L’INVENTARIO, 13. COME VIVERE UNA HIGH LIFE

Liz Taylor e James Dean, Il Gigante, 1956

La mia donna dai capelli di fuoco di legna
Dai pensieri a lampi di calore
Dalla vita di clessidra…
(André Breton, L’union libre, 1931)

Stavo preparando una lezione. Incontro questa American fashion designer, Anne Fogarty, nata nel 1919 e molto brillante, come idee e come scrittura.
A un certo punto il Philadelphia Museum le manda qualcuno per prenderle le misure per fare un manichino sul quale esporre l’abito da lei indossato in occasione  della consegna di un premio.

Lei arriva al museo, trova il volto del manichino molto bello e comincia a vestirlo. Ma non riesce a chiudere la cerniera del vestito.
Orgogliosamente, ci fa conoscere il suo giro vita: 18 pollici.
Faccio la conversione, un pollice = cm 2,54; prendo la calcolatrice; moltiplico 2,54 per 18; ricomincio daccapo perché penso di essermi sbagliata; non mi sono sbagliata.
Mi alzo dalla mia scrivania e vado in guardaroba a prendere la mia scatola da cucito.
Tiro fuori il metro da sarta.
Misuro il mio giro vita.
Ricontrollo.
Non conosco l’altezza di Anne Fogarty, ma qualunque essa sia, mi chiedo dove lei abbia messo tutte le cose che di solito stanno in una pancia, tutte più o meno indispensabili per stare al mondo.
Con i suoi cm 45,70 di giro vita, la signora mi sembra un po’ troppo esile perché dentro di lei ci stia tutto quello che deve starci.

Sul sito, la modella che indossa i blue jeans che voglio comprarmi fa m 1,78 di altezza. La taglia che indossa è di due volte inferiore alla mia, diciamo pure che sono taglie inglesi, dunque, 27, 28, 29.
Ciò non toglie, però, che lei sia davvero magra, anzi, è magra magra, diciamo pure che è pelle e ossa.
Altrimenti che modella sarebbe.
Vero, ma fino a un certo punto. Ultimamente su social e pubblicità allignano signore e signorine felici di superare i 70 kg. Che dovrebbero corrispondere, più o meno, al peso della modella dei blue jeans se solo fosse un po’ più in carne.
Non ci si capisce più niente: come Alice, che diventa prima piccola piccola, poi, grande grande, bevi dalla bottiglietta e vedi che ti succede, si sono persi i punti di riferimento.

Comunque, per la taglia ci siamo, devo solo ordinare quella dei jeans che già indosso.
Ora però devo capire dalle foto se «high waist», ovvero «vita alta», significa davvero quello che significa.

Pierre Paul Prud’hon, Giuseppina di Beauharnais, 1805

Già per me vita alta indica un punto vita che sta sopra alla vita. A vedere la moda Impero, sotto al seno.
(Verificate con la bella Giuseppina, ripudiata, sì, da Napoleone, ma sempre elegantissima).
Il fatto che la locuzione sia passata a indicare la vita dove sta normalmente la vita, già è la prova che da decenni si sta abusando della nostra pazienza a proposito dei blue jeans.
Non solo, a me risulta che la vita stia un paio di dita, quindi cm 3, sopra l’ombelico. Quindi, se un paio di pantaloni definiti high waist sono indossati da una modella che ha l’ombelico bello in mostra, forse sono simpatici e divertenti e forse pure sexy, ma certo non sono a vita alta.

Il sito è accuratamente dettagliato.
Non a caso sono tedeschi.
I blue jeans sono tutti Made in Italy: il denim è tessuto da un’azienda di tradizione che sta vicino a Milano; un’altra azienda, stavolta a conduzione familiare, li cuce nelle Marche; poi i jeans sono «washed», con tecnologie innovative ed ecologiche, in Veneto.
«Molti dettagli e il look used sono fatti a mano».
(Belli, i tempi in cui si faceva il bagno a mare con i jeans addosso per farli scolorire un po’ più rapidamente).
Vi farà piacere sapere che questo indumento, realizzato con tanta cura dalle nostre parti, dalle nostre parti non è in vendita.
Tanto per fare il punto della nostra situazione attuale.

I negozi sono in parecchie città tedesche, da qualche parte in Austria e in Olanda e a Palma di Maiorca.
Tutti comodi per me, che voglio provarli.

Ho riordinato il mio guardaroba, seguendo la regola aurea: eliminare tutto quello che non si è indossato negli ultimi due anni, con l’eccezione degli abiti da sera.
Ho dedotto che ho bisogno di blue jeans nuovi.
A vita alta.
Da qui la ricerca, che si è fermata su questo marchio che anni fa qui era disponibile. Ho ancora tre paia di loro pedal pusher, conciati in uno stato discutibile, l’ultimo, però, ancora lo porto, ripetendomi che devo far rammendare lo squarcio che c’è sulla gamba destra prima che si allarghi.

Passo due giorni a pensare che potrei prendere un aereo e andare  un paio di giorni a Francoforte, dove non sono mai stata.
Pure Marlene, alla domanda «Che cosa sei andata a fare a Berlino», risponde «A comprarmi un cappello».
Mi secca pagare un paio di pantaloni, sommando tutto, viaggio, un bell’albergo, buoni ristoranti, un po’ più di un migliaio di euro?
No, per niente.
Anzi, mi sembra un’idea avventurosa, di quell’avventuroso che piace a me.
Che sei andata a fare in Germania?
A rifornire il mio guardaroba, che ne aveva bisogno.

Ci penso e sto per farlo.
Ci penso e mi dico aspetta un attimo.
Ci penso e mi consiglio di comprarli sul sito. Tanto sono solo due i modelli che mi interessano.
Tu pensa, vai fino a Francoforte e al negozio non hanno la taglia.
Se vuoi spendere più o meno un migliaio di euro avventurosamente, ti do un migliaio di altri suggerimenti.

Quando si dice, ragionare fra sé e sé sulle cose prima di farle.

Passo un altro paio di giorni con il metro in mano a misurare l’interno della gamba. Sono modelli corti, quindi ci stanno bene gli stivaletti, oppure le calze scure e le scarpe con i lacci.
La spedizione costa pochissimo, ho appena pagato una cifra impensabile per una consegna e due prove di stampa da Napoli ad Avellino e a Roma.
In Italia c’è qualcosa che non mi convince.
Hai quindici giorni di tempo per decidere se ti piacciono.
Come se ci volessero quindici giorni e non quindici secondi per capire come te li senti addosso.

Clicco dove devo cliccare e mi metto nello stato d’animo di attesa che non vuole essere delusa.
In cinque giorni il pacco arriverà nel mio garage.

Ho telefonato e ho detto no, non mi serve la macchina, vorrei sapere, per favore, se è arrivato qualcosa per me.

È arrivato.

Il garagista, che, giustamente, si fa i fatti miei, mi dice ma tu non devi comprare le cose dai tedeschi, i tedeschi sono cattivi, guarda che cosa hanno fatto a questi e a quelli.
Rispondo con la mia solita litania, Bach, Haendel, Kant, Brahms, il mio prediletto, Beethoven, Friedrich, la mia lavatrice e pure la mia lavastoviglie.
In ordine sparso.

Ho studiato tedesco tre anni, pochini, per una lingua di quella complessità.
È una delle poche cose che ho iniziato in vita mia senza portarla a termine, ma avevo appena cominciato con l’Accademia, stavo pure fuori Roma, non ce l’ho fatta a studiare tutto quello che avrei dovuto studiare.
Anche se la verità è che la nuova avventura era talmente più eccitante di tutte le altre, che decisi, le altre, di lasciarle perdere.

Mi prendo il mio pacco, dilaziono pure l’apertura, vado a fare un giro nel quartiere.
Se mi stanno bene, ho risolto.
Mi compro tutti i modelli che mi piacciono.

E a Natale vado pure a Francoforte. È la città di nascita di Goethe, non posso non conoscerla.

Aperto il pacco postale, comunque elegante, dentro comincia tutta una serie di sorprese.
Una bellissima scatola di un bellissimo grigio, con il coperchio che si solleva come quello di uno scrigno.
Annidato in una carta velina accuratamente ripiegata, sta il mio nuovo acquisto. La velina è fermata da un adesivo bianco con una scritta bianca che saluta i nuovi preferiti.

I miei nuovi blue jeans

Sopra, c’è tutta una panoplia di pezzi di carta: la fattura; le istruzioni per la spedizione al mittente, nel caso ce ne fosse bisogno; l’etichetta da attaccare sul pacco, con tutti i dati utili; una cartolina, bianca con impressione in bianco, che dice, prima, THANK YOU, poi che loro sperano che questo indumento mi piaccia e che diventi il mio prediletto e che comunque loro sono a mia disposizione 24 ore su 24, sette giorni su sette.
C’è anche la loro rivista, una cosa superartistica, con una modella con la faccia dura che ti guarda fisso con addosso queste loro cose sempre fuori proporzione, maniche lunghissime, pantaloni sopra la caviglia.
C’è la sezione uomo e mi chiedo com’è questo ragazzo.
Pure lui sofferente e astratto.
Dall’autunno alcuni loro pezzi della collezione donna saranno disponibili in un noto concept store di Parigi.
Buono a sapersi.

Fosse solo per la confezione, la spesa valeva l’avventura.

Attacco la cartolina THANK YOU sul frigorifero.

Scarto i blue jeans. Al tatto, il tessuto è morbidissimo, l’elasticità raggiunge il 40%.
Ci sono parecchie etichette,  quella Made in Italy è orgogliosamente cucita accanto alla marca.
Quella con le istruzioni per il lavaggio, a cinque strati, reca sul primo la scritta MADE WITH LOVE.

Sarà solo marketing. Ma è perfetto.
E alla perfezione interpreta la nostra relazione con gli abiti che indossiamo.
Dunque e casomai, è pure altro.

Apro una bottiglia di spumante rosé.
Mi servo un calice.
Apro la porta con lo specchio del mio guardaroba, che è una stanza, piccola, ma tale.
Indosso i nuovi blue jeans.
Ci entro dentro benissimo.
Sono skinny, i miei prediletti.
Per metterli ci vuole il calzante. Per toglierli, il cavastivali.
E sono belli per questo.

Mi tornano alla mente, di botto, tutti i blue jeans che ho avuto in vita mia, dai primi ai più recenti.
Con gli indumenti, quando ti capitano queste cose, vuol dire che il nuovo arrivato funziona.

Penso che fa troppo caldo per metterli, penso che non vedo l’ora che torni settembre, penso che comunque me li porto in vacanza, penso che Stradivari dormiva con i violini che costruiva per appropriarsene e che con gli abiti bisognerebbe fare lo stesso.

Vedo che le rifiniture sono superbe, è probabile che riesca a rendermi conto di tutti i dettagli col tempo.

Li annuso e sento un odore buonissimo.

Vedo che lo spumante rosé, italiano, ha una magnifica capsula.
Penso che noi italiani siamo bravissimi, che facciamo le cose amorosamente e che non abbiamo niente da invidiare ai tedeschi.
Infatti loro, che pure hanno delle idee, vengono da noi a realizzarle.

Col caldo che fa, non ho avuto il coraggio di provare i miei blue jeans nuovi con gli stivaletti.
Ma me li immagino.
E comunque, le scoloriture, «washed», sono fatte benissimo, stanno talmente tanto dove dovrebbero stare, che nessun bagno a mare sarebbe capace di riprodurle.

E i blue jeans sono, come si dice oggi, a vita alta, perfettamente e finalmente.
Il punto vita è quello. Non sta più in alto né più in basso, nemmeno di un centimetro, di dove dovrebbe stare.

Quando si dice, mantenere le promesse.

Un post scriptum. Ho scelto come immagine iniziale quella di James Dean nel film Il gigante perché lui porta molto bene i blue jeans, così come Humphrey Bogart porta bene l’impermeabile e Sean Connery il kilt.
Non è una cosa da poco, c’è gente che porta male praticamente tutto quello che indossa.

Eugène Delacroix, La Libertà che guida il popolo, 1830, part.

Ma c’è, in questa foto, ben altro. Per esempio una citazione del dipinto di Delacroix La libertà che guida il popolo, per la precisione una dedica a due dei personaggi centrali: guardate bene, lei impugna nella mano sinistra un fucile. Se volete saperlo, è un modello 1816 a baionetta della fanteria e questo elemento rende lei, unica donna in mezzo a tutti gli uomini e figura mitica, moderna e verosimile.
Anche James Dean impugna un fucile, di cui non vi so dire il modello, sono un’esperta d’arte, non di armi.
Nel dipinto, a terra, con la testa coperta da un fazzoletto, c’è un uomo, un operaio venuto dalla campagna, che partecipa all’insurrezione popolare contro Carlo X, l’ultimo dei Borbone, che agitò gloriosamente Parigi il 27, il 28 e il 29 luglio del 1830.
(Notate pure come tornano i numeri, i medesimi citati delle taglie).
A Liz Taylor tocca questo ruolo campagnolo, che interpreta correttamente.
Ora, può essere un caso o posso essermi inventata tutto.
Però la citazione c’è ed è evidente.
E trovo molto interessante che il concetto di libertà nel film sia espresso da un uomo giovane, destinato a una morte precoce e alla leggenda.

E che lui indossi dei blue jeans, sottolineo, a vita alta.

2 Comments

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  1. Pensi troppo. E, giustamente.

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