Se è francese, di solito costa di più
(Anne Fogarty, The Art of Being a Well Dressed Wife, 1959)

Avevo voglia di un vestito.
Ho comprato due vestiti.
Sono rimasta senza vestiti e con la voglia di un vestito.

Il primo vestito l’ho preso da un’azienda di Barcellona, che mi era sembrata interessante. Faceva un po’ Petit Bateau, che dal 1920 vende abiti e biancheria per i più piccoli, ma arriva fino ai sedici/diciotto anni, quindi non ho mai avuto problemi a comprarmi una T-shirt e una volta anche un vestituccio a righe, che ho portato molto.

Beatrice Mallet, Marinette, per Petit Bateau, anni ’20

L’azienda di Barcellona, quindi catalana, mi ha mandato un pacchetto molto ben fatto. L’abito, che era di garza leggera, era avvolto in una nuvola di carta velina. La plastica, come è noto, rovina il mondo. Nel pacchetto c’era poi un portachiavi (di plastica) Made in China con dei gelati sopra e due cartoline grandi, con due foto e due citazioni.
L’autore di una delle citazioni mi era sconosciuto.
L’altro era Monet, ed era una cosa sulla natura.

Claude

Scritta in inglese.
Lieve senso di scollamento.
Io sono italiana. Monet è francese. Loro sono catalani. E scrivono in inglese. Bene, vuol dire che hanno un’anima cosmopolita.
Ho provato il vestito a casa mia, davanti al mio specchio.
Non mi convinceva, faceva troppo copricostume.
Ho pensato che forse mi sarei dovuta comprare prima un costume.
Poi ho pensato che da un pezzo non vado al mare e che ho sospeso di andare al mare per un paio di questioni di pelle: non voglio rovinarmi la mia con il sole; non voglio vedere quella degli altri, troppo esposta e piena di tatuaggi.
(Certe volte mi chiedo se ci sia stata un’invasione di Maori, tutti stufi di stare in Polinesia, quindi in cerca, come diceva il mio manuale di storia dell’arte a proposito dei barbari, e l’accostamento è casuale, di un ubi consistam).
Mi sono chiesta se avrei indossato l’abito per uscire con un uomo, la risposta è stata «no».
Dunque, ho deciso di rispedirlo al mittente.
Ma avevo capito male, o meglio, il video che spiegava quanto era facile rimandare indietro un capo di abbigliamento era menzognero.
Non chiariva che la spesa era a carico del cliente.
L’ho riguardato adesso e l’ambiguità ci sta tutta.
Ho fatto un primo tentativo con un corriere, che mi ha chiesto una cifra esorbitante.
Ho scritto al servizio clienti dell’azienda, che mi ha risposto subito. Una mail piena di faccette e di gentilezza in cui si diceva che avrei dovuto pagare io il ritorno. Dopo cinque minuti mi è arrivata un’altra mail che mi chiedeva di valutare l’operato del servizio clienti.
Non ho risposto perché ci stavo pensando.
Dopo qualche ricerca sono riuscita a rimandare il copricostume al mittente per un prezzo ragionevole.
Considerando che avevo avuto uno sconto di benvenuto, pur avendo pagato io entrambe le spedizioni, il giochino non mi ha portata alla rovina.
E, come ho detto al tipo che si è occupato della mia busta, non volendo il copricostume nel mio guardaroba, non lo volevo nemmeno fra i piedi e nella testa.
Ora devo controllare se mi hanno restituito i soldi.

Ho comprato un altro vestito, stavolta da un’azienda francese.
La titolare è una bella donna, molto parigina, con una intensa presenza sui social. Ha partorito e dopo un mese aveva già riacquistato la linea e stava seduta su un marciapiede, ben fotografata, a leccare un gelato che le porgeva un uomo (che immagino fosse il padre del bambino. Ma non sono affari miei).
Da un pezzo volevo comprarmi un suo vestito. L’idea era quella di entrare in possesso non solo dell’abito, ma anche dello stile, quello che loro chiamano, di nuovo in inglese, Parisian attitude, con uno charme un po’ rétro (rétro l’ho scritto io in francese).
Lascio perdere i bambini e i gelati, perché non mi piacciono né gli uni, né gli altri.
L’abito è arrivato in una bella confezione, anch’esso avvolto in una nuvola di carta velina. C’era pure un regalo, una tote bag a grandi fiori gialli.
Ho provato il vestito a casa mia, davanti al mio specchio.
Non mi convinceva, faceva troppo vestaglietta.
Mi sono chiesta se lo avrei indossato per uscire con un uomo, la risposta è stata «no».
Dunque, ho deciso di rispedirlo al mittente.
Però la vestaglietta mi ha fatto pensare alla vendetta orchestrata da Simone Signoret nella sua autobiografia, bella a partire dal titolo: La nostalgia non è più quella di un tempo.

Simone

Una vendetta affettuosa. E del tutto comprensibile.
Loro quattro, lei, Marilyn, Montand, Miller, durante la lavorazione di Facciamo l’amore vissero a Beverly Hills per quattro mesi in appartamenti contigui.
Quando i rispettivi coniugi si allontanarono per impegni di lavoro, Montand e Marilyn ebbero un affair.
La stampa dettò i loro ruoli: la bionda spezza-matrimoni, il bel tenebroso, il topo di biblioteca, la sposa ammirevole ripiegata sulla sua dignità.
Succede, anche se, in quelle condizioni di fama, penso che sia stato increscioso.
Eroica, Simone parla di Marilyn con simpatia: «Tornava con una vestaglietta di raion blu pervinca con pois bianchi. Struccata, priva delle ciglia finte, scalza, il che la rendeva un pochino tracagnotta, aveva la faccia e l’aspetto della più bella tra le contadine dell’Ile-de-France…».
Inoltre.
«Così come mi aveva detto: “Guarda, credono tutti che io abbia delle belle gambe lunghe; invece le ho storte e corte”. Era a malapena vero nella vestaglietta da quattro soldi…».
D’accordo, ho tagliato qui e là le citazioni, ma sono donna e leggo nel cuore delle donne e sono soprattutto capace di andare al sodo, quindi ciò che esce fuori da questa pagina è soprattutto la vestaglietta.
Figuriamoci se mi compro un abito che me la ricorda.
Fra l’altro, un abito di un certo prezzo: quello francese costava il doppio dello spagnolo.
Con i bottoni di madreperla e un taglio che sarebbe potuto essere interessante, ma con le finiture che lasciavano a desiderare.
Bastava, come ho fatto io, rigirarlo da tutte le parti.
Ho dunque rifatto tutta la confezione, messo tutto in una busta, stavolta sapevo che la spedizione era a mio carico, e sono andata al solito posto.
Dove mi hanno fatto pagare una cifra diversa, superiore.
Ho chiesto se Spagna e Francia non stavamo più tutte e due in Europa, mi hanno detto e loro che ne sanno, sapessi quanto costa spedire in Svizzera.
Ho detto che, non volendo la vestaglietta nel mio guardaroba, non la volevo nemmeno fra i piedi e nella testa.
Ora devo controllare se mi hanno restituito i soldi.

Avevo voglia di un paio di sandali.
Mi sono comprata un paio di sandali, francesi.
Mi è arrivata una superconfezione con spedizione a carico del mittente.
Ho steso a terra un lenzuolo vecchio e ho provato i sandali davanti al mio specchio.
Mi sono chiesta se li avrei indossati per uscire con un uomo, la risposta è stata «sì».
Ma devo decidere se tenerli.
Ho trenta giorni di tempo.
La spesa del corriere rimane a carico loro.
Quando si dice saper stare al mondo e avere cura del cliente.

Avevo voglia di una gonna a portafoglio.
Mi ricordo che ne ho avute un paio in vita mia e che erano versatili e comode.
Si possono usare anche come copricostume.
Allora sei matta.
No, sto scherzando, comunque, «Woman is at best a contradiction», come dice un’altra citazione del libro che vi ho messo in apertura.
(Anche se non mi ci riconosco per niente, come del resto non mi riconosco nello shopping).
Su IG mi vengono continuamente proposti abiti. Colpa mia, che li guardo. Dunque, trovo una gonna che potrebbe andare bene presso un’azienda sarda. Queste sono alcune note: « i disegni dei tessuti richiamano gli elementi della natura mediterranea: i suoi colori e i suoi profumi. Proposti su basi pastello e i toni più accesi, sono gli elementi ideali per i tuoi outfit estivi».
Mi ricordo che una volta a Napoli in Accademia, prove di ammissione sezione Fashion Design, una studentessa scrisse nella descrizione del figurino che aveva fatto «outfeet».
Quando proposi di non ammetterla perché era una bestia, i colleghi in commissione mi dissero che ero troppo severa.
Le taglie della gonna, essendo a portafoglio, erano due, la prima delle quali era esaurita. L’altra secondo me sarebbe stata troppo ampia.
Ho un rapido scambio con il servizio clienti, che poi è incarnato dalla titolare in persona, che mi dice di procedere all’ordine perché sta provvedendo al riassortimento.
Mi propone subito uno sconto di benvenuto e mi dice che la gonna sarà disponibile dal 15 giugno.
Le faccio i complimenti per il sito, che è bello, pulito, poetico, e per il logo, che mi piace molto e che rappresenta un fringuello, che dà anche il nome, nella sua versione in sardo-gallurese, al marchio.
Spero che la gonna a portafoglio arrivi presto, che mi piaccia, che mi stia bene.
E che sia adatta a uscire con un uomo.

Altrimenti torno a pescare nel mio guardaroba. Dove occupano nuovamente il loro posto due paia di blue jeans light weight che tenevo per nostalgia e compassione, vecchi Closed Pedal Pusher, quelli con l’occhiello per infilare il rebbio della fibbia della cintura, che erano stati bellissimi e talmente amati da essere portati alla consunzione.
Ma è intervenuto il mio sarto del Bangladesh, che ha fatto un altro dei suoi miracoli.
Ha rammendato gli sbreghi, messo toppe, ricucito squarci, al punto che, mostrati al ragazzo del mio garage, quello sempre trendy, quindi con addosso blue jeans che cascano a pezzi, hanno riscosso plauso e ammirazione.

Anzi, sapete che vi dico.
Quasi quasi mi compro un altro paio di blue jeans, medium-weight, skinny pusher long organic super stretch.
Li ho visti sul solito sito tedesco, ci sono quindici giorni di tempo per decidere e il ritorno, in Europa, è a loro carico.

E lascio perdere copricostumi, vestagliette, gonne e fringuelli, mi ritrovo nel mio capo di abbigliamento prediletto, quello che sta bene con tutto, che passa dall’habillé al déshabillé in un soffio, giacca o maglia.

Jane

Che fa Jane Birkin, pagina bianca sulla quale puoi scrivere quello che ti pare, tela di fondo di tutte le scene possibili, sceneggiatura aperta, narrazione infinita, libertà, avventura.
Che resti fra noi, l’unico, come dicono loro, outfit nel quale mi sento bene e con addosso il quale ho voglia di uscire con un uomo.