TEMPERATURA

Non mi ero mai accorta di quanto la podologa fosse bassa.
Mi si para davanti con in mano una specie di pistola, le dico un momento, le chiedo che stai facendo, le dico facciamo che mi avverti se mi punti addosso questo aggeggio.
Capisco che è un termometro digitale in forma di spray per i vetri, le dico che se solo dal basso lei mi tocca la fronte, mi giro sui tacchi e me ne vado.
Lei si preoccupa, lei mi si avvicina solo quel tanto che basta, lei guarda il display.
Io le chiedo: «Quanto ho?».
Lei mi risponde: «34°».
La ringrazio per avermi dato la notizia: sono morta e non me ne sono accorta.
Le chiedo se si sente bene, le ricordo che lei è laureata, c’è scritto sulla gigantesca targa all’ingresso, e che quindi dovrebbe sapere qualcosa di fisiologia e che dovrebbe dedurre che se uno davanti a lei ha una temperatura di 34°, non è che gli fai un trattamento podologico.
Piuttosto, chiami le pompe funebri.
C’è giusto un’agenzia poco distante.
Tu li chiami e quelli si  prendono cura del cadavere.
Il mio.

Dopo la sanificazione e le sovrascarpe, chiedo alla podologa che ci fa il suo cane, la chihuahua che si chiama come una cantante di Sanremo, nel suo molto sterilizzato studio.
Mi guarda stupefatta, non capisce, mi guarda anche la bestia dal suo cesto trapuntato, tanto che me ne importa, ho 34° e sono morta.

Ormai ho capito che non uno di questi termometri digitali funziona.

Io ho da sempre una temperatura corporea alta, la sera sono stata a 37,2 per anni.
Per anni.
Per anni, fino a che non ho rotto l’ultimo termometro al mercurio e non ho acquistato in farmacia un termometro al gallio, che non si muove da dove sta nemmeno se lo metti sulla lampadina accanto al letto e nemmeno se lo infili nell’acqua della pasta quando bolle.
Lo so perché le ho provate tutte.
All’inizio ho pensato che bello, finalmente ho risolto il problema della febbricola, come mi dispiaceva, non poterlo più dire a mia madre, che per un sacco di tempo si era crucciata appresso a quel mio 37,2, fino a che un medico non aveva suggerito, a me, che ormai ero adulta, di buttare il termometro al secchio.

Di botto, ero guarita.

Anzi, ora sono talmente guarita che nessuno dei termometri digitali che mi sparano sulla fronte (guai a te se mi tocchi la frangia) segna più di una cifra ridicola: io non ho mai avuto 34, 35, 36,2, 36,5 in vita mia.
Come è possibile, che io sia diventata gelida tutto insieme.
Meraviglie del digitale.
Ad averlo saputo prima.

Fa caldo.

Roma, Parco degli Scipioni

Fa caldo come ogni tanto accade a Roma a settembre, fa caldo la notte, oggi faceva caldo in bicicletta e mi sono stancata da morire, però, che bella, la mia città, mi sono infilata nel Parco degli Scipioni, che avevo sempre trovato chiuso, a ridosso delle Mura Aureliane, con all’interno un sepolcro che ho solo visto da dietro un cancello chiuso.
Voglio tornarci.
In macchina o a piedi, casomai, oggi la bicicletta mi è davvero pesata, c’erano un sacco di salite e di scale.
E poi faceva caldo.

Io non sono di quelli che soffrono il caldo, almeno non in modo esasperato, ma io sto bene a 24°, quindi oggi pure per me era un po’ troppo.

Mi sono rimessa a leggere Pitigrilli, che scrive benissimo. Ricordavo di averlo letto da quasi ragazza, ho ripreso Cocaina e non ho trovato, da parte mia, nessuna data o appunto.
È possibile che io abbia cominciato a chiosare e annotare più tardi.
Il romanzo è bellissimo.
«Il mio cuore prende la corsa».
«Ti offro il vermouth per il color locale».
«Pierina (la cameriera, nota mia), non essendo mai stata a Parigi, si meravigliò di tutto quello che vedeva».
«Amanti.
Amanti. La più bella parola che esista al mondo.
Amanti.».

«…invece l’alcool me lo regolo da me».

«Aveva quarant’anni: l’età più spaventosa della vita.».
(Ma dai, nota mia).

«Quando si svegliò il decotto aveva perso ottanta gradi di calore; le gocce di fiori d’arancio s’erano volatilizzate e l’orologio aveva tutti gli organi irremovibilmente fermi.
(irremovibilmente fermi, lo trovo bellissimo, nota mia).
Campanello.
Cameriere.
“Che ora è?”
“Le quattro del mattino, signore”
“Di che giorno?”».

Pitigrilli, Cocaina.
Data di pubblicazione: 1921.

Pitigrilli

Chiarisco che io non sono una tossica e che carburo a camomilla, nemmeno assumo tè dopo le ore 14:00, così, tanto, dicevo, per chiarire.

Però amo lui che racconta, smarritamente e dopo un’orgia: «la progressiva rivelazione, fino a metà della coscia; le calze erano tenute da una catenella di platino e perle…Lievemente, religiosamente, come se sbucciasse una mandorla, come se scoprisse una reliquia, ripiegò su se stessa la calza, la sfilzò fino a metà polpaccio, e contemplò l’incavatura soave del poplite – nella donna sono assai più eccitanti le incavature che le convessità! – limitata da due tendini esili come cantini.
Era una magnifica coppa».

E in quella coppa magnifica il protagonista del romanzo, che si chiama Tito, versa un calice di champagne che «ancora intatto stava umilmente in piedi, lì vicino».

«Il poplite era vasto come una bocca aperta».

E Tito che fa.
E voi che avreste fatto.
Tito beve.

Se non avete mai bevuto champagne dal poplite di una donna e siete ancora caldi, dunque, vivi, contrariamente a me che ho 34° di temperatura, l’ha detto la podologa, semplicemente: siete ancora in tempo.

Io, evidentemente, no.

Oddio, sono una decadente.
Perché, non ve ne eravate accorti?
Fatti vostri, lo avrebbe visto un cieco e sentito un sordo.

Comunque, a parte queste considerazioni contingenti, mi ricordo benissimo, anche se ancora non ho trovato il punto preciso, come vi ho detto, sto rileggendo il romanzo, che Pitigrilli in Cocaina individua l’esatta temperatura della femmina e del maschio.
Calda e umida, lei.
Freddo e asciutto, lui.

Adesso ditemi voi se mai comparve sulla faccia della terra una definizione più sottile e intelligente e capace di dirimere le eterne differenze e divergenze fra uomo e donna di questa che stasera vi propongo.

È sempre e solo questione di temperatura.
E di stato, d’accordo.
Comunque, è tutto qui.

2 Comments

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  1. Avevo scritto ciò che non ha accettato peccato… i numeri giocano con me

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