Rosa Gloria di Roma

Fanno rete, è evidente.
Laddove noi facciamo famiglia, mafia, massoneria.
Loro, no.
Se potessi congiungere i puntini degli account Instagram che seguo, come sulla Settimana Enigmistica, Che cosa apparirà, uscirebbe fuori la rete delle giovani donne che seguo.
Tutte impegnate a creare. Molte, che scrivono bene.
Io da una bella penna sono disposta a leggere pure cose di cui non mi importa niente: tennis, politica, coltivazione dei funghi.
It’s the Singer, not the Song, come sempre.
Ieri, però, nella Newsletter del pomeriggio, quella della mattina tratta di altro, è uscito fuori un argomento delicato, spinoso, sensibile.
Una lettrice scrive in privato alla blogger, blogeuse, poi diventata giornalista e Instagram Coach, che ha deciso di sospendere temporaneamente di seguirla perché poco le interessano gli argomenti che lei sta trattando di recente e, soprattutto, perché si sente ingannata da una serie di post, tutti uguali e che compaiono contemporaneamente su account diversi, che le sembrano una pubblicità mascherata.
(A me sono sembrati una pubblicità bella e buona).
La lettrice chiarisce che lei trova le creatrici di cui lei parla extra, dice proprio così, e che segue pure loro, ma che si sente manipolata.

Siccome seguo quelle creatrici pure io, la faccenda mi interessa.

La risposta della blogeuse/giornalista/Instagram Coach è come sempre è lei: limpida, netta, partecipe.
Dice che lei ha dei rapporti di amicizia (la rete) con le persone di cui presenta la produzione e che tutto questo è il risultato di sedici anni di presenza in internet e di migliaia di contatti.

Géraldine avec son pull à damiers

Dice, inoltre, che il golf che lei ha indossato e di cui ha parlato è «un delirio creativo, una scommessa costosa da produrre (lavorare dei quadrati necessita due volte più lana del solito)».
Che le creatrici si sono potute permettere solo di regalare dieci di queste maglie, che loro realizzano su commissione, proprio per i costi e che lo hanno fatto «in coscienza e con piacere».
Insomma, la loro non è stata una campagna di gifting.
La cosa riguarda anche un libro di un’altra persona.
Io so che cosa fanno queste giovani donne: esse creano in campi diversi, scrittura, moda, yoga, fumetti, arte.
Le stimo tutte.
Per forare la cacofonia di Instagram e lasciare un’impronta, bisogna provocare una piccola esplosione, ossia fare in modo che in tanti parlino di un solo prodotto contemporaneamente.
Una simile operazione costa molto.
Le grandi aziende possono permettersela.
Le piccole aziende possono solo contare sull’aiuto delle copines (la rete).
Dietro tutto questo c’è la creazione che, ricordiamocelo, è fragile.
E ricordiamoci pure che tutte queste creatrici investono molto emotivamente.
A me il ragionamento sta bene.
E penso, ragionando, che se da noi ci fosse più rete e meno famiglia (e non parlo del resto), i talenti uscirebbero fuori più facilmente.
O, almeno, uscirebbero.

Quando dico che non mi fido degli astemi, dico proprio questo.
Il musicologo si dà delle arie e tracima e invade il mio campo.
Cita l’Art Brut, teorizzata da Jean Dubuffet, che è l’arte di quelli rinchiusi negli ospedali psichiatrici, nelle carceri, degli scoppiati in genere.
L’arte, come è noto, a tratti diventa e ridiventa selvaggia.

Jean Dubuffet, L’evasione, 1964

Il musicologo, che è veneto e che quindi di vino dovrebbe saperne, pronuncia bru.
Mai sentito parlare di un certo tipo di spumante. 
Mi ricordo di botto che una volta lui disse di essere astemio.
Dunque, si è condannato a fare la figura del cioccolataio, dal duca Carlo Felice che, saputo che un cioccolatiere che aveva fatto molto denaro aveva una carrozza più sontuosa della sua, pretese un tiro di cavalli ancora più numeroso, visto che, quando usciva, non voleva fare la figura del  ciculatè.

Ben ti sta.

Vini del Veneto, offriteli al musicologo

In un attimo, una carriera compromessa.
Come fai a essere veneto senza conoscere il vino.
E come fai senza conoscere il vino a occuparti di arte.
Brut era e brut deve rimanere.

Dicono che Milano e Londra durante il confinamento erano desolate e tristi.
Roma, invece, era bellissima.
Come se la Città eterna vivesse e respirasse da sola la sua leggenda e invece Milano e Londra avessero bisogno del contingente per raccontarsela.

Giovan Battista Falda, Pianta di Roma, part. con Isola Tiberina, 1676

Roma che come l’eroinomane basta a se stessa, Milano e Londra che come il cocainomane vanno agitate alla ricerca di qualcosa e di qualcuno che le riempia.
Su questa faccenda dovremo ritornare, il confinamento come cartina di tornasole dell’autosufficienza.

Una delle cose più simpatiche del recente G20, al di là della blindatura della città, quattordici stazioni della metropolitana chiuse e macchine nere della sicurezza dappertutto, è stata la diffusa presenza di soldatini alti e belli a ogni angolo.
Al ventesimo soldatino alto e bello, ne ho avvicinato uno e gli ho chiesto se avevano fatto una selezione, ovvero se li avevano scelti così prestanti per far fare bella figura all’Italia.
Mentre io parlavo con uno, se ne è avvicinato un altro e sono scoppiati a ridere in due.

Granatiere d’antan

«Ma no – mi hanno detto – siamo alti perché siamo granatieri».
(Non hanno parlato di bellezza perché, come è noto, chi si loda si imbroda).
E mi hanno spiegato che in passato poteva fare il granatiere solo chi raggiungeva il metro e novanta.
Adesso la regola è che bisogna comunque superare il metro e ottanta; uno e ottantacinque per la carriera da ufficiale.

Ho pensato ma tu guarda come sono stordita, mica lo sapevo, da ragazza avrei potuto dare un’occhiata a qualche caserma e, come Lili Marleen, uno dei miei miti più romantici, darmi appuntamento sotto un fanale con un bel granatierino in libera uscita.

Vor der Kaserne
Vor dem großen Tor
Stand eine Laterne
Und steht sie noch davor
So woll’n wir uns da wieder seh’n
Bei der Laterne wollen wir steh’n
Wie einst Lili Marleen.
Wie einst Lili Marleen.

Davanti alla caserma
Davanti alla grande porta,
C’era un lampione.
E sta ancora lì davanti,
Così noi vogliamo vederci di nuovo lì,
Noi vogliamo stare presso il lampione
Come una volta, Lili Marleen.
Come una volta, Lili Marleen.

Le due persone che conosco più brave nel narrare hanno molto in comune.
Sono, infatti, i titolari delle mie due lavanderie.
Nessuno, come nei migliori tradimenti, sa dell’altro.
Entrambi abruzzesi, grandi lavoratori, hanno tutti e due un repertorio inesauribile di fatti, famiglia, clienti, considerazioni generali sulla vita,  stiratura, panni sporchi.
Sia la signora Anna che il signor Michele narrano però a modo loro: senza un filo logico, tutte le volte che mi metto lì e cerco di stabilire una cronologia dei fatti o di identificare i personaggi, non ci riesco.

Gerhard Markus, I Musicanti di Brema, 1953

Saltano di palo in frasca, in francese si dice passer du coq à l’âne, passare dal gallo all’asino, pare che sia una citazione della favola dei fratelli Grimm I musicanti di Brema, c’erano quattro animali, gallo, cane, gatto, asino, che si mettono uno sopra l’altro per spaventare dei lestofanti.
In effetti, se guardate il monumento, si capisce tutto: incongruo ma efficace.
Ma, nonostante gli avvitamenti della narrazione, la signora Anna e il signor Michele raccontano benissimo.
Ancora una volta, it’s the Singer, not the Song.
(Il più bel complimento che ho ricevuto nella mia vita professionale fu che avrei pure potuto recitare l’elenco del telefono, le lezioni sarebbero state comunque bellissime. Ma fate conto che non ve l’abbia detto per il medesimo rischio di imbrodamento dei granatieri).

Quelli che cucinano bene suscitano in me un’ammirazione sconfinata, un’invidia sana, un gusto per la vita che di solito mi sfugge (e questa, al di là del dato estetico, è la cosa più importante).

Le beurre infusé signature de @ladamedepiclondon

Voi guardate che combina Anne-Sophie Pic, tre stelle Michelin, con il burro.
Questa creazione è la segnatura del suo ristorante di Londra.
Voi avete presente quando si dice ti preparo un paio di tartine.
Ecco.
E poi le rose, evidentemente, sono versatili e possono essere citate dappertutto.
Vedi oltre.

Hanno ragione, coloro che sostengono che le vere enciclopedie sono solo quelle cartacee. Infatti, lì tu cerchi una cosa e ne trovi anche un’altra, sfogliare le pagine è un’avventura in sé, qualcuno sostiene che il tuo vero libro è quello che sta accanto a quello di cui pensavi di avere bisogno.
E fu così che cercando sull’Enciclopedia dei Fiori e del Giardino la scheda Lilium (Giglio) per la mia Newsletter settimanale, ho trovato una rosa che si chiama Gloria di Roma.

Ippolito Pizzetti, Enciclopedia dei Fiori e del Giardino, 1998

E come potevo farmela scappare.
L’autore di questo testo, che sta nella libreria dove ci sono i libri a me più cari, è Ippolito Pizzetti, sapiente, veggente, mago, figlio del musicista Ildebrando.
La voce Rosa è ricchissima e lui esordisce dicendo che essa «è qualcosa di inattingibile, un mistero, una entità che non sopporta aggettivi che la limitino».
Dice che su questa strada di iniziazione, lui non è neppure un catecumeno (figuriamoci noi).
Che le rose non si coltivano in terrazzo perché «niente sembra più umiliante per le rose che essere messe in fila su palchi e palchetti e cresciute in vasi, nude fin sotto il collo».
Le rose sono arbusti o cespugli sarmentosi (il sarmento è un ramo flessibile).

La Breve storia della Rosa è, in realtà, lunghissima. Essa parte dall’epoca dei Sumeri, e siamo a 5.000 anni fa, e arriva a noi, oggi, con tutto ciò che della rosa ha fatto la chiesa (tutto minuscolo), con il culto del fiore che dilaga, passando poi ai collezionisti e agli ibridatori, citando Proust, D’Annunzio, Rilke.
Nessuno si salva.
(E perché qualcuno dovrebbe volersi salvare).

Ippolito

Nella sua grande saggezza, nella sua infinita simpatia, Ippolito Pizzetti scrive che «se squallidissimi sono quei giardini pettinati e geometrici in cui tutto è ordinato come un’aiuola di una stazione ferroviaria, folle d’altra parte è pensare che non vi è nulla di meglio del lasciar fare alla natura».
Insomma, le Rose «non possono mai, per nessuna ragione, essere lasciate a se stesse».
(Chissà i guai che combinano).
Come sempre nella grande opera letteraria, ogni cosa vale per sé e per tutte le metafore e per tutto il resto che contiene.
Insomma, nei fiori e nei giardini, dove già c’è tanto, c’è anche ben altro.
Per me, poi, con il nome che porto, le rose hanno un senso tutto particolare e diventano filo conduttore, pretesto, motivo di ispirazione.
Ovvio, che quando ho incontrato la Gloria di Roma, ho detto adesso la uso perché mi scandisca un nuovo post, ogni petalo un argomento, tutti raccolti intorno al suo nome.

A Roma, ci siamo.
Della gloria, ne riparliamo.