Ma che ragionamento è.
Certo che se lo sai, non ci caschi.
Ma il fatto è che non lo sai, quindi, ci caschi.
Eppure sembrava una persona così affidabile. Eh, infatti, è delle persone affidabili che devi diffidare.
Sì, però poi, di chi puoi fidarti.

In francese si dice poser en lapin.
Nel 1880 significava «non retribuire i favori di una ragazza», all’epoca, infatti, lapin  che è, certo, un coniglio, significava anche un rifiuto di pagamento.
In  seguito ha pure designato un viaggiatore clandestino.
L’espressione, nella sua forma attuale, sarebbe apparsa intorno al 1890, quando alcuni studenti cominciarono a impiegarla per l’atto di non andare a un appuntamento, senza avvertire la persona che aspetta.
Ciò potrebbe derivare da «laisser poser», «fare attendere qualcuno».
Più brutalmente, in italiano si può tradurre con «dare buca» o, peggio, «tirare un bidone».

Insomma, mai avrei potuto pensare che una persona così mi avrebbe posato un coniglio.
Sto dicendo, tirato un bidone.
E invece.

Premetto che se ho deciso di comprarmi lenzuola così impegnative è stato perché avevo già in mente come gestirle.
Vi presento quello in oggetto.

La foto non è mia, è della precedente proprietaria, una signora francese appassionata di biancheria antica, che ha messo su un bel sito, artigianale e pieno di bei pezzi. Lo dico perché mai avrei appoggiato un fiore su un lenzuolo, per i miei gusti, fa troppo dolciastro.
L’acquisto risale a tre mesi e mezzo fa.
Compro due pezzi, l’altro, quello non ancora interessato, se possibile, ancora più bello. Si tratta di capi della fine dell’Ottocento, in lino, con un ricamo a mano sulla reversina il cui schema si sviluppa per 90 centimetri.
Monogramma di una sposa, immagino, fortunata al centro.
Grandi, pesanti, li lavo da soli in lavatrice, poi li stendo quando sono in forze.
Sì, perché sollevare un capo di biancheria di questa portata bagnato richiede un bel po’ di coraggio.
Lasciamo stare la piegatura che, data la lunghezza, impegna mezza casa.
Della stiratura, vado a parlarvi.
Sì, perché il patto era che li stirasse la signora Anna della lavanderia qui sotto, la persona più stacanovista che io conosca, sveglia alle 5:30 ogni mattina, alle 8:00 è al negozio, mi fa un milione di favori, aspetta che io sia passata per tirare giù la serranda, ha un repertorio infinito di racconti, mi gonfia in mezz’ora il piumino leggero, che ho imparato a lavare in lavatrice, perché sa che in questo periodo mi piace metterlo.

Porto a lei le mie lenzuola da stirare da un paio di anni. La stiratura professionale non ha paragoni con quella fatta in casa.
Figuriamoci con pezzi così importanti, che lei, fra l’altro, trova bellissimi e la prima volta che ne ha visto uno e, la settimana successiva, l’altro, ha chiamato tutte le stiratrici a raccolta e tutte hanno emesso gridolini di meraviglia.

Tutto sotto controllo.

Manco per niente. Perché mercoledì le porto le lenzuola e lei mi dice che me le fa per sabato.
Poi, succede quello che succede, nuovo decreto del Presidente del Consiglio, che passo in rassegna attentamente.
Sul quale leggo che le lavanderie restano aperte.
Dunque, ieri mattina telefono, semplicemente per accordarmi, mi è infatti venuto il dubbio che ci fossero dei cambiamenti nell’orario di apertura.
Telefono e mi risponde una vocetta.
Che mi dice che lì non c’è nessuno, che il negozio è chiuso, che la signora Anna non c’è.
Come, non c’è.
Ma se sta sempre lì.
«Non c’è nessuno», mi ripete la vocetta.
Finalmente mi sveglio e capisco che è Glenn, il filippino che si chiama come il mio pianista prediletto, una specie di factotum, si occupa delle pulizie e, se serve, stira pure lui, meglio di tutti.
E infatti una volta la signora Anna mi ha fatta entrare dietro il bancone, ovvero in uno spazio protetto, e mi ha mostrato un tavolo con tutte camicie stirate e piegate. E mi ha detto di indovinare quali erano state fatte da Glenn.
Si vedeva benissimo, c’era il tocco d’artista, c’era una mano diversa, migliore delle altre.
Mi presento a Glenn, che capisce subito chi sono, gli chiedo notizie delle mie lenzuola, dice che stanno lì ma che non sono stirate, dice che non sa quando riaprono, dice che lui sta dentro al negozio con la serranda chiusa.
Fermo lì, ti busso, mi apri e me le riprendo.
E mica posso lasciare lì il patrimonio domestico.

Mi precipito, picchio contro la saracinesca, lui si scusa, ma figurati, riabbraccio la mia busta, con dentro, a straccio, la mia biancheria.
Quando la deposito in casa, mi sembra di essere sfuggita a un naufragio.
Io e lei.
Entrambe.

Decido di dormirci sopra, decido di decidere la mattina dopo, ovvero oggi, che cosa fare.

Mi sveglio in modalità combattimento.
Adesso, è il caso di dirlo, ti sistemo io.
Comincio, come mi ha insegnato mia madre, dai pezzi facili, federe e lenzuolo di sotto.
(Grande metafora dell’esistenza, è meglio prendere prima per bene la rincorsa, è meglio scaldare i muscoli).
Viene tutto bene.
E adesso, a noi due, lenzuolo.

La faccio breve.
Ho impiegato tutta la mattina, cambiato due ferri da stiro, quello normale e la stirella, aperto e richiuso tutto mille volte.
Ci sono andata cauta, pezzetto per pezzetto, nel senso che all’inizio non sapevo dove mettere le mani, era tutto un groviglio, il ricamo tutto raggrinzito, mi sono venuti in mente mille paragoni, la vita è tanto complessa, certe volte pure intricata, ci vuole un sacco di tempo a districarla, da che cosa, ma, ovvio, da se stessa, pensavo anche alla farina messa sul tavolo a fontana, dove metti le uova, ho un’amica alla quale piace impastare, appena impasta, è contenta, io non ho alcuna simpatia particolare, però ricordavo benissimo che tu cominci a dare una forma a tutta quella roba dopo un po’ che la lavori, gli inizi possono anche essere drammatici, tutto scappa da tutte le parti, non riesci a trovare il verso.

Il mio lenzuolo stirato da me medesima

Ho anche esaurito l’acqua nel serbatoio, ho dovuto aspettare che la caldaia si freddasse, ci sono ritornata sopra dopo aver preso le distanze.
E intanto mi è pure venuto in mente che sarebbe il caso di cercare, almeno provvisoriamente, un’altra lavanderia la settimana prossima, deciderò, qui stanno saltando tutti i piani, per non parlare dei parametri che sono ormai incontrollabili.
Però, che soddisfazione.
Proprio come quelli che fanno il pane in casa o fanno i dolci, e poi si abbuffano, perché che fai, li lasci lì, poi ti diventa tutto secco, e si sono fatti fuori da soli una quantità industriale di cereali e prima e dopo e durante fanno un sacco di fotografie, io, che sono una persona tutta spirito e voglia di casa, mi dedico ad altro.
Qualcosa di meno materiale, qualcosa che dura nel tempo più della crostata di visciole, che posso anche capire, e dei profiteroles, che invece considero immangiabili, con tutti quei bignè farciti di panna e glassati di cioccolato, ma non vi pare un po’ troppo, insomma io ho deciso di raccontarvi e di pubblicare il frutto del mio lavoro.
Un lavoro complesso, difficile, indefesso, di livello professionale, il cui risultato è lì sotto gli occhi di tutti, sto pure attenta a non sfiorarlo e ogni tanto vado a guardarmelo, voi sapete com’è, dopo la stiratura i panni vanno lasciati riposare, un po’ come la pasta dell’impasto e, nella vita, un sacco di altra roba.
Però, volete mettere.
Voi che fate il pane e i dolci a sera vi siete già fatti fuori tutto.
Io mi godrò i frutti  del mio lavoro per tutta la settimana prossima (domani cambio il letto).

Altro che pane.
Altro che visciole.
Altro che montagna di bignè che, solo a guardarli, mi fanno venire lo scoramento.
Un po’ come il lenzuolo, ma solo prima di affrontarlo.