Alfred Hitchcock, Rebecca, 1940

Pourquoi, mon Dieu! me suis-je mariée?
(Perché, mio Dio! mi sono sposata?)

Gustave Flaubert, Madame Bovary, 1856

Fino a un po’ di tempo fa i posti più disgraziati al cinema erano quelli sotto lo schermo.
Anche se avevo amici che ci si sedevano apposta, dato che andavano a vedere film psichedelici in uno stato di alterazione dovuto a sostanze illecite.
(Ogni tanto mi viene in mente che i divertimenti di una volta erano semplici e non privi di candore).
Adesso, con tutti i televisori immensi che tutti hanno, spesso uno per ogni ambiente della casa, praticamente si ripete quella situazione di disagio.
(E tutti a fare l’esperienza psichedelica).
Questo perché, come abbiamo detto, ci sarebbe una regola da seguire nelle dimensioni dello schermo, la cui diagonale, moltiplicata per un certo numero, dà la distanza cui dovrebbe stare lo spettatore.
Quel certo numero lo conosce molto bene il mio oculista, che si raccomanda. Viene invece diminuito fino a diventare un’inezia dai vari siti che ti dicono quale televisione comprare per la tua stanza.
E ti credo.
Perché, rispettando la regola, nessuno acquisterebbe più il televisore gigante, per ospitare il quale una casa dovrebbe avere le dimensioni di un castello. In quel caso, il televisore starebbe bene nel salone da ballo.
Io sono sicura che anche quest’altro segno della megalomania, letterale, del nostro tempo derivi dal contagio del porno, mai abbastanza indagato.

Perché dal porno sembrano uscire tanti umori attivi ai nostri giorni, dalla depilazione integrale a, appunto, la mania di grandezza: seni giganteschi, organi maschili che manco un cavallo, tutto concorre a forgiare il mito della grande nave, diffuso anch’esso dappertutto.
Ma, stavamo dicendo.
Tutti hanno in casa uno o più televisori fuori misura.
E quelli che ancora non ce l’hanno lo mettono in cima ai loro desideri.
Subito dopo ecco il cane di alto prezzo.
E al terzo posto, che certe volte si scambia con il cane, ecco apparire il condizionatore.

Sono andata in Cina anni fa.
In uno stato di dabbenaggine, di cui mi accorsi appena arrivai. Nel senso che mi ero studiata accuratamente il mio itinerario ma non avevo capito che cosa diceva un riquadro, peraltro evidenziato, de Le Guide Bleu: «Les Chinois crachent, et il est difficile de les empêcher».
Semplicemente, non sapevo che cosa significava quel verbo.
D’accordo, qui sputano i calciatori e sputano pure altri, però lì sputavano tutti, anche le donne e i bambini, gli uomini, non ne parliamo.
Feci un viaggio difficile e agitato, che decisi sarebbe stato il primo e l’ultimo da quelle parti.
Però intanto da quelle parti ci stavo, quindi dovevo in qualche modo fare tesoro di quell’esperienza.
Dopo l’usanza suddetta, l’altra cosa che notai subito fu che tutte le case, anche quelle più modeste, avevano un condizionatore.
Il paesaggio urbano era praticamente fatto di ventole, non si vedeva altro.
Se questo aspetto mi colpì, era perché evidentemente da noi ancora non stavamo a quel punto, che avevo visto solo nelle grandi città americane.
Ma bastava aspettare qualche anno: insieme all’augurio di buon week end e di buona serata, altra alterazione del gusto arrivata di recente, ecco che pure da noi tutti vogliono stare al fresco.

Da quanto detto, si sarà capito che io non ho il condizionatore. Che mi dà fastidio, mi fa stare male e che è sempre complicato da gestire.
E come faccio.
Sopporto il caldo, adottando casomai i sistemi superclassici, il primo dei quali consiste nel cambiare ala della casa quando il mio studio si infiamma, ovvero dalle 13:00 alle 17:30 di un paio di mesi l’anno.
Perché il mio studio è esposto a sud-ovest e ci risiamo con le corna del cervo, perché è esattamente questa sua posizione che per tutto il resto dell’anno fa sì che il pomeriggio esso sia inondato di una bellissima luce, alla quale lavoro così bene.
E nel mio studio c’è il computer grande, che per definizione non si sposta. E con il tablet e il telefono non lavoro, con il tablet e il telefono diciamo che faccio altro.

E allora ecco che si aprono orizzonti diversi.

Il film ha una trama del tutto improbabile.
Non solo, in esso non entri mai dentro.

Alfred Hitchcock, Rebecca, 1940

Ma non è una questione di trama, perché accade continuamente che anche la narrazione più assurda sembri normale se il film è di quelli che funzionano. E un film funziona quando ti scordi di dove stai seduto e stai lì, dentro lo schermo, con tutti i protagonisti.
Qui è difficile pensare di stare a Monte-Carlo o in Cornovaglia, credo che il motivo sia da cercare nel fatto che Rebecca è il primo film americano di Hitchcock e che dunque lui, londinese fino all’osso, si stava ambientando negli USA.
Comunque, di poco meno disgraziata della seconda signora de Winter, c’è solo Madame Bovary, anche lei una seconda moglie.
Il che significa che di moglie ce n’è stata un’altra.
Ora, già un uomo, anche molto giovane, porta sempre con sé un fantasma: quello della madre.
Figuriamoci che cosa succede con un uomo adulto, che i fantasmi ha avuto modo di accumularli.
In tanti hanno avuto una prima moglie.
In tante una prima moglie sono state.
La sciagura è, dunque, universale.
Emma sposa il dottor Charles Bovary, quello la cui conversazione era «plate comme un trottoir de rue», la definizione più bella che abbia incontrato di un uomo privo di interesse.
Se la sua conversazione è «piatta come un marciapiede», figuriamoci il resto.
Inoltre non sa né nuotare, né tirare di scherma, né sparare e una volta non sa spiegare a Emma un termine di equitazione che lei ha trovato in un romanzo.
Insipienza a parte, quest’uomo è anche indelicato.
Infatti, senza nemmeno rendersene conto, fa trovare nella camera coniugale alla seconda sposa sulla commode un bouquet di fiori d’arancio, legato con dei nastri di seta bianca.
Il bouquet della prima moglie.
Apriti cielo.
Invece no, il cielo non si apre manco per niente. Emma si limita a guardarlo. Lui ha un’illuminazione e finalmente capisce, prende quella specie di mummia e la porta nel granaio.
Laddove il bouquet lei avrebbe dovuto darglielo in testa e infilare, a proposito di equitazione, al galoppo la porta di casa.

Sì, però poi non ci sarebbe stato uno dei romanzi più belli di ogni tempo.

D’accordo, abbandoniamo allora al suo infelice destino la seconda madame Bovary.
E andiamo a vedere in che situazione si trova la seconda madame de Winter.
Che ha sposato, forse un po’ troppo precipitosamente, un facoltoso gentiluomo inglese conosciuto in Costa Azzurra, torturato, lo veniamo a sapere quasi subito, dal ricordo della prima moglie: Rebecca.
Che è morta, tale e quale alla prima madame Bovary, e che è dunque un fantasma autentico.
Nel corso del film Rebecca diventa pure uno scheletro più o meno nell’armadio, che non vediamo mai e che conosciamo dalle narrazioni di tutti coloro che hanno deciso di far sentire fuori posto la giovane e timida sostituta.
Che avrebbe tutti i motivi di diventare matta, circondata com’è dalle cifre dell’altra, dai suoi abiti, dalle sue abitudini, dal suo charme molto noir e pure trasgressivo, visto che lei intratteneva relazioni con uomini, tutti piuttosto interessanti, questo va detto, anche se, a guardarlo, sembra che pure al marito non manchi niente.
(È che le donne, e non solo nei film, non sono mai contente).

Sir Lawrence

Sir Lawrence Olivier è un attore che sto scoprendo adesso.
Un po’ statico, elegantissimo, praticamente si esprime attraverso una magnifica voce e una recitazione che nella voce sta tutta.
Non oso pensare al film doppiato, io l’ho visto nella versione originale e lui è irresistibile.
Indossa tutto benissimo, dallo smoking al suo magnifico cappotto, nel film interpreta un uomo maturo quando lui di anni ne ha solo trentatré, si muove con la disinvoltura del suo stato sociale, ha attacchi di ira che lasciano trapelare il suo tormento interiore: non sopportava più Rebecca e l’ha tolta di mezzo.
Ma impiegheremo un sacco di tempo a saperlo, il film è lungo e supera le due ore, è un racconto gotico e una mistery story, nella quale come detto non si entra dentro.
E allora, se il film ha una trama improbabile e se ti lascia seduto sulla tua poltrona, che cosa ha di bello.
Tutto il resto.
Gli abiti, le sigarette, le automobili, gli ambienti, i rituali dei pasti, le tavole apparecchiate sontuosamente, i bicchieri, che in Hitchcock sono sempre così importanti: devo farmi uno studio a essi dedicato.

Alfred Hitchcock, Rebecca, 1940

Questi sono capaci di organizzare un pranzo in macchina con un cesto da picnic dal quale tirano fuori una coscia di pollo e i calici di cristallo; hanno il cameriere incaricato di portare alla posta le lettere scritte dalla signora (che non ha nessuno cui scrivere, cosa che la fa sentire ancora più inadeguata); la cameriera personale per lei, che la veste e che le dice che è bellissima; sono sempre abbigliati di tutto punto, inoltre con magnifiche stoffe che si sentono fin dallo schermo, la ruvidezza del tweed del paltò e poi la morbidezza della lana dello smoking e lo scintillio del raso di seta dei revers.

Insomma, come sempre succede con un autore di razza, la mancata perfezione lascia spazio a molto altro, in questo caso all’atmosfera e alla forma.
E Hitchcock tenta la strada della visione delle cose dal punto di vista di quella che dovrebbe essere la protagonista, anche se non ci vuole molto a capire che in realtà quella che ha il ruolo di vedette è Rebecca, cui infatti è intitolato il film.

E allora, che ci facciamo con tutte queste prime mogli.
Niente.
Le lasciamo perdere.
I fantasmi, è meglio non evocarli.

Oppure un’altra soluzione è fornita proprio dal film stesso.
Ma prima: al secchio i ricordi; messo a pensione il cane, che qui ha pure lui una funzione di memoria;  licenziata e sostituita tutta la servitù, al primo posto il personaggio terribile di Mrs. Danvers, la governante vestita con un anacronistico abito nero lungo fino a terra.

Mrs. Danny

Zitella che detesta gli uomini, innamorata della prima padrona, alla quale avrebbe voluto assomigliare e della quale accarezza sensualmente gli indumenti, la pelliccia, il diafano négligé, nel quale infila la mano, meravigliandosi di vederla in trasparenza.

Ed è Mrs. Danvers a suggerirci che cosa fare con le prime mogli: diamo loro fuoco, ma sul serio, mica solo metaforicamente.
È lei ad appiccare l’incendio alla dimora di Manderley e comincia dall’ala ovest, quella abitata da Rebecca.

L’incendio di Manderley

Ma che cosa fare se le prime mogli siamo noi.
Semplice: vedere i film giusti, quelli che, se hai qualcosa in sospeso, ti dicono che tanto sei insostituibile e che saranno proprio la distanza e l’assenza a fare di te un personaggio da romanzo.
E che ti dettano i tempi in cui è meglio uscire di scena.
In eleganza e rapidità, perché il fuoco è fulmineo a bruciare.

E perché il mondo è pieno di uomini, anche se in tanti con quella zavorra inaudita e invisibile che è la prima moglie.

Però ci può essere sempre un bell’incendio, che tutto azzera e tutto cancella: ricordi e presenze.