Amanda Sthers, Pomme au caramel

1 mela; 12,50 g di burro; 12,50 g di zucchero di canna. Per servire: Nutella, foglie di menta.
Lavate la mela e tagliatela in dodici spicchi; eliminate i semi e il torsolo; fate fondere il burro in una padella, aggiungete lo zucchero e mescolate  fino a ottenere un caramello; immergete gli spicchi di mela e fateli imbiondire rimescolando. Ricostituite la forma della mela, disponete un filo di cioccolato per disegnare il gambo e due foglie di menta per rappresentare il fogliame.
Vedrete: alla fine sembra la pochette di un disco dei Beatles. È un omaggio a New York, la Grande Mela, che potete completare con una boule di gelato alla vaniglia

A guardare un carrello del supermercato di donne che hanno figli ragazzini, c’è da farsi venire dei dubbi sulla qualità dell’amore materno: merendine, biscottini, gelatini, cioccolatini, caramelline, budinini, muffini, girelline, plumcakini, kinderini, ovettini, snackettini, fiestine, fruttini, tutta roba che io, personalmente, non considererei commestibile nemmeno su un’isola deserta e senza altro cibo a portata di mano.
Ma come si fa a dare da mangiare a un figlio in questo modo.
Qui il discorso sembra parallelo a quello che riguarda gli animali, per cui cani e gatti sono nutriti solo con croccantini e scatolette e se uno dice ma come mai, trovi pure qualcuno che ti risponde che è solo così che i cani e i gatti arrivano all’età veneranda che consente loro di stare a fare compagnia ai padroni per un sacco di tempo.
Io ho avuto due gatte in tempi successivi, non mangiavano solo croccantini e scatolette, mangiavano pesce surgelato, fatto bollire con qualcosa dentro, carne di pollo, a una piacevano gli asparagi, me ne accorsi una volta che li lasciai, appena bolliti, a freddare su un canovaccio sul tavolo della cucina, quando rientrai le punte erano scomparse ed erano rimasti solo i gambi, tutti belli allineati, i gatti, si sa, sono animali ordinati.
Se in natura essi mangiano topolini, uccellini, insetti e lucertole, ti viene il dubbio che in casa non possano solo gradire i croccantini.
Insomma, non dico di fare come quelli che hanno il pitone e tengono in freezer i sorcetti che scaldano al microonde perché altrimenti, se sono freddi, la loro bestiola non li riconosce come commestibili.
Però.


Se non sapevate che ci sono quelli che hanno il freezer pieno di topi, è perché non avete fatto l’esperienza che ho fatto io, un pomeriggio intero di attesa nell’anticamera di un veterinario per animali singolari, al quale io avevo portato uno dei miei pesci rossi che era stato aggredito dall’altro e dove ho imparato più cose che in un corso di laurea in Zoologia.

Kaa, il pitone (simpatico) de Il Libro della Giungla

Sono d’accordo con voi, pure io ho impiegato un mesetto a riprendermi dall’orrore e ho cominciato a guardare in tralice tutti gli strambi che conosco (tanti), non è che questo ha il pitone in casa, con tutte le sue abitudini alimentari.
Comunque, come dice Don Giovanni, se non credete al labbro mio, credete ai video che i blogger appassionati di serpenti pubblicano regolarmente dando consigli su come scongelare non solo i topi, ma anche i pulcini, usando, sottolineo, la medesima attrezzatura da cucina nella quale poi si fanno gli spaghetti.
Voi pensate se vi capita un figlio così, con i figli non si sa mai come va a finire.
Altro che merendine, quintali di robaccia industriale, gli fornirei, e non solo a merenda.
Il tutto cosparso di veleno per topi, sottolineando il côté letterario del gesto, è Madame Bovary, la donna più annoiata del mondo, a suicidarsi ingerendo la polvere bianca presa direttamente dal barattolo, con un’agonia terribile, descritta nei dettagli da Flaubert.
(Chi di topo ferisce. Sto parlando del proprietario del pitone, non di Madame Bovary, per la quale provo un sincero sentimento di partecipazione).

Ma, stavamo dicendo, i ragazzini.

Quando andai in Francia a fare la jeune fille au pair, avevo ventun anni, sarei andata a ballare tutte le sere, frequentavo l’università seriamente e volevo fare questa esperienza, imparando il francese.
Mi ritrovai non a Parigi, come avrei voluto, perché in estate i parigini a Parigi non ci stanno, ma in una località isolata della Savoia, con due ragazzini, due cuginetti, Loïc e Isabelle, di cinque anni e nove mesi.
Fui di botto madre di due creature, avendo conservato peraltro una linea invidiabile.
Educatissimo, il maschietto attaccava alle ore 14:00 a chiedermi ogni cinque minuti «Quelle heure?» perché voleva fare merenda, ma voleva farla all’ora giusta, le 16:00. Impiegai un paio di giorni a capire che cosa mi chiedeva, poi andammo d’accordo.
A merenda la nonna gli preparava pane e formaggio.
La nonna, perché i genitori lo avevano affidato a lei e lei a me, insomma, io i genitori di Loïc non li ho mai visti.
Quelli di Isabelle comparvero a Ferragosto, erano simpatici e mi fecero i complimenti, la loro bambina, messa a letto, si addormentava immediatamente.
L’unico problema fu che chiamava me maman, non so come abbia fatto in seguito la madre autentica a riappropriarsene.
Ma non è di questo che voglio parlarvi.
Piuttosto, mi interessa raccontarvi che cosa mangiava la bambina.
Mai un omogeneizzato.
Non so se voi abbiate mai assaggiato un omogeneizzato fuori dall’infanzia, io sì, in tutte le altre situazioni in cui ho guardato bambini, da quella volta in poi, tutti italiani, ovvero cresciuti a merendine e robaccia.
Isabelle mangiava, avidamente, i frutti dell’orto della nonna.


Che raccoglieva, mettiamo, i fagiolini, les haricots verts, li cuoceva, li frullava e preparava per lei delle mousse.
Lo stesso faceva con i pomodori, le zucchine, i ravanelli, le fragole, le mele, il massimo dell’industriale che ho visto mangiare a quella bambina sono stati lo yogurt e il fromage blanc, entrambi di lavorazione locale, ovvero savoiarda, non vi sto a dire che latte hanno da quelle parti.
Anche la carne veniva confezionata in quel modo.
La nonna aveva portato da Parigi un Peugeot, nel senso di un frullatore, che usava come un’indemoniata, come usava come un’indemoniata il coltello elettrico e tutta una gamma di altri utensili, con i quali cucinava benissimo.
Inutile dire che il maschietto di cinque anni mangiava a tavola con gli adulti e esattamente quello che mangiavano loro.
Non aveva nemmeno il suo piatto con i disegnetti o il bicchiere di plastica, la consegna era di stargli dietro solo per tagliare la carne.
Quando rientrai in Italia, ricominciai a guardare bambini nostrani, alcuni antipaticissimi, e ricominciai con il ciarpame, nella migliore delle ipotesi minestrina (anellini, stelline, fili d’angelo, ciufoletti, ruotine) con un formaggino sciolto dentro.
La minestrina in molti dei casi veniva risputata in faccia alla baby sitter, pure con lo spruzzo: una bambinetta aveva lo spasmo nervoso perché la madre e il padre non andavano più d’accordo; un bambino non gradiva quel tipo di cucina perché la madre si lamentava continuamente che il marito non stava mai a casa (il tipo stava facendo carriera in politica appresso a un deputato); eccetera.
Avevo imparato a inserire il cucchiaio nella boccuccia rimanendo fuori tiro, così loro spruzzavano nel vuoto.
Ma mi era rimasto il dubbio che se le loro madri avessero cucinato qualcosa di più appetitoso, le cose in famiglia, tutte le cose, sarebbero andate meglio.
Bastoncini di pesce; crocchette di pollo surgelate; sofficini; pizzettine, un cafarnao di alimenti approssimativi, senza nemmeno la finzione di una salsa volenterosa preparata col mixer da mettere accanto o una variazione in padella.
Ma che li fate a fare i figli, se poi non avete voglia di nutrirli.
A non mi venite a dire che non avete tempo, il tempo è un dispositivo elastico e variabile e poi il tempo per dire stupidaggini con le amiche al telefono lo trovate sempre e pure quello di andare dallo psicologo per occuparvi, come si dice, di voi stesse.

Un’altra cosa simpatica riguardo i ragazzini la sentii alla radio, in uno dei pochi programmi degni di nota, quello che va in onda prima della lunga trasmissione serale (questa, di qualità variabile, molto dipende dal conduttore, come sempre, It’s the Singer, not the Song).
Per qualche puntata del programmino serale, fu fatta un’inchiesta deliziosa sui figli cresciuti in famiglie comuniste, così come erano una volta, con l’abbonamento all’Unità, la militanza, le feste di partito.
E un’ideologia di ferro: in casa non entravano cibi capitalisti, quindi niente hamburger, niente ketchup, niente patatine fritte.
Se avete dei dubbi su queste ultime, almeno sul loro essere creature made in USA, sono d’accordo con voi, del resto là le chiamano french fries, qualche buon motivo ce l’avranno.
Ma, dicevamo: i cibi comunisti.
Pane e mortadella, frutta, salsicce, bomboloni, piadine, panini declinati in tutti i modi, tigelle, crostini, arancine e via elencando, con prevalenze regionali e tradizioni rispettate.
Quando arrivai a Napoli, una collega mi spiegò sinteticamente il carattere della città, che, senza essere comunista, non aveva ceduto al capitalismo.
L’offerta di cibo di strada era tale e talmente accessibile, che nemmeno l’adolescente più sprovveduto sarebbe andato a mangiarsi l’hamburger.
(Figuriamoci la merendina).


Il fast food napoletano, del resto, si chiama Vaco e’ Press, versione locale di quello che va di fretta.
Insomma, sto dicendo che con un po’ di fantasia i ragazzini sarebbero nutriti meglio.
Del resto lo Chef ha un figlio, che sembra un puttino del Rinascimento, che è pure più piccolo di Loïc e che mangia tutto, pure l’aglio, la cipolla, il fritto, il pepe, ho guardato ormai una cinquantina di video e, a parte quello dedicato con la pasta con il pomodoro a crudo grattugiato, al ragazzino è proibito l’alcol (per ora) e il peperoncino, che viene aggiunto sul piatto degli adulti.

Max & Mariuccio

E non è il primo caso.
Lessi di un altro chef che educava il figlioletto ai sapori più diversi, l’amaro e l’acido, per esempio, semplicemente facendoglieli gustare.
Insomma,  nel mondo non c’è solo il dolce e ricordo che la signora Anna della lavanderia dove porto a stirare le lenzuola usa la locuzione «gli italiani hanno assaggiato lo zucchero» per alludere al fatto che essi sono diventati tutti pieni di pretese e che è successo come con i bambini, ai quali si dà il ciuccio intinto nello zucchero, corrompendoli definitivamente.

James Walvin, How Sugar Corrupted the World, 2019

Se avete dei dubbi, date un’occhiata alla bella ricerca di James Walvin How Sugar Corrupted the World. From Slavery to Obesity  e sappiatemi dire.
Per chiarire.
Io praticamente non ho nessuna predisposizione nei confronti dei dolci e nemmeno dei bambini, quindi i miei ragionamenti non sono, mettiamola così, frutto di un’appartenenza o di uno schieramento, io trovo solo le merendine immangiabili e non capisco perché le madri le diano da mangiare alle loro creature.

Per finire.
1. Amanda Sthers.

Amanda

Una bravissima, scrittrice, drammaturgo, cineasta, regista. L’ho incontrata in un manifesto sotto una galleria della metropolitana di Parigi.

Lili Lampion, 2011

Mi sono comprata il libro tratto dal suo musical Lili Lampion, la storia di una ragazzina che va a New York con una famiglia un po’ disfatta per curare il fratellino malato.
Quello che ho io è il suo carnet secret, ossia il suo diario.
E ho cominciato a vedere che faceva lei.
Chiarisco che dalle mie parti le persone che frequento e che fanno di più sono il mio parrucchiere e la mia podologa, entrambi esempi di una riuscita professionale indiscutibile.
Certo, è colpa mia, che sono un’asociale che non vede la gente giusta.
Ma non fatemici pensare: già sono en jachère.

Azzoppata, ridotta professionalmente al 20% della mia attività per motivi tecnici, nemmeno contrariata, e che devo fare.
Però da noi io una come lei non la vedo.
Fra l’altro, capace anche in cucina.

Amanda Sthers, Le building

Le sue ricette per Lili Lampion sono una delizia, vi ho proposto la mela caramellata in apertura, adesso guardate Le Building, ancora un omaggio a New York, stavolta fatto di carote, cetriolo, peperoni.
Un cucchiaio di crème fraîche, che è qualcosa di simile alla panna; olio d’oliva (qui, nessun problema); ciboulette, ovvero erba cipollina tagliata piccola piccola; sale; pepe.

Pepe pure qui e per i ragazzini.
Allora ci prendo quando dico che il pepe è il re delle spezie e non è quell’abominio che è da noi.

2. Il titolo di questo post. Una vecchia canzone del 1949, Addio, sogni di gloria.

Quando, ragazzi felici, andavamo alla scuola
Con la cartella a tracolla ed in tasca la mela
Per il futuro avevamo un vestito di gala
Quante speranze di gloria, di celebrità
Ma inesorabile il tempo tracciava il cammino
E a testa china anneghiamo nel nostro destino
Addio, sogni di gloria
Addio, castelli in aria
Guardo con sordo rancore la mia scrivania
Cerco scacciare, ma invano, la monotonia…
 Tristissima.
Stranamente triste per l’umore dell’epoca, fatuo e ottimista.
Mi piacerebbe sentirla cantare da qualcuno capace di fare del nuovo con il vecchio, ma non ho trovato niente.
E mi resta il dubbio che la sostituzione della cartella a tracolla con lo zaino e della mela con la merendina qualche guaio l’abbia fatto.
Chissà.