CORONA BLUES, 6: SEGNI DI VITA

Al supermercato fai trenta minuti di fila per entrare.
Belli sgranati.
Dentro e fuori, indossano tutti mascherina e guanti, anche il pakistano dei cestini e dei carrelli che guadagna quattro soldi stando lì dalla mattina alla sera (con l’intervallo del pranzo) e la mendicante all’uscita seduta su una cassetta.
Il Direttore mi fa il segno dei muscoli con tutte e due le braccia quando gli chiedo come va.
Uno dei ragazzi mi dice che l’Appia Nuova ormai sembra sempre quella della domenica mattina, quando lui attacca alle sette.
Comunque, nessuno di noi ha mai visto niente di simile in vita sua.
Certo, abbiamo visto città simili al cinema.

Ma mai, così, la città nostra.

Mentre scrivo c’è chi si è unito al flashmob proposto dai social.
C’è un’armonica che intona Samarcanda, qualcuno grida «bravo!», un bambinetto con la madre è affacciato al terrazzo davanti alla finestra del mio studio.
Alcuni cani abbaiano.

Che ne sarà di noi?

Non ho letto una sola riga di pedagogia in vita mia.
Io insegno a orecchio, io entro in aula, preparata, certo, avendo però come schema solo una mia scaletta, una specie di corrimano al quale tenermi, ecco, qualcosa di simile.
L’ho detto e lo ripeto: i migliori fra i miei insegnanti avevano ciascuno un proprio metodo, ammesso di poterlo chiamare tale.
I denominatori comuni fra loro erano una conoscenza magistrale della disciplina che insegnavano e un fascino personale pazzesco.
La conoscenza te la fai col tempo, ossessionandoti.
Il fascino personale, lasciamo perdere subito.
Quello, o ce l’hai o non ce l’hai, mica te lo vai a comprare al supermercato.
Comunque nessuno di loro aveva mai studiato niente di pedagogia, venivano tutti,  compresa la mia maestra delle scuole elementari, da studi classici.
Nei quali la pedagogia non è contemplata, nel senso che è il classico in sé a essere pedagogico.
Perché dentro il classico c’è tutto.

Ho insegnato a gente diversissima, ragazzi, adulti, pure ergastolani di Rebibbia, una volta che hai insegnato agli ergastolani, non ti fa più paura niente, se non ti hanno divorato loro, non ti divora più nessuno.
E loro non mi hanno divorata, anzi.
Avevo messo su con loro una relazione complessa e profonda, che è stata fra le più importanti della mia vita.
In tutti i sensi.
Ho lasciato la finestra del mio studio aperta, mi alzo dalla mia scrivania e faccio anch’io un applauso al suonatore di armonica.
Si innalza nel cielo grigiastro di questo venerdì di marzo, quasi sera, una versione stonata dell’inno nazionale.
Ma tutto fa.
Dicevo che ho insegnato a gente diversa. Anche in posti improbabili, praticamente ho insegnato dappertutto, aule, sotterranei, piazze, buchi impraticabili.
Insomma, io credo che dovunque si possa fare scuola.
Pure senza avere mai letto una sola riga di pedagogia.

Ma non ho mai insegnato in internet.

E adesso si presenta questa necessità.
Mi preoccupo?
No. A me fare lezione piace sempre e comunque (oddio, dipende da chi ho davanti).
Come sto messa tecnologicamente?
E che ne so, ho un computer che risponde con la sua intelligenza alle mie esigenze, certe volte mi capita di lasciarlo acceso pure di notte, sta lì che troneggia nel mio studio, una stanza piccoletta, il centro del mondo.
Sta lì e respira e se di notte lo lascio acceso, lo schermo emette una luce bluastra.
Un faro nella tempesta, la lanterna di Ero che guida verso di lei Leandro, che la raggiunge tutte le notti attraversando a nuoto l’Ellesponto.
Uno dei miei miti prediletti.
Straziante, con lui che durante una burrasca perde l’orientamento, esaurisce le sue forze e viene riportato a riva, ormai cadavere, la mattina dopo, proprio sotto la torre dove vive lei.
E lei che si getta in mare per il dolore.
Ah, l’amore, l’amore.
Come fai a vivere senza l’amore.

Domenico Fetti, Leandro e Ero, sec. XVII

Dicevamo come sto messa a tecnologia.
Vediamo se basta.
Vediamo se ce la faccio.

Comunque da ieri sera è stata una pioggia, una grandinata continua di richieste di studenti che vogliono iscriversi al mio corso di Storia dell’arte contemporanea.
Quale corso, c’è da chiederselo.
Il mio corso on line.
Ah, ecco.
Mentre aspetto istruzioni dalla mia Accademia, mentre sto lì e penso a velocità tirata a mille quali materiali, link, discorsi, immagini utilizzare, mi continuano ad arrivare mail di ragazzi che non ho mai visto, che mi chiedono, ciascuno a modo suo, comunque educato, comunque grammaticalmente accettabile, come iscriversi al mio corso fantasma.
Con il primo di loro abbiamo già aperto una chat WhatsApp, lui ha pure fornito un link per l’iscrizione automatica.

Mi ha proposto un’immagine. A me va tutto bene, i creativi sono loro.
E loro sono Livio, Matteo, Ferdy, Nep, Michele, Greta, Mary, Antonio, Alessia, Anja, Erica, Marco, Federica, Gio.
Eccetera.
Non li ho mai visti in faccia.
Ma ho guardato che faccia hanno. E che motto hanno scelto per WhatsApp.
Livio, «Why be sad?».
Infatti, perché essere tristi.

È da ieri sera che sto di nuovo in fibrillazione.
Come sempre davanti a una cosa nuova.
Come sempre davanti a un corso che comincia.

Il nome del corso del quale vi sto parlando?
S. Arte c. COVID-19/20.
Insomma, la storia dell’arte contemporanea al tempo del Covid 19, anno accademico 2019/2020.
Livio mi ha chiesto se mi piaceva.
Certo, che mi piace.
Come mi piace ogni segnale di vita che arriva a me in questo momento deserto, in questa città spettrale, in questo avvitamento della storia su se stessa, in questo cigno nero che sta qui, davanti a tutti e che tutti minaccia, indicando, però e nel frattempo, che ci sono anche nuove strade da seguire.

La notte è scesa definitivamente sui cortili sui quali affaccia il mio studio.
Il flashmob è finito quasi subito e certo non è stato memorabile.
Ma non ha importanza.
L’importante è che ci sia stato.
L’importante è che la vita, a fatica e a denti stretti (ma tutti sappiamo che c’è stato di peggio perché lo abbiamo letto nei libri e visto al cinema), l’importante, dicevo, è che la vita continui.
E che dia ancora segni della sua esistenza al mondo.

2 Comments

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  1. La vita continua vero!!!!!!!! Che bello leggere e stare insieme
    Anche se virtualmente grazie

    • Rosella Gallo

      23 marzo 2020 — 9:30

      È vero. E apprezziamo, se possibile ancora di più, questa nostra vicinanza. Lucia, grazie

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