Emile Auguste Pinchart, Lady con maschera, part.

Per vivere felici, viviamo nascosti

post ‹póust› s. ingl. (propr. «posta, corrispondenza»; pl. posts ‹ póusts›), usato in ital. al masch. – Nel linguaggio di Internet, messaggio (un articolo vero e proprio o un breve intervento), lasciato dai frequentatori di blog.

pòst- [dal lat. postpost– «dopo, dietro»]. – Prefisso di molte parole composte, derivate dal lat. o, più spesso, formate modernamente, nelle quali indica per lo più posteriorità nel tempo, col senso quindi di «poi, dopo, più tardi».

(Quelli che al sud chiamano) Servizi. Esco. Mi dimentico la mascherina e mi rifaccio tutte le scale a piedi.
Porto alla signora Anna l’altro lenzuolo da stirare, ieri era ancora umido. Le chiedo anche di svelarmi un arcano. Perché le lenzuola che le porto piegate per il lungo lei me le ridà piegate per il largo.
Da sotto la mascherina mi guarda stupefatta.
Le dico che piegare è un’arte e una cultura, che io ho una logica, piegato per il lungo, il lenzuolo posso collocarlo esattamente a metà del letto, basta seguire la piega. Piegato per il largo, tutte le mattine mi tocca prendere le misure, tanto a destra, tanto a sinistra.
Qual è la logica sua?

Non ci ha mai pensato.
Nel commercio, le lenzuola si presentano piegate per il largo. E questa già è una risposta ottima. Io, per esempio, piego tutti gli asciugamani come sono piegati quando li compro.
T-shirt, medesima cosa, calze eccetera.
Però questa faccenda del lenzuolo che perde i punti di repere, che ha anche il corpo umano, chiedetelo a un medico, non la capisco.
Lei mi dice di appuntare a metà una spilla.
E come no, metto la spilla invece di aiutarmi con le pieghe.
Mi promette che seguirà le mie indicazioni, si scusa, io dico ma figuriamoci, questo sarà un ulteriore capitolo della nostra amicizia.
Mi saluta sventolando il blocchetto delle ricevute.
Che donna simpatica.
Al supermercato il Direttore si è finalmente tagliato i capelli. Gli è rimasto un ciuffettino davanti, con una piccola onda, gli dico che gli sta benissimo, sembra un ragazzino.
Stiamo a chiacchierare dieci minuti pure se non c’è più fila e potrei entrare.
Mi dice che si è stufato, che non era esattamente sua ambizione fare l’usciere, in effetti da due mesi e mezzo sta sulla porta a controllare i clienti.
Mi chiedo quale potrebbe essere il mio equivalente. Per esempio fare l’animatrice di studenti mezzi morti, che devi interessare come il bambino che non mangia facendogli l’aeroplanino.
Se volevo fare l’animatrice, sceglievo la strada della televisione, parlo pure meglio di quelle signore che stanno lì a far risorgere i defunti.
Poi dice che bisogna essere versatili e capaci di fare tutto.
Franca, che va dal mio stesso parrucchiere ma che non è riuscita a ottenere un appuntamento, mi chiede famelica «Come sta Massimo».
Sta bene, si è pure dato una calmata ed è diventato più gentile, da un pezzo era reattivo e sommario, ogni tanto litigava con qualche cliente, bravo com’è, si può permettere di tutto.
Mentre rimetto a posto il carrello, lei esce con due ananas in mano.

Ananas

Considerando che è una bionda con i capelli liscissimi e sfilati con una frangia importante e una specie di coda di cavallo tenuta da una stringa proprio sulla sommità della testa, sembrano tre sorelle.
Lei e le due ananas.
Glielo dico, ci mettiamo a ridere, trovo interessanti i rapporti prismatici, ogni faccia aderisce alla faccia del prisma di un altro, con Franca parliamo solo di parrucchiere.
Stavolta abbiamo aggiunto le due ananas.
Praticamente abbiamo parlato di affari di famiglia.

Vacanze. Dopo due mesi e passa di vacanza, vogliono andare in vacanza.
Ma non ti sei stufato di stare in vacanza, ma che c’entra, quella mica era una vacanza.
E come no, mica era una vacanza.
Chissà che era.

Igiene d’ufficio. Vado dalla podologa. Dopo aver fatto un po’ di marciapiede, mi fanno entrare.
Mi fanno entrare e mi danno delle soprascarpe di plastica blu scivolosissime.
Dico che non capisco la logica, sono andata a farmi i piedi, le scarpe devo togliermele.
Chiedo se qualcuno si è già rotto una gamba con quella roba ai piedi.
Ma che dici.
La podologa è quella che ha un numero imprecisato di sorelle, tutte volgari come lei, parlano una specie di slang romanesco e ti chiamano amore e tesoro.
Tutte le sorelle, qualunque sia il loro numero, forse quattro, hanno un chihuahua.
Vanno in vacanza a coppia, guardando i cani restanti.
La podologa è quella che è stata in crociera in Grecia e che ha fatto un’escursione deludente sull’Acropoli di Atene.
Con quello che l’hanno pagata, le hanno portate a vedere un coso che era tutto rotto.
«Il Partenone?» avevo chiesto.
«Ecco, sì, quello».
La podologa mi dice subito che ha aumentato i prezzi, che lei si è stufata, che ha pagato una scatola di guanti euro undici e novanta.
È bardata come un chirurgo in camera operatoria, con addosso un camice che la deforma.
Il posto trabocca di fotografie, ex voto e quadretti con su scritto quando ti svegli la mattina mettiti a correre perché in Africa fanno così, corre il leone che vuole mangiarsi la gazzella e corre la gazzella che non vuole farsi mangiare dal leone.
Lei è stata anche in Africa e ha fatto quella cosa,  «un safari», ho buttato lì.
Lei ha risposto «Sì, quello».
Se mai avessi ancora voglia di viaggiare, la sola idea di incontrare in un luogo d’arte o in una giungla una come la podologa, la voglia me la farebbe passare.
Mentre sanifica, apre bustine sterilizzate, impreca, armeggia, arriva l’adorata chihuahua, con la quale lei divide il letto da quando si è accorta che gli uomini erano uno più deludente dell’altro.
E che si chiama come una cantante di Sanremo.
Butto lì che non capisco la logica, i pazienti con le soprascarpe che rischiano di rompersi scivolando l’osso del collo e la bestia che scorrazza, annusa, lecca.
Da sotto la visiera lei mi guarda e non capisce.
Come diceva quella, i figli so’ piezz’e core.
Mi dico è meglio che lasci perdere questo discorso.

«Ci lascieremo alla stagion fiorita!» (Puccini, Bohème). Fra coloro che avranno molto lavoro dopo il confinamento, pare che ci siano gli avvocati divorzisti.
Stamattina una collega in teleriunione diceva che lei abita da sola e che va a fare colazione al bar tutte le mattine per vedere un po’ di facce diverse. Però pure la medesima faccia tutti i giorni.
Non so, forse in luna di miele.
Per quanto mi riguarda, nemmeno allora.
Fu, infatti, un disastro: ebbi uno degli attacchi di mal di schiena più violenti della mia (prima) giovinezza. Secondo me, a ripensarci, mi ero stancata troppo, avevo lavorato fino a due giorni prima del matrimonio correndo di qua e di là, stavamo malmessi e prendevo su tutto, lezioni, visite guidate, cosette di segreteria, insomma, non mi sembra strano, a ripensarci, che ci sia stata quella specie di ribellione del corpo.
Solo che ci avevano regalato dei soldi, per cui, dopo una cerimonia che definire informale è renderle piena giustizia, partimmo per Parigi, meta che mi era sembrata perfetta, romantica e di tradizione.
Così, tanto per rimettere un po’ le cose a posto.
Mai la Ville Lumière mi era sembrata così enorme.

Place des Vosges, Paris

La mattina camminavo una ventina di minuti, poi cominciavo a stare male.
Ricordo che a Place des Vosges pensai che non ero in grado di arrivare dall’altra parte.
Lo comunicai.
Dissi che tornavo in albergo e che lui poteva pure andarsene a fare il turista da solo.
Piantati davanti a uno di quei loro palazzi altoborghesi e raffinatissimi, feci la proposta.
Prima mi sentii dire che non si poteva essere più cretini di me, ma ti pare tu, una volta che riusciamo a farci un viaggio, tu ti senti male.
Poi, siccome dopo due anni di convivenza ci siamo sposati, adesso dobbiamo per forza uscire insieme.
Così, tanto per dire come sono fatti gli uomini.
Anche se posso capire.
Naturalmente, dopo quei giorni di freddo (era un aprile gelido) e di confronto, tornando a Roma, stetti di botto benissimo.
Non so che cosa avrei fatto durante il confinamento, forse, come la mia collega, sarei scesa al bar a vedere facce diverse.
Anche se al bar vado di rado e tantomeno ci faccio colazione.
E poi, a pensarci bene, durante il confinamento pure i bar erano chiusi.
Quindi non ci sarebbe stata via di scampo.

Dammi una lametta (che mi taglio le vene). Sto facendo lezioni bellissime. Mi diverto a prepararle e a farle, questa è la regola aurea: la prima a divertirsi devo essere io.
Me le sto pure riascoltando registrate, controllo dove posso correggermi, poi mi dico ma che te ne importa, lasciati andare, quando fai lezione e ti abbandoni al flusso dei fatti, delle parole e dell’atmosfera, che te ne importa dell’inciampo e dell’errore, mica stai producendo una cosa industriale.

È proprio vero. Come dico sempre appena entro un po’ in confidenza, lo sai qual è il mio motto, per carità, solo professionle.
Quello medesimo delle lamette: tu provami.
E poi lasciami.
Se ci riesci.