Parigi, il caffè del Musée de la Vie Romantique

Le ho provate tutte.
Ho provato tutte le bevande.
Dopo le 18:00 non ho più il problema e passo in modalità alcolica. Il problema ce l’ho prima.
L’orzo e il decaffeinato fanno malato.
La camomilla fa nevrastenico.
La tisana fa mamie.
Il tè, preferisco prenderlo a casa mia: il mio tè, le mie porcellane, la mia colazione.
A proposito di tè, e dell’apertura di questa Newsletter, vi racconto qualcosa.
Ai Giardini della Biennale di Venezia 2015, andai al bar e chiesi un tè.
La barista mi disse che lo avevano finito.
Come si possa finire il tè, ancora me lo chiedo.
Tu puoi finire il pane, il latte, l’insalata.
Ma il tè.
Non solo.
In mostra c’era un’opera di un’artista cubana, Tania Bruguera, che praticamente era un corridoio da attraversare, e le pareti del corridoio erano fatte di bustine di tè.

Il titolo era Poetic Justice e l’opera derivava da una residenza in India durante la quale l’artista aveva avuto modo di riflettere sul senso del tè.
Perché così fanno (e sono) gli artisti: riflettono.
Il tè è originario della Cina ed è coltivato in tutto l’Impero britannico.
Le aziende inglesi importano il tè dall’Asia, lo confezionano e lo distribuiscono di nuovo in India.
Ovvero una cultura autonoma, quella inglese, si impadronisce di un prodotto, lo impacchetta e lo distribuisce nuovamente nel luogo di provenienza, praticamente mascherandolo da cultura d’importazione.
Ma, a parte il contenuto artistico, il corridoio attraverso il quale passai era profumatissimo.

Tania Bruguera, Poetic Justice, 2003

E al bar non avevano più tè.
Ovvio, che feci la battuta.
Ma andatelo a prendere nell’opera d’arte.
Ovvio che al bar non capirono, figuriamoci se erano entrati in mostra.
Fu così che ripiegai su un’acqua minerale. Piatta e a temperatura ambiente.
Ma torno al cuore di quello che voglio dirvi.
Io non bevo caffè. Ho smesso con il caffè quando ho smesso di fumare. Quindi, sono tagliata fuori da tutta una serie di rituali universali, il bar, la tazza, l’invito.
Non solo.
Ho insegnato all’Accademia di Belle Arti di Napoli per parecchio tempo e tutti i miei colleghi si facevano il caffè in aula, alcuni addirittura con la napoletana, e tutti me lo offrivano.
E mi offrivano il caffè i bidelli, gli amici, i conoscenti.
Una montagna da scalare.
Dicevo no, grazie, ne ho già presi troppi, ho buttato bicchieretti di caffè in tutte le piante dell’Accademia, ne ho offerti a tutti gli studenti.
Poi, un giorno, non potendone più, sapete come succede, è la goccia di cui tutti parlano, lo dissi.
Io non prendo caffè.
Traditore della patria. Nella città del bicchiere d’acqua, da bere prima per pulirsi la bocca, servito accanto alla tazzina di caffè.
Comunque ho capito da che cosa deriva il mio perenne senso di alienazione e di isolamento dal mondo: dal caffè.
E, come accennato, tutti i tentativi fatti di sostituire l’ordinazione con qualcosa di meno eccitante sono andati a male.
Ora, o all’invito al bar mi sottraggo, oppure ordino, estate e inverno, un bicchiere di acqua minerale, piatta e a temperatura ambiente, con un limone spremuto dentro.
E chi se ne importa se così sembro arcigna: tu invitami al bar dopo le 18:00.
Ma quello che voglio dire è che il dispiacere di non frequentare i caffè dei musei da queste parti è inesistente. Anche quelli meglio messi (devo citare Villa Borghese o non c’è bisogno) sono luoghi di pena, dove uno con un programma nella testa non inviterebbe mai una donna, visto il ricorrere delle teiere sbeccate e del bianco incerto delle giacche del personale di servizio.
E guardate che manco parlo di quello che il bar serve.
Per pura nostalgia vi mostro un’immagine del caffè del Musée de la vie Romantique di Parigi. Allestito nella casa-atelier di Ary Scheffer, pittore olandese naturalizzato francese, il museo è una cosetta.
Nel senso che è una cosa piccola, intima, con le stanze che vedi in venti minuti.
E di tutto ti innamori appena ci entri.
Il caffè è allestito nella serra ed è un luogo dove ti daresti un appuntamento, sedendoti a un tavolo, scrivendo un appunto o leggendo la pagina di una guida o di un libro.

Al polo opposto dell’opulenza, intendi grande dimora del 19° secolo con collezione privata (pure la Galleria Borghese di Roma è tale) e atmosfera su di giri, c’è il punto di ristoro del Musée Jacquemart-André, ancora a Parigi.
Di esso vi mostro solo il carrello dei dolci, comprensivo di un’occhiata sulla sala, così aristocratica.

Parigi, il caffé del Musée Jacquemart-André

Ma come nelle partite di calcio all’ultimo minuto, non finisce qua.
Perché loro organizzano, anche e per esempio, le merende di compleanno per i ragazzini, con una visita ludica alla collezione, un atelier, ovvero un luogo di lavoro, una caccia al tesoro e una merenda, che termina al café.
(E tu chiamalo café).
Avendo oggi chiacchierato con la signora dei contenitori americani, alla quale avevo chiesto due coperchi in sostituzione di quelli miei andati alla malora, ed avendomi lei raccontato i progetti, finalmente risorti, dei figlioletti impegnati nell’organizzazione delle feste di compleanno arretrate, sono ancora e più lucida.
A loro, la collezione privata raffinatissima in un ambiente che respira, e ci riesce benissimo, gioco & cultura.
A noi, la saletta del McDonald’s con l’odore di fritto e i palloncini.
Quando io dico che i miei colleghi direttori di museo dovrebbero smetterla di andare in vacanza nei posti esotici, quelli, per intenderci, con la palma in primo piano, e trascorrere almeno una settimana nei posti giusti, ovvero quelli in cui l’arte succede, dico proprio questo: andate a vedere che cosa fanno gli altri, quelli che nei caffè servono qualcosa che trascende la tazzina che a me crea tanto imbarazzo e isolamento e che propongono, in complemento e alternativa, vita, idee, progetti, umanità e sapienza.
Non fatemelo dire, visto che lo avete già capito e che il termine è impegnativo.
Cultura.
Io non voglio fare intrattenimento, io voglio fare cultura. E se poi la cultura ti intrattiene, meglio.

Il lunedì nella Miniserie American Beauty ci stiamo occupando di arte americana dei primi del XX secolo. E nell’Episodio 1 dicevo che un dipinto come quello di John Sloan in cui l’artista indaga un sabato sera al Renganeschi, famoso ristorante italiano a New York, e racconta la nuova libertà di donne che lavorano e che la sera escono con le amiche senza bisogno di avere uno chaperon di sesso maschile, mi fa venire fame e voglia di andare al ristorante.

John Sloan, Renganeschi’s Saturday Night, 1912

L’opera è del 1912 e se la guardate con un po’ di attenzione, coglierete la disinvoltura con cui una delle protagoniste siede a tavola: forchetta in aria, gomiti sul tavolo, gambe avvinte alle zampe della sedia.
Poco male, perché ha un bel cappello in testa e, soprattutto, sembra divertirsi, ovvero partecipare pienamente al rituale della cena fuori e di tutto quello che comporta, socialmente e sentimentalmente.
Voi provate a essere così allegri in un bar di un museo romano, a me non riesce.
Ma certamente la colpa è mia, per via delle mie ordinazioni che lasciano il caffè da parte e non ce la fanno a creare l’atmosfera.
Devo cominciare a ordinare un sorbetto, ma uno ben fatto, succo di limone, acqua e un po’ di zucchero, cioè una cosa gradevole e profumata, proprio come i Sorbetti che propongo io il giovedì.
Anche se adesso siamo alle prese con Donatello e lui è pure altro.
Lui, che è uno che appena ti ci avvicini, senti che ti investe con un’ondata di novità, di audacia e di inventiva.
Tutte cose che stanno nell’arte quando l’arte non è solo un modo per passare il tempo ma è, invece, il mezzo con cui il tempo si ricolma di tesori e di essi ti arricchisce.
Come dovrebbe fare una cena fuori o una sosta di ristoro durante o dopo una visita a un museo.
State bene e costruite rituali di ristoro, con o senza caffè, che abbiano in sé senso, ricchezza e gusto.

* Stavolta non ci sono andata leggera e ho sfilato il titolo di questa Newsletter alla cantata profana di Bach Schweigt stille, plaudert nicht (Tacete, non chiacchierate), nota come Kaffeekantate (Cantata del Caffè). In essa il Maestro prende spunto dalla moda del caffè, dilagante in Europa nel Settecento, che è mal vista sia per questioni morali (andare al caffè dava luogo a incontri promiscui), che economiche (il caffè faceva concorrenza alla birra). Una ragazza di buona famiglia (soprano) abusa del caffè e il padre (basso-baritono) cerca in tutti i modi di allontanarla dalla cattiva abitudine. Un cronista (tenore) introduce i loro dialoghi. Vi propongo un’interpretazione di Nikolaus Harnoncourt, in cui tutti gli interpreti sembrano divertirsi parecchio. Più di tutti, il direttore d’orchestra
** L’illustrazione di apertura è di Lorenzo Rocco
*** L’assistenza tecnica è di Virgilio Piccardi