Victor

Li scopri tutti in cucina, che divorano quello che hanno trovato in frigorifero o che mangiano direttamente dal tegame.
Li capisco, dopo anni senza cibo, farei anch’io la medesima cosa.
Eppure sembrano tutti bene in carne, fra l’altro non sono cambiati, vedi tu il vantaggio di morire giovane: non invecchi.
Ma questo si sapeva.
Lo dice tutta una letteratura dedicata alla consolazione, che canta eroi e meno eroi, che comunque hanno lasciato un vuoto.

Da un pezzo giro intorno a questa serie, ma non posso vederla perché mi fa paura.
Però la paura talvolta è bella, c’è tutto un pubblico di appassionati di splatter e horror.
No, perché qui è un’altra cosa, più sottile, più sfumata, più profonda.
Io ho paura dei morti che ritornano.

Ecco perché non posso vedere Les Revenants.
Anche se ogni tanto ci ricasco.

Ieri, per esempio.
Un po’ volevo fare una pausa nella lezione che stavo preparando. Un po’ volevo distrarmi da un’ossessione che era tornata.
Ho visto un episodio e mezzo, e per fortuna che sono dovuta andare a preparare la cena, perché già con questa dose stanotte mi sono svegliata alle due e trentotto, l’ora brillava sul telefono, e ho sentito chiaramente il rumore delle bottiglie di vino che si toccano quando si apre lo sportello del frigorifero e poi quello di stoviglie.
C’è qualcuno in cucina che mangia.
E chi può essere, se non un revenant, certo è che i pesci rossi non hanno ancora imparato a uscire dalla vasca.

L’idea è geniale. E a svilupparla è intervenuto nella sceneggiatura anche un grande scrittore. Dunque, il volo letterario è assicurato, alto e costante.
Il luogo è perfetto. Lo so perché sono stata in Haute-Savoie a fare la jeune fille au pair con l’idea di imparare il francese sul posto e mai posto mi sembrò più tetro: avevo ventun anni, mordevo freni da tutte le parti e mi ritrovai in isolamento con due ragazzini, due cuginetti di cinque anni e nove mesi, che non corrispondevano del tutto alla mia idea di vacanza di studio all’estero.
Inoltre, il quindici di agosto l’estate era già finita e non ci fu verso di farla tornare.

Tornano, invece, coloro che non dovrebbero.
Per esempio, quando l’infermiera Julie va a fare un’iniezione calmante a Monsieur Costa, l’anziano maestro in pensione, sente dei rumori che vengono dalla cucina.
C’è qualcuno.
Lui nega, ma in cucina c’è la moglie. Nuance, morta da trentacinque anni, quindi, affamatissima. Lui, rinvigorito dall’iniezione, fa quello che tutti prima o poi vorremmo fare: dà fuoco al coniuge. Che si infiamma subito dopo il mucchietto di foto ricordo, cosparse di liquido combustibile.
Madame Costa è stata preventivamente legata e messa in condizioni di non poter dire l’ultima parola, ciò che alle mogli piace tanto.
Voi pensate, che scena liberatoria. La creatura che più vi ha deluso al mondo, d’accordo, anche se la colpa è vostra perché vi eravate riempiti di illusioni a suo riguardo, che, finalmente, scende dal piedistallo e sale sulla pira che le avevate augurato tante volte.

Le barrage de Tignes

Monsieur Costa si suicida, soddisfatto. E lo fa buttandosi dalla diga, altro elemento perfetto per suggerire il vuoto siderale del luogo dell’azione.

Ma avevamo lasciato l’infermiera Julie che stava tornando a casa.

Qui bisogna dire pure che tutte le donne della serie vanno in giro da sole anche a notte alta. Il paese è piccolo, isolato, gli autobus funzionano bene.
E poi chi vuoi che ti importuni in un posto così tranquillo, dove tutti si conoscono.
Infatti.
Julie viene seguita da un ragazzino, che è la presenza più inquietante di tutte.
Non apre bocca e si vuole palesemente fare adottare.
Ha fame pure lui.
E lo vediamo che si mangia educatamente il piattone di riso in bianco che lei, non trovando di meglio, gli ha preparando.
Lui sì, che è un bambino educato, mangia bene, a bocca chiusa e masticando, ripulisce tutto, non chiede hamburger né merendine.
Nuance. È morto pure lui trentacinque anni prima ed è un menagramo, una specie di veggente che intuisce, e forse provoca, sciagure e decessi.
Per esempio era lui, chiamato Victor dall’infermiera, che stava piantato in mezzo alla strada quando il pullman con trentotto studenti a bordo, per non investirlo, precipita nel burrone.
Tutti morti.
E l’episodio 1 della stagione 1 ci mostra quasi subito Camille, una delle vittime, che risale la china e si incammina per la strada e rientra a casa.
Dovreste vedere la faccia della madre quando la trova davanti al frigorifero.
Perché, voi che faccia avreste fatto, sapete, quando si dice ma che hai visto un fantasma.
Non solo, orrore nell’orrore, Camille ha una sorella gemella, viva e vivace, che è cresciuta rispetto a lei di quattro anni, quindi è una ragazza, quando lei è ancora un’adolescente.
Comunque, un problema l’hanno risolto: almeno non sono più uguali.
A me i gemelli mi inquietano, mi sembrano tutti l’eco di se stessi, io se avessi avuto una sorella gemella, l’avrei strozzata in culla.
O avrei aspettato pazientemente la gita scolastica con l’incidente.

Ma come fai a sapere tutte queste cose avendo visto solo un episodio e mezzo. Perché sono andata a leggermi tutte le trame di entrambe le stagioni, perché devo decidere se comprarmi la serie o torturarmi su you tube una tantum (dall’ultima volta erano passati almeno due anni), con delle cadute nella paura che suscita in me il soggetto e poi le notti in bianco.
Mi dico che non posso essere così scema, che è una serie bellissima, probabilmente all’altezza dell’ultima che ho finito di vedere, binge watching, cinque mesi fa.

Cinque mesi senza serie perché temo di scendere di livello.

(Bellezza dei dettagli così delicati: per esempio, le mani.
La madre delle gemelle, terrorizzate una dall’altra quando si ritrovano, che abbraccia Camille e porge la mano a Léna; Victor, che spaventato dalla vicina ficcanaso di Julie, infila la manina nella mano di quest’ultima. Ancora una volta, senza dire una parola).

Qui ci sono un sacco di temi interessanti: la riflessione sul posto che occupiamo al mondo e come quel posto resta vuoto o si riempie rapidamente quando lo liberiamo; l’andirivieni incessante dei sentimenti nelle relazioni, che non si chiudono mai definitivamente, del resto, si sa, le storie d’amore non sono mai lineari; il legame con il luogo di origine, fosse pure un paese schiacciato fra diga e montagne, che ha come unico posto di svago un pub che solo una clientela di personaggi tutti legati uno all’altro da un destino comune rende desiderabile; la prima giovinezza e le sue prove e poi le giovinezze seguenti, che stanno lì a testimoniare tutte le volte che si ricomincia.

The Lake Pub

La scuola.
Il freddo.
La famiglia.
Il lutto.
Che te ne fai della morte.
La follia nella quale precipitano tutti coloro che perdono un figlio (ho più di una narrazione a mio carico, io vivo di parole e con le parole lavoro. Mi è sempre capitato che quelli che ascoltavano le mie parole poi volessero farmi ascoltare le loro).

Insomma, ce ne sono di motivi per cliccare quel bottone aggiungi al carrello, che è pure evidenziato per le volte che ci ho sbattuto contro, arrestandomi.

Perché poi non dormo la notte.
Perché ho paura dei morti che ritornano.