Mi sono fatta i complimenti perché non ho perso nemmeno per un attimo il mio sangue freddo.
E poi i pesci stavano bene.
Alle sette e quarantacinque ho mandato il primo WhatsApp.
C’era scritto «Ho un’emergenza».
Alle undici l’idraulico è venuto una prima volta, ha fatto una diagnosi, strano, uno scaldabagno di ottima marca con ancora nove mesi di garanzia.
Spaccato.
Due giorni senza acqua calda.
L’acqua gelida tonifica.
Poi, ieri mattina lui è tornato con il ragazzo albanese e lo scaldabagno nuovo.
In tre ore, con gli idraulici e Irina, abbiamo rimesso tutto a posto.
Nella mia stanza da bagno, una presenza nuova e scintillante, in effetti quell’altra mi ingombrava, chiatta com’era.
Questa è così snella.
E, mentre facevamo amicizia, l’idraulico mi ha fatto vedere i suoi tre cani.
Tutti uguali, uno, una femmina, con una molletta a forma di farfalla sul ciuffo che le sarebbe dovuto ricadere sugli occhi.
Gli ho chiesto di raccontarmi il perché e il percome, ma al secondo cane e mezzo ho perso il filo della narrazione.
I tre cani, degli Shih tzu, erano fotografati in tutte le salse, anche allineati davanti alla lavatrice, nella quale giravano le loro pallette.
Di spalle, la spilletta con la farfalla non si vedeva, quindi erano indistinguibili.
Delle fotocopie.
E sono buonissimi, non protestano mai se tardano a uscire, dormono nella loro cuccia, vengono a sciare.
Dei pupazzi.
Ricordavano un po’ il cane di Martin, il protagonista di Medianeras, un delizioso film argentino, in cui lui è rimasto con il cane che gli ha lasciato la fidanzata lasciandolo e lui descrive il cane come una via di mezzo fra un peluche e non mi ricordo che altro.

Gustavo Taretto, Medianeras, 2011

Dovrà pure procurargli una terapia comportamentale, perché non sa stare con gli altri cani e ci sarà la dog sitter, che è una davvero trucida, con la quale lui finisce pure a letto.
Con scarsa soddisfazione reciproca.
E tutti i cani ammucchiati nel piccolissimo ingresso che abbaiano.

La nuova ragazza del ragazzo del mio parrucchiere ha un mastino tibetano che pesa settantacinque chili.
È una femmina.
Un cucciolo di mastino tibetano costa duemila euro.
La signorina è disoccupata e vive in trenta metri quadri.
Settantacinque chili è il peso di un uomo adulto normalmente formato, però un uomo non lo devi portare al parco tutti i giorni.

Martedì mi sono fermata davanti al recinto dei cani a Villa Lazzaroni.
C’era uno che tirava una palla al cane e il cane correva appresso alla palla e portava indietro una pigna.
Accanto all’uomo c’era tutto un mucchietto di pigne e lui, tutte le volte, andava a riprendere la palla.
L’uomo dava dello scemo al cane.
A me, a dirla tutta, sembravano scemi entrambi.

Quando i cani sono entrati al supermercato dentro i carrelli, c’è stato un lungo scambio con il direttore.
A lui piacciono i cani.
Io gli ho detto che però i clienti mettevano tutta la roba da mangiare nel carrello sopra e accanto al cane e che quindi avrebbe dovuto predisporre delle casse speciali, perché poi quella merce lì era del cane e io avevo qualche problema a condividere il medesimo rullo con il cane e con la mia roba da mangiare.
Lui mi ha detto che mi avrebbe regalato un cane.
La cassiera moldava, che si chiama Alina ed è graziosissima, quando abbiamo finito di ridere col direttore, mi ha detto che al suo paese i cani non entrano in casa nemmeno quando fuori c’è la neve.
Il posto loro è nel cortile.
Pure da noi, le ho detto, fino a qualche tempo fa era così.

L’ultima volta che sono andata a Milano, mostra di Chagall, Palazzo Reale, ho pranzato in uno di questi posti snobissimi che stanno solo a Milano.
A Roma certamente non ci stanno, ma manco a Parigi, che ha una forma di snobismo tutta sua, che non odora nemmeno lontanamente di provincia, come invece odora quella di Milano, da vicino e da lontano.
Al tavolo vicino al mio c’erano tre cani praticamente attavolati accanto ai loro padroni.
Cosa che ho visto anche qui, per esempio in quel bel caffè non lontano dal Colosseo.
Una sera, a cena, io, tutta in tiro, sedevo sulla banquette, quindi vedevo tutta la sala.
Davanti a me c’era una coppia di uomini con la madre di uno di loro e quello a un certo punto ha preso il cane, che stava seduto sulla banquette proprio come me, se l’è messo in grembo e l’ha invitato a mangiare direttamente dal suo piatto.
Cosa che il cane ha fatto subito e volentieri: evidentemente era abituato.

Quando sul treno sono stati ammessi i cani, ho trovato subito un mastino senza museruola che sbarrava l’ingresso della toilette e un altro cane grosso disteso nel corridoio.
Un terzo cane (il terzo cane è quello che fa traboccare il vaso), più piccolo, era seduto al suo posto e il suo posto era un posto tale e quale al mio e, come il mio, non c’era nessuna copertina o panno o quello che vi pare  che proteggesse il cane dal contatto col sedile.
Quando è passato il controllore, ho chiesto se, data la novità, avrei potuto portarmi in treno il giorno dopo il mio boa, che era socievole, simpatico e che si scocciava a stare tutto il giorno da solo nel terrario.
Lo tenevo di solito arrotolato fra il collo e la spalla e, quando lui era stufo, lo allungavo da qualche parte.
Il corridoio sarebbe servito bene al bisogno.

Il mio boa, simpaticissimo

La signorina, perché si trattava di un controllore femmina, si è messa a compulsare ansiosamente il regolamento, c’è stata sopra almeno cinque minuti e poi mi ha risposto, disfatta: «Non c’è scritto niente, quindi, può».
Poi è rinsavita e mi ha domandato in confidenza, da donna a donna, se davvero avevo un boa in casa.
Cosa che mi hanno chiesto anche almeno un paio delle persone alle quali ho raccontato il fatto.
Lì mi sono interrogata a lungo su che immagine io proiettassi sul mondo.

Una scrittrice famosa, un’intellettuale, che dichiara in un’intervista di essere fidanzata con il proprio cane.
Maschi di trentacinque anni, pieni di muscoli, che baciano in bocca e si portano a letto la loro cagna e che dicono che lei, sì, che li capisce.
E che è loro fedele.
Case normali con cinque cani dentro, tutti allineati sul divano.
«Accomodati».
«No, grazie, vado un po’ di fretta».

Valentino che porta in volo privato i suoi sei carlini, tutti legati con la cintura di sicurezza, uno per uno.

Valentino

Un assistente lava loro i denti.
Siccome i cani sono tutti uguali e non stanno fermi, è probabile che lui debba odorarli per capire quale non è stato ancora passato al dentifricio.

Tale e quale a un famoso pittore inglese del Settecento, che però forse non esagerava come fa lo stilista e voleva semplicemente raccontarci una relazione importante, come da sempre è quella fra l’uomo e il cane.

William Hogarth, The Painter and his Pug, 1745

Ma che cosa è accaduto nel frattempo, che cosa ha scavato la distanza fra la Moldavia e l’Italia e quanto e profondamente sembra oggi impraticabile l’uso che faceva mio nonno, il piemontese, di un povero cane che io avevo visto cucciolo e che da subito era stato messo alla catena e tenuto a pane secco e zuppa di latte diluita con l’acqua.
Ringhiava che faceva terrore, abbaiava a tutti, solo la sorella di mia madre si avvicinava a lui per accarezzarlo porgendogli la ciotola e quello si accucciava tutto e scodinzolava.
Io ne avevo paura, soprattutto quando, una volta al mese, veniva liberato e lui cominciava a correre come un pazzo avanti e indietro per il cortile, fino a che non ubbidiva e ritornava alla catena.
In lui, nemmeno un moto di ribellione, doveva fare la guardia e la guardia faceva.
Che è successo nel frattempo, come siamo arrivati alla chihuahua della podologa, che lei la sera ripassa con le salviette intime e si porta a letto.
Perché gli uomini l’hanno delusa.
È successa la solitudine moderna, sono successi i rapporti amorosi sempre più slabbrati, instabili, annoianti, è successa la fatica di incontrarsi, quella di capirsi, è successo lo scollamento delle relazioni, per cui tu parli con uno e a un certo punto ti rendi conto che non capisci che cosa sta dicendo.
È successo un inzitellimento progressivo, diffuso fra maschi e femmine, per cui i modelli animali di comportamento sono la chiocciola, che contiene in sé entrambi i sessi e si basta e, appunto, il cane.
Che, come diceva un amico mio, che aveva in casa una cagna che chiamava cana perché cagna era offensivo, è come avere il figlio scemo che non cresce mai e che ti dà sempre retta.

A ripensarci, la prima avvisaglia la ebbi anni fa, quando una signora che mi seguiva nella mia attività professionale e aveva una figlia che stava in America che io, pur non conoscendola di persona, stimavo molto perché era un medico in carriera in un ospedale di New York, mi raccontò che la giovane donna aveva preso un cane.
Io le chiesi come faceva, stava tutto il giorno fuori casa, già un gatto avrebbe fatto storie.
Si era organizzata.
Il cane aveva un istruttore.
Poi un dog sitter.
Poi uno psicologo, pagato perché curasse le turbe dell’animale, che non mi ricordo che faceva di strambo, ma chiunque, in quella condizione, avrebbe fatto stramberie.

Buttai lì che la tipa era diventata matta.
La madre mi disse che era d’accordo, ma che non sapeva come dirglielo.
E tu non glielo dire.
Ed eccoci anche noi, esattamente come da copione, implicati in analoga vicenda.
Non stiamo poi a dire che cosa ha fatto il confinamento sulle persone: esplose dentro casa, se dentro casa ci stavano con qualcuno; implose, sempre dentro casa, se in casa invitavano qualcuno.
E il qualcuno che veniva dall’esterno era portatore potenziale di malattia e di morte, era davvero e finalmente l’estraneo, dunque uno che veniva da fuori stavolta sul serio, senza alcuna relazione di sangue o rapporto affettivo, dunque uno che non aveva l’autorizzazione a entrare dentro.
(Sai, invece, quanti discorsi riesci a farci, con l’estraneo, prima del coprifuoco delle 22:00).
Mentre, invece, il cane.
E allora, meglio il cane.
Anche se poi, e questo lo sanno tutti, l’avventura viene da fuori, dall’inatteso, da quello che non ti sbava addosso appena ti vede.
E, se pure ti sbava, mica te lo dice subito, anzi, te lo fa desiderare.

Praticamente, il contrario del cane: che sta lì, sempre, a portata di mano, disponibile, fedele, pronto.
A portarti la pigna al posto della palla.
Ma tu la pigna non la vuoi, perché vuoi la palla.

E questo è il senso.
Anche se questo è un altro discorso.