Quando ero bambina, nel mio piatto, mangiavo sistematicamente gli spinaci prima delle uova. Tanto vale approfittare della fame, per ingerire il meno piacevole. Per il buono, ci sarà sempre del posto nello stomaco

Blandine Rinkel, Tutto trema, 2021

In vita mia, ho cucinato gli spaghetti alla Nerano quattro volte, tutte recenti.
La prima sono venuti buonissimi. La fortuna dei principianti.
La seconda, mediocri.
La terza, immangiabili.
Sono una donna equilibrata, dunque mi sono assunta tutta la responsabilità del fallimento, nel senso che non ho dato la colpa alle zucchine, che, ripensandoci, forse un qualche ruolo nel piatto ce l’avevano.
Comunque, ammetto che un po’ mi è seccato, farmi mortificare da un ortaggio così insipido.
Al punto che non ho mangiato zucchine per tutta l’estate.
L’altro giorno, sul filo di lana della stagione, ci ho riprovato, seguendo, stavolta, le indicazioni dello Chef.
Ho fatto spaghetti alla Nerano buonissimi, perché lo Chef, lui sì che è bravo e che spiega bene.
Ho anche capito dove avevo sbagliato: praticamente dappertutto, dal taglio impreciso delle zucchine alla successione della messa in padella degli ingredienti.
Il fatto è che cucinare bene è difficilissimo, infatti cucinano quasi tutti male, in casa e al ristorante.

Ma date retta allo Chef, piuttosto.

È probabile che lo Chef non sia sempre così allegro come sembra.
Io diffido profondamente di come appare il genere umano, quindi per me lui potrebbe essere anche un depresso, oppure un attore consumato.

Max

Comunque, qualcosa gli è successo perché qualche tempo fa, non troppo tempo, lui sembrava un pretino dell’oratorio, tutto composto, non solo indossava la divisa, ma non aveva nemmeno i muscoli che ha messo su in seguito.
Motivo per cui oggi lo vediamo sempre con la T-shirt, che mette in evidenza le sue braccia.

A me lo Chef piace molto, apprezzo in lui il buon umore, la capacità di raccontare il cibo, apprezzo l’organizzazione ferrea, la poeticità dei discorsi, la loro sensualità, lui massaggia il pollo, annusa le verdure, assaggia, succhia, gusta a piena bocca, gira l’aglio nell’olio con le mani.
Una donna non può non rimanere incantata e non può non farsi delle idee.
Lui, come abbiamo detto, spiega bene.
Come spiegano bene poche altre persone, qualunque lavoro facciano, dall’impiegato della banca che ti deve dire dove firmare sulla tavoletta digitale, al meccanico, al giornalista della rassegna stampa, arriviamo, in questa marcia trionfale, all’insegnante, il quale sarebbe sempre tenuto a spiegare bene, anche davanti a studenti ai quali quello che lui spiega interessa poco o niente.
Se l’insegnante non spiega bene, lo studente, pure quello somaro, se lo ricorda anche a distanza di anni luce da quando ha finito la scuola.
Lo studente si ricorda pure dell’insegnante che spiegava bene, però.
Già è qualcosa.
Almeno questo.
Quando lo Chef sta in video con qualcuno, la madre o il bartender, quello con un terribile accento romanesco, lui li controlla e li riprende, dice guarda che dobbiamo far capire e quelli si vede che ce la mettono tutta, che si applicano e fanno uno sforzo.
Proprio come ho fatto io con gli spaghetti alla Nerano, gli ultimi, che sono venuti buonissimi.
In questi giorni vedo decine di video dello Chef, lo faccio perché sono en jachère, che poi sarebbe «lo stato di una terra laboriosa che si lascia temporaneamente riposare» senza farle produrre un raccolto (Le Petit Robert. Trovo questa definizione perfetta per questo periodo).
Di rado realizzo qualcosa di quello che lo Chef propone, per come cucino io, lui mette troppo condimento, per esempio parmigiano dappertutto, pure sulla pasta al pomodoro, dove secondo me non ci va perché cambia il senso della ricetta.
E sul pesce, cosa che io, da italiana, considero un’aberrazione.
Comunque è italiano pure lui e avrà i suoi buoni motivi.
Diciamo che da lui prendo ispirazione, come fare le scaloppine di pollo, tagliare le zucchine tutte uguali con la mandolina, usare le pinze per trasferire la pastasciutta dalla pentola alla padella del condimento.
Un paio di giorni fa ho fatto la sua ricetta di spaghetti col tonno.
Sono venuti buoni, ma il tonno, peraltro di qualità ottima, era un po’ tiglioso.
Stavolta, però, mi sono fatta furba: e ho pensato che la colpa non era mia, bensì della scatoletta e di quello che ci stava dentro.

Sarà perché sto en jachère, ma penso ancora più spesso del solito che un film sia meglio di un viaggio.

Alfred Hitchcock, I Sabotatori, 1942

Per esempio, non sono mai riuscita a salire sulla Statua della Libertà. File interminabili di turisti, ore di attesa senza risultato.
Poi è bastato inserire nel lettore il dvd giusto, nella fattispecie I Sabotatori di Alfred Hitchcock, e mi sono fatta un magnifico giro dentro e fuori Miss Liberty, un giro lungo e articolato, pure con punizione finale del cattivo di turno.
Il tutto fra persone eleganti, nessun problema di fuso orario, la suspense che non è che nella vita ci stia sempre.
Anzi.

Peggio di quelli che coniugano male il congiuntivo, ci sono solo quelli che lo usano a vanvera, ignorandone, mettiamola così, tutte le sfumature, raffinatissime, del dubbio, della gentilezza, della proposta.
Non so se lo facciano per darsi delle arie, ma quando sento «Sono sicuro che tu venga domani», la prima cosa che mi viene in mente è che dovrebbero cominciare davvero a togliere a qualcuno la licenza elementare.
«Il congiuntivo è il modo della possibilità, del desiderio o del timore, dell’opinione soggettiva o del dubbio, del verosimile o dell’irreale» (Maurizio Dardano e Pietro Trifone, La lingua italiana).
Ditemi voi se nella vita non ci stanno per caso più congiuntivi che indicativi e come si possa ignorare una regola così fondamentale per stare al mondo.

C’è poco da fare, un artista dice sempre cose interessanti, gli artisti bisogna sempre starli a sentire.
Lei fa fumetti e film, lei è bravissima.

Marjane

Leggo una sua intervista in cui racconta la sua relazione con Parigi. Dice che c’è stata la prima volta a sette anni e che la cosa che più la colpì fu che le donne camminavano tutte a testa alta e che tutti fumavano (è vero ancora oggi).
Lei, che è iraniana, tornò a casa e decise che nella sua vita avrebbe fatto due cose: andare ad abitare a Parigi e fumare.
(Quando si dice, avere le idee chiare).
È riuscita a farle entrambe e adesso, oltre a fumare, abita nel Marais.
Non solo, considera la città una fonte di ispirazione inesauribile e la ama talmente che ci trascorre perfino le vacanze.
In albergo.
Idea geniale.
Pure qui, niente fuso e cambiamento garantito di aria.
Per non parlare di quello che vedi dalla finestra, che, di botto, è altro ed è nuovo.

Le storie sono sordide, non discuto.
Ma, dentro di me, une toute petite voix dice che non ci siamo, almeno non del tutto, che bisognerebbe sfumare, che così non arriviamo da nessuna parte.
Esempio numero 1. Una donna, un’intellettuale, pubblica un romanzo in cui racconta fatti di trent’anni prima. Lei, all’epoca quattordicenne, è stata violentata da uno scrittore famoso, di cui erano noti i gusti, nel senso che si sapeva che aveva una predilezione per gli adolescenti, maschi e femmine.
Lo scrittore era all’epoca cinquantenne.

Vanessa

Dettagli non da poco: lei non era una bambina, si definisce  nella sua narrazione «sessualmente precoce», precoce, poi, perché, la Lolita di Nabokov all’inizio del libro è una dodicenne.
Fra i due c’è stata una relazione durata due anni. Quattordici più due fa sedici.
Chiamare bambina una ragazzina secondo me già porta fuori strada il ragionamento.
Inoltre, intorno a loro tutti sapevano, a partire dalla madre di lei, che la spinge fra le braccia di quello che, dopo trent’anni, è diventato un orco.
All’epoca, era un uomo pieno di fascino, di cui lei si innamora perdutamente.
Io starei più attenta nell’uso delle parole.
Più che di violenza, parlerei di plagio, figura complessa, che, in origine, πλάγιος , significa «obliquo».
Il senso è calzante.
Poi diventa tutto ciò che sappiamo e intuiamo.
A me sembra che il plagio non sia legato all’età. Una donna è plagiata da un uomo pure anagraficamente alla pari, metti perché lui ha più cultura, più denaro o più conoscenze.
Non voglio entrare nel merito della vicenda e sono molto sensibile al dolore di lei, e come potrebbe essere diversamente.
Però voglio sapere se stiamo parlando di fatti di cronaca o di letteratura.
Perché, se stiamo parlando di letteratura, non ci siamo.
Lui, che ha pubblicato saggi e diari nei quali i suoi gusti amorosi sono chiaramente esplicitati, si trova oggi, superati gli ottant’anni, oggetto di un ostracismo feroce, laddove in passato in tanti lo avevano difeso (cito i primi due nomi che ho visto: de Beauvoir e Barthes, non roba da poco).
D’accordo su tutto, da tutte le parti.
Ma lì è la madre di lei che ha la responsabilità più pesante.
E se lei, dopo trent’anni, di questa vicenda è riuscita a fare letteratura, ben venga.
E se cominciamo in letteratura con la censura e i giudizi morali, non solo abbiamo chiuso, ma, a queste condizioni, non ci sarà più letteratura.
Esempio numero 2. Sento alla radio la testimonianza di una donna, anche lei quarantenne, che racconta di aver impiegato trent’anni, parecchi dei quali trascorsi in analisi, a superare il trauma che la sconvolse un’estate, al mare, nella casa parentale, quando lei aveva dodici anni.
Accadde che, nel primo pomeriggio, in un’atmosfera che immagino madida di sudore e ancora con i postumi del pranzo, l’amico di famiglia, che era ospite, si sedette sul divano dove lei stava guardando la televisione e si aprì l’accappatoio.
A parte che secondo me la televisione fa sempre programmi immondi, soprattutto in estate, non ho difficoltà a immaginare lo spettacolo proposto dal vivo rispetto a quello del piccolo schermo.
Capisco il trauma, ma non riesco a non pensare al lato ridicolo della situazione.
E pure lì la madre ha una responsabilità enorme.
A parte le frequentazioni ambigue in amicizia, lei avrebbe dovuto spiegare alla figlia che cosa fare in situazioni del genere, che a una giovane donna capitano, sempre, pure se è sorvegliata a vista e se sta in convento.
Voi pensate alla monaca di Monza, rimasta incinta nonostante tutto, tale e quale a una ragazza di paese che conoscevo io, una con una treccia nera che da sola sarà pesata un chilo e mezzo e che usciva da casa solo accompagnata e per la messa delle otto del mattino, che rispose all’idraulico.
Col quale alla fine si sposò, fece due bambini, con le guance rosse e l’aria ruspante.
Ma, dicevamo, l’amico di famiglia.
Lì la madre avrebbe dovuto essere chiara: se ti capita che in vacanza e pure tutto sudato, uno degli amici di famiglia si siede vicino a te sul divano di casa mentre tu guardi la televisione e gli altri fanno la siesta, tu, non guardare, anzi, meglio, guardati intorno, cerca con lo sguardo il soprammobile più pesante che ho esposto sul mobile esattamente a questo scopo (sono una madre prudente), afferralo e sbattiglielo sull’accappatoio.
Vedrai che il giorno dopo pure lui dopo pranzo va a fare la siesta.
Ammesso che ne abbia ancora i mezzi e che ne abbia voglia.
Esempio numero 3. Rapidissimo. Il regista polacco sarà pure un altro sordido personaggio, però che nel 1975 abbia violentato nel suo chalet in Svizzera una donna di diciannove anni, mi lascia perplessa.
Comunque sono ben cinque le donne che lo accusano di violenza carnale.
E pure qui sono passati un sacco di anni, per la precisione, quarantaquattro.
E poi tu che ci facevi, non solo in Svizzera, ma pure nello chalet.
E poi lui è un ometto che fa m 1,65 di altezza, uno stipetto, mica un armadio quattrostagioni come ne girano tanti.
E poi questi uomini, tranne quello dell’accappatoio, sono tutti potenti e famosi, nel cinema, nella moda, nella cultura e queste donne sono sempre aspiranti qualcosa.
Non so, mi viene in mente che sia l’aria del tempo, un tempo che da libertino si è fatto conservatore, in cui quando si gira un film nelle scene d’amore deve essere presente un sex coach, che dice a tutti, regista e attori, quali sono e dove stanno i limiti.

Un po’ triste, considerando che l’arte, per definizione, i limiti non dovrebbe averli.
Ma l’argomento è delicato, spinoso, scivoloso e difficile.
Facciamo che torneremo a parlarne.
Facciamo che, fino a quando non si sono chiariti i tempi, pure qui rimaniamo en jachère.