REPLICA, 6. RAPSODIA DI AGOSTO

Raffaello, La muta, 1507

Rapsodia (dal gr. rapto «cucire») mettendo insieme parti già tessute
Francesca Rigotti, Il filo del pensiero, 2002

Ho trovato un ragno nella vasca da bagno.
Animale filosofico per antonomasia, tira fuori da sé il filo col quale tessere una tela.
E poi ragno porta guadagno.
La sera però era morto, e questa cosa non mi è piaciuta per niente.

Mi sono fatta una serie di gobbi, cartelli come quelli che sostituiscono il suggeritore, con frasi mirate o intercambiabili.
L’inizio è sempre il medesimo: «Buongiorno, come va?».
Poi viene il bello.
«Vorrei per favore prendere la macchina, grazie».
«Ho bisogno di una vasca per i miei pesci rossi. Misura: 40 x 25. Grazie».
«Vorrei g 200 di carne tritata, della qualità migliore, grazie».
Ho usato il computer, caratteri chiari, grandi, il mondo è pieno di gente che non vede al di là del suo naso. In tutti i sensi.
Funziona.
Sophie Calle, artista del comportamento, ne avrebbe tirato fuori un’installazione. Io spero solo di raggiungere il mio scopo, minimale: fare le mie commissioni senza parlare.
Sono tutti cortesi, si sentono coinvolti, nessuno mi ha guardato strano, tutti si sono dati da fare più del solito.

Qualcuno ha aggiunto anche gli auguri.
Quasi quasi resto muta. Come Cosimo, il barone rampante di Calvino, che a un certo punto è salito sull’albero perché aveva litigato con i genitori  e ha deciso che non era più il caso di scendere.

Se volete una festa animata, animatevela da soli.

Johannes Vermeer, La lettera d’amore, 1670

Ho scritto anche alcune letterine tipo Natale per i miei amichetti più giovani, supermercato e garage, una per augurare buone vacanze, una per dare il bentornato dalle vacanze.
In tutte c’erano i miei sentimenti di simpatia.
Le letterine mi sono sembrate molto gradite.
Le avrei gradite anch’io.
Bisognerebbe tornare a passarsi biglietti, roba scritta, messa in tasca, imbucata nella cassetta della posta, inviata tramite una servetta che partecipa alla tresca, che cos’è questa storia di mail e messaggi, aveva ragione quell’amico mio, fotografo, che diceva che un conto è una lettera che tocchi, un conto è una mail, almeno fate lo sforzo di chiamarla in modo diverso.

Stamattina sono andata al mercato a km 0 di piazza Ragusa, volevo camminare, dunque, niente macchina né bicicletta.
Ma dovevo superare il sottopasso di Pontelungo, che non mi piace per niente, quindi ho girato intorno, passando all’inizio dalla stazione Tuscolana. Che è una stazioncina, più o meno di quartiere, ma tanto era lo spaesamento, il mio, che mi è sembrata un aeroporto americano, di quelli dove raggiungi la tua uscita camminando a passo svelto per venticinque minuti.
C’era la tabaccheria aperta, un grande schermo con la pubblicità delle partite di calcio, c’era la pubblicità dei treni storici, un’autentica trappola, una volta ne presi uno sulle Dolomiti, tanto per far qualcosa in montagna, e quello non partiva e non arrivava mai, quattro ore, forse cinque, per fare venti chilometri e tutti lì a bere birra, l’ultimo pensiero di tutti era arrivare a destinazione.
Alla stazione Tuscolana c’erano gli scoppiati d’agosto, la grande città è sempre piena di scoppiati, in agosto sono più evidenti perché c’è meno gente, secondo me stavano intorno alla stazione, tale e quale a me, perché c’era la tabaccheria aperta e c’erano gli annunci dei treni, che mi sono sempre piaciuti tantissimo, per sognare un viaggio, sono il viatico ideale.
Per uno scoppiato d’agosto, un viatico in forma di annuncio di treno è l’ideale compagno di scoppio.

Nel giro di poco, in stanza, avevamo tirato fuori un codice di comunicazione. Il braccio verso la finestra, con l’indice bello teso, significava «questo è matto». Oppure «stiamo attente a non diventare matte noi»: dall’altra parte della strada, l’Istituto delle Malattie Nervose e Mentali, dopo la graziosa entrata con le colonne, tutto caldo con il suo color biscotto, era comunque una minaccia.
Il braccio sinistro alzato verso l’alto, quello con l’ago dell’anestesia e della flebo tenuto lì in emergenza, avvolto dal cerotto, che ti tolgono solo quando sei dimesso, significava «la doccia si può fare», pure se lo specializzando l’aveva proibito. Tu tieni il braccio alzato e ti lavi il resto.
Scoperta del corpo.
La donna operata per la ricostruzione del timpano, cui avevano rasato i capelli, aveva una grossa fasciatura all’altezza dell’orecchio. Si è accorta solo dopo che non poteva indossare gli occhiali.
Io l’ho consolata col fatto che poteva farsi ancora più punk, si faceva sistemare la rasatura e si teneva i capelli lunghi. Già aveva tre tatuaggi, di cui ci ha parlato a lungo.
Secondo me erano brutti, ma ogni discorso era buono.
Già il sabato era stato eterno, la domenica spaventava tutti, io ero pure uscita di nascosto per andare a cambiare dei soldi, la macchinetta nell’atrio accettava solo monete, niente banconote, niente carte di credito, furbi.
Mi ero messa d’accordo con le mie compagne di stanza: vi mando un messaggio quando sto qui sotto e voi mi aprite e mi fate rientrare.
Nel Policlinico deserto della prima domenica di agosto, chiusa l’edicola, chiuso il bar interno, mi ha subito intercettata uno dei vigili del fuoco e mi ha detto se poteva offrirmi qualcosa.
Gli ho spiegato lo scopo della mia missione: cambiare dieci euro.
Mi ha portata fino all’unico caffè aperto nei dintorni, ho comprato un pacchetto di cracker per 30 centesimi e ho spiegato che li avrei pagati a parte, ma che loro dovevano farmi la cortesia di darmi delle monete in cambio di una banconota.
Rientrando, mi ha visto l’infermiera. Che però stava fumando sul balcone, quindi eravamo pari.
Colpevoli, abbiamo entrambe fatto finta di niente.

Da un pezzo non facevo una scappata così avventurosa nel mondo esterno.

Il reparto Donne confinava con quello Uomini.
Per fare due passi, si percorreva il corridoio comune, al terzo giro capivi le bestie allo zoo, che misurano continuamente la loro gabbia.
Alcuni dei nostri compagni di degenza ci venivano a trovare, sarà perché da noi c’era l’aria condizionata.
Ma forse anche perché eravamo femmine e simpatiche.
Tutte patologie terribili, raccontate ampiamente, in ospedale funziona che più sei grave, più sei interessante.
Scollinate le cinque del pomeriggio della domenica, bisognava tirare le dieci di sera.
Il clima collegiale era perfetto per giocare a chi ha il chirurgo più bello, sfida che ho lanciato io, sapendo, data la prestanza del mio, che avrei vinto a mani basse.
E così è stato.
Nel giorno in cui abbiamo pure aspettato che passasse il prete per chiacchierare, e il prete non è passato, perché ormai i preti scarseggiano, qualunque cosa per passare il tempo andava bene.
Ci sarebbe voluta una di quelle serie dalle quali non ti stacchi, cinque episodi mandati giù uno dopo l’altro.
Invece c’era una sola televisione, pure piccoletta e pure monopolizzata dagli uomini, che guardavano le Olimpiadi.
E che quando ci vedevano passare, passeggiando, ci invitavano a sederci con loro. Che già in due stavano ammucchiati davanti a quello schermo lillipuziano.
E poi erano pure tutti pieni di fasce e di cerotti.
No, grazie, rispondevamo sorridenti, fate buona visione, poi ci dite i risultati.

Di più noioso della palestra e della montagna, c’è solo l’ospedale quando stai bene.
Quando stai male, l’ospedale è il posto giusto.

Vedo sui social tante di quelle fotografie di mare, monti, cene, cascate, bicchieri di aperitivo, calici di vino, piatti di linguine allo scoglio, bicchieri di crema pasticcera, ombrelloni, costumi da bagno, sabbia, scogli, melanzane, grigliate, abitucci, sandaletti, scarponcini, bambini che soffrono la fame, ombrelloni, navi, città, incendi in lungo e in largo, ginnaste senza seni né fianchi, tuffatrici che sembrano ranocchie, medaglie olimpioniche, che ormai, oltre che essermi saziata di tutto questo, ho anche perfezionato la mia teoria secondo la quale noi viviamo in un mondo pornografico.

The Deuce

Che sostituisce la vita, come fa la pornografia con il sesso, con immagini che le somigliano solo vagamente: costruite, indotte, eccessive, tutto sommato squallide.

Poi perché sto vedendo una serie, quella giusta che mi ci voleva in questo momento: per niente nelle mie corde, dépaysante, ovvero, a modo suo, esotica, fuori dall’ordinario, disorientante, inebriante.
The Deuce, che è il nome convenzionale di una certa zona della città, racconta la nascita dell’industria del porno nella New York degli anni ’70 e ’80.
Dove tutto è rotto, alcolico, pieno di fumo, a tinte forti, con denaro liquido che scorre a fiumi e donne malinconiche eppure vitali, uomini che le sfruttano, sentimenti che esplodono da tutte le parti.
Ciò che più mi colpisce in tanta narrazione di rapporti a pagamento, contrattazioni dal finestrino della macchina, cabine telefoniche utilizzate al volo per fellatio, marciapiedi battuti in lungo e in largo, tali e quali alla corsia di un ospedale, una protagonista, incarnata da Maggie Gyllenhaal, che ha anche prodotto la serie, il cui ruolo è così complesso da bastare per una serie cadetta, ciò che mi colpisce, dicevo, è il calore delle relazioni umane.

Maggie

È fiction, d’accordo, ma mi viene da pensare che di strada ne abbiamo fatta poca, da quella pornografia là, balbettante e, a modo suo, onesta, a quella nella quale stiamo tutti immersi, una specie di caverna di Platone, che sostituisce la realtà con le immagini, il passo, più che un passo, è stato una caduta nell’abisso.
La serie è stata suggerita da una scrittrice francese che l’ha citata in un’intervista. Non è la prima volta che mi dà ottimi consigli.
Quando si dice, chi trova un amico, trova la serie giusta nel momento in cui ti serve.

Se tu dai del permaloso a un permaloso, quello, giustamente, si offende.

La lingua batte dove il dente duole. Facile, dunque, che mi tornino di continuo in mente tutte le cose che ho letto e visto e saputo sulle corde vocali.
La più terribile di tutte.
Il cane Febo, che Curzio Malaparte aveva raccolto «morente di fame» sulla spiaggia di Marina Corta a Lipari, durante l’esilio.

Curzio e Febo

«Non ho mai voluto tanto bene a una donna, a un fratello, a un amico, quanto a Febo. Era un cane come me…Era un essere nobile, la più nobile creatura che io abbia mai incontrato nella vita. Era di quella famiglia di levrieri…».
Un giorno, i due erano a Pisa, il cane uscì, come faceva d’abitudine, e non tornò più.
Malaparte, appena si fa giorno, corre alla prigione municipale dei cani.
Poi, di canaio in canaio, fino a che un tosacani non gli consiglia di andare «alla Clinica Veterinaria dell’Università, alla quale i ladri di cani vendevano per pochi soldi gli animali destinati alle esperienze cliniche».

«Tornai a casa, mi sentivo nel cavo degli occhi un che di freddo, di duro, di liscio, mi pareva di aver gli occhi di vetro».
L’orrore: «strane culle in forma di violoncello: in ognuna di quelle culle era disteso sul dorso un cane dal ventre aperto, o dal cranio spaccato o dal petto spalancato».
Febo è fra loro.
«Io vidi Cristo in lui, vidi Cristo in lui crocifisso, vidi Cristo che mi guardava con gli occhi pieni di una dolcezza meravigliosa…».
Malaparte ottiene dal medico che venga praticata al cane un’iniezione che metta fine a quello strazio.
La cosa più strana è il silenzio nel quale la «grande stanza nitida è immersa».
«Perché questo silenzio?» gridai, «che è questo silenzio?».

«Il medico mi si avvicinò con una siringa in mano: “Prima di operarli” disse “gli tagliano le corde vocali”».
(Curzio Malaparte, La pelle, 1949)

Ogni volta che sentiamo una voce, in questo caso la voce dei nostri animali, fosse pure quella dei pesci, che sono muti ma che hanno una voce a modo loro, ricordiamoci di Febo e della sua nobile dolcezza.

1 Commento

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  1. Sto leggendo un libro di una cara amica, Carmela Covino, ‘La prima voce’.

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