Blade Runner, 1982

Primo tempo. Tutto è cominciato con la separazione di Al Bano e Romina.
Non riuscivo a crederci.
Mi ero pure fatta una serie di ipotesi, anche se, si sa, fra moglie e marito.
Lei, una delle donne più aggraziate che ci fossero sulla faccia della terra, diventata inguardabile.
Lui, inguardabile, che tale era rimasto.
Un caso di coerenza di tutto rispetto.
Ma, dicevamo, tutto è cominciato da lì.
E mai avrei pensato che da lì in poi sarebbe accaduto di tutto.
Che ben altri matrimoni sarebbero andati a gambe all’aria.
Che a Venezia non ci sarebbe più stata la bassa stagione.
Che avrei interrotto l’abitudine di andare almeno tre volte l’anno a Firenze a vedere questo e quello. Cose d’arte, ma anche certi negozi, che non erano male.
Che gli studenti, che sono sempre stati una pluricoltura, bravi, meno bravi, attenti, distratti, presenti, assenti, casomai andando ad annate, un po’ come il vino, si sarebbero trasformati, come è successo per le terre del vino, in una monocoltura: tutti somari.
Che è l’equivalente del tutto prosecco.

Si capisce, no, che la pandemia, in tutto quello che è successo, è stata il minimo. Io ho smesso di dire «situazione inedita» dopo tre giorni.
Era tutto talmente inedito, che uno più, uno meno.
Non so se certi atteggiamenti: vogliamo tornare in discoteca; vogliamo stare al tavolo in quindici, tutti a cercare di sentire che dice quello a capotavola senza alcuna possibilità di capire perché ai tavoli in quindici stanno tutti e tutti strillano e un ristorante sembra più una babele che un posto di convivialità e incontro; vogliamo tornare tutti in presenza, quando in presenza riuscivate a stare solo imbottiti di sostanze illecite che facevano passare il tempo; vogliamo avere di nuovo problemi di parcheggio, di trasporto, di marciapiedi impraticabili perché era così bello; vogliamo i cinema di nuovo aperti, quando a Roma non c’era più un solo cinema decente, fra i film doppiati male, i vicini di destra e di sinistra che commentavano ininterrottamente, proprio come si fa con la televisione e a terra c’era un mare di secchi di pop corn, confezioni vuote di bomboniere, lattine di bevande gassate a base di zucchero (io, durante uno spettacolo, penso di aver mangiato solo una sfogliatella al San Carlo di Napoli, ma stavo nascosta in un palco laterale, non avevo fatto pranzo e la sfogliata era calda. Per la cronaca, era una frolla); dicevo, non so se certi atteggiamenti da confinamento, cinema e ristoranti chiusi e scuole e università a seguire, mi commuovono o mi fanno infuriare.
Come fate a dire che era bello.
Ma fatemi il piacere.

Secondo tempo. Già c’era da sopportare la giornalista, che ogni due parole diceva «come dire». Insomma, se parli in pubblico, l’intercalare lo eviti.
Inoltre, questa era stata presentata come vicedirettrice.
Allora, stando alla grammatica italiana, io capisco che lei, alle brutte, sostituiva un direttore donna.
E invece no.
Il direttore era uomo.
E quello deve essere saltato su, dicendo tu direttrice lo dici a tua sorella.
(Io avrei fatto così).
E allora la giornalista come dire per due giorni è diventata vicedirettore.
Al terzo giorno, è saltata di nuovo fuori la vicedirettrice, che secondo me è una violenza alla grammatica, tu non puoi declinare il sostantivo perché ti fa comodo, è l’equivalente di quel mio collega che aveva fatto lo scientifico in provincia e che una volta in treno mi disse che la lingua evolve e che era giusto accettare «un po’» scritto con l’accento e «qual è» con l’apostrofo.
E io che mi ero pure messa a parlare del troncamento, per cui po’ è un’eccezione e vuole l’apostrofo che indica la caduta di una sillaba, poco, laddove qual è è un troncamento puro e semplice e quindi non si apostrofa.
Io non mi fido di quelli che hanno fatto il liceo scientifico, soprattutto in provincia.
E tu stai dicendo delle bestialità.
E vicedirettrice significa che alle brutte sostituisce un direttore donna che vuole fare l’evoluta.
Io voglio vedere se una vicemadre diventa un vicepadre solo perché è un uomo.
E poi ci sono quelli che hanno il singhiozzo: «buongiorno a tutti e a tutte», pieno di t, ma come fai a non impicciarti con la lingua.
Il singhiozzo ce l’hanno soprattutto i francesi: «toujours géni.ales.aux»; «amour à tou.te.s».
Ma non bastava.
Non bastava il singhiozzo, adesso è arrivato anche l’asterisco.
Piena come sempre sono di buona volontà, compulsavo un sito di economia al femminile e, non riuscendo a contenere le risa, leggevo un articolo in cui si diceva che gli uomini non aiutano nei lavori domestici.
Ma dai.
Insomma, la faccio breve. Dopo quattro righe, non riesco ad andare avanti: «Ora, una soluzione, non accessibile a tutt*».
Ma l’asterisco, come si legge.
Ovvero, fra me e me, mentre leggevo pensavo che mi sembrava di essere davanti a una di quelle cose ipocrite, per esempio caxxo, che io leggo così come è scritto, e fatico pure a capire che significa, oltre al fatto che evoca le trombe dell’automobile.
Insomma, una delle cose più interessanti che ci siano sulla faccia della terra, l’unico dispositivo capace di sfidare la forza di gravità, ridotto a un altro tipo di dispositivo, stavolta acustico.
E insomma, se vuoi scrivere cazzo, parola che io scrivo solo in urgenza ed emergenza, ovvero, quasi mai, scrivi: cazzo.
E che cavolo.
Ma non era finita lì.
Perché è arrivata la ə, ovvero la schwa, che già mi fa venire il mal di testa perché è una e capovolta, figuriamoci come mi fa sentire a cercarla sulla tastiera. Dove non c’è.
E dire che io sono una attenta e che uso gli accenti acuti sulle vocali spagnole, per esempio Velázquez, e anche la dieresi, per esempio Dürer.
Ma io la schwa me la risparmierei volentieri.
Soprattutto da quando ho visto un video esilarante che la presentava: protagonista, un inglese che sembrava uscito da una barzelletta per quanto aveva inglese l’accento.
E che diceva.
Diceva che gli italiani parlano male l’inglese perché non riescono a pronunciare la schwa e faceva tutti esempi, uno più difficile dell’altro.
Poco male, uno può pure parlare un inglese con un accento imperfetto.
Ma, in italiano.
In italiano, questa ə, come si pronuncia.
E, soprattutto, ditemi a che serve.
È un segno di rispetto nei confronti delle donne.
Ma figuriamoci.
E infatti ne fanno uso uomini che poi mica si spostano dal considerare le donne solo per come è messa la carne e per dove sta, cronologicamente, la data di nascita.
Questi, sono gli atteggiamenti che mi offendono, mica il fatto di essere compresa fra gli ascoltatori, i tutti, i professori, gli spettatori, i lettori, i presenti.
Quello che esce fuori è solo un impiccio, i puntini, gli asterischi, quella ə che è pure brutta a vedersi, tutto ciò mi fa pensare che le donne creano un sacco di problemi e come fai a non farti passare per la mente che meglio sarebbe se stessero a casa a fare la calza, o il ricamo, o il quilting, conosco donne che entrano in fissa con il quilting e che non danno più fastidio a nessuno, si mettono lì e fanno le trapuntine, una volta ho visto anche una mostra, milioni di ore passate sulla trapuntina e poi alla fine fai pure una mostra.
Di trapuntine.
Non avremmo più il problema della vicedirettrice.
O quello, increscioso, della «segretaria di partito» o della «primaria di ospedale», quest’ultima, tutta una carriera e ritorni alla casella di partenza delle scuole elementari.
È una mosca che si agita in un bicchiere.
È una strada intrapresa per errore.
Anche perché la soluzione c’era, era lì, a portata di mano.
Soprano.
Ma anche mezzosoprano e contralto (quest’ultima, la mia voce prediletta).
Che sono donne e fruiscono dell’uso di un aggettivo sostantivato, visto che soprano indica «ciò che è superiore, che sta sopra», in questo caso, la voce più acuta.
E che, modernamente, si può usare al maschile e al femminile: il soprano, la soprano. Con la regola che il plurale è al maschile, i soprani e che, se si sceglie il femminile, il nome resta invariato.
Sulla porta del mio studio c’è un biglietto che mi fu indirizzato da una signora della svizzera francese. Sopra c’è scritto Madame le Professeur.
Che suona bene, è elegante e indica al medesimo tempo il mio genere e la mia professione.
Ed è al di sopra di ogni sospetto di singhiozzo.
Devono studiare, le donne, e essere preparate, chissà che succede, visto che a scuola le femmine sono quasi sempre più brave dei maschi.
In qualche punto ci deve essere un impiccio, un inciampo, una trappola, un cigno nero, sapete, quell’avvenimento raro e imprevedibile, che ha conseguenze di portata eccezionale.
E come canta Argirio nel Tancredi di Rossini, una delle mie opere predilette, «nuovi perigli esigono da noi nuovi consigli».
Questo è, su questo bisogna riflettere.
Farsi venire idee nuove, imparare a sentire il vento, mettersi in testa, una volta per tutte, che tutto può succedere.

E qui, dalla separazione di Al Bano e Romina in poi, sono successe cose che avrebbero fatto rimanere basito anche quel bel replicante che ho sempre trovato adorabile, lui, con più emozioni e sentimenti di certi umani che conosco, lui con le sue storie, le navi da combattimento in fiamme al largo dei bastioni di Orione e i raggi B, che balenavano nel buio vicino alle porte di Tannhäuser.
Lui che, tutto sommato, era vissuto solo quattro anni e ne voleva altri.
Alto, forte, intelligente, splendido di uno splendore che è così difficile trovare in un uomo, soprattutto unito alle altre qualità elencate, e guardate che mi sono tenuta bassa, lui che ne sapeva di quello che sarebbe successo dopo la sua morte.
Che ne sapeva lui, di Venezia con un’unica, immonda stagione turistica.
Di Firenze ridotta a un parco giochi da visitare in venti minuti.
Di studenti più insipidi del prosecco del bar all’angolo e come quello tiepidini e privi di effervescenza.

Che ne sapeva, il replicante Roy Batty, di Al Bano e di Romina Power.