«Fin ch’han del vino»: storie enologiche fra arte, vita e territorio*

 «Vini del Capo dopo la minestra, vino bianco secco con il pesce, tranne che il pesce non sia cotto nel vino rosso, ché allora un Ravello rosa è l’ideale per fargli compagnia, Borgogna, Lambrusco o Corato per l’arrosto, Falerno o Alicante con il dessert, champagne, dopo. In Francia uno sbaglio nella scelta dei vini suscita sdegno; mal elevé è l’aggettivo più benigno con cui si definisce l’inesperto»

Voi fateci caso: se pure le persone che siedono al vostro tavolo al ristorante o quelle che vi hanno invitato a cena e fatti accomodare in sala da pranzo rientrano nella categoria, aliena e vagamente triste, degli astemi, in giro c’è un sacco di gente che beve.

Bevono, è noto e per esempio, gli eroi di Hemingway: quando vanno a pesca due bottiglie di vino (in due), che mettono al fresco sotto una sorgente d’acqua che sgorga da un tubo sperando che nessuno le trovi mentre loro sono occupati con le trote; Sherry e Jerez al café un po’ prima di mezzogiorno di domenica 6 luglio, quando esplode la fiesta di San Firmino con tutti i suoi tori, che va avanti sette giorni, anche di notte; assenzio, senza zucchero, ancora al café  l’ultimo giorno prima della partenza; una bottiglia di Château Margaux, il protagonista, da solo e «per compagnia», subito dopo il ritorno in Francia; tre bottiglie di Rioja alta da Botin, uno dei migliori ristoranti al mondo, a Madrid dopo un imprecisato numero di Martini mandati giù al bar del Palace Hotel con «the flamboyant» Lady Brett Ashley (tutto ciò in Il sole sorge ancora, 1926, ma con Hemingway si beve dappertutto).
Bevono, più che in un racconto di Bukowski, nella Saint-Germain-des-Prés di prima e dopo la guerra tutti coloro che compaiono nella vita e nei romanzi di Sartre e de Beauvoir. In particolare, lei, quando si sistema a Parigi nel 1929, quindi appena ventunenne, si ubriaca di letture, strade, paesaggi metropolitani, nuove amicizie, ma anche di uno (o due) cocktail a Montparnasse e, quando possibile, di vino in tavole ben imbandite in occasioni speciali o di Vouvray sec in qualche buon ristorante della Loira andando a trovare Sartre che fa il servizio militare occupandosi di meteorologia alla villa Paulownia. (Tralasciamo, per il momento, l’uso di amfetamine, continuo e costante da parte di entrambi, finalizzato a una maggiore produzione intellettuale).
Qui c’è da chiarire che tutti coloro che abbiamo citato hanno problemi di denaro e che, ciò nonostante, frequentano bevande qualitativamente di tutto rispetto.
Come indicazione esistenziale, la troviamo degna di interesse.
A tratti meno indigenti e talvolta decisamente ricchi, carburano a whisky con insistenza i personaggi della Parigi degli anni ’50 e ’60 di Françoise Sagan: fra libri, conversazioni, passeggiate a piedi, una quantità preoccupante di bicchieri con dentro «cette ravissante chose jaune» scandisce le ore delle incontri e delle relazioni, al bar, nella «boîte à disques», nelle case private, sempre con affaccio su panorami urbani consegnati al nostro immaginario tali e quali a quelli degli Impressionisti.
Ne La Dolce vita (Federico Fellini, 1960) Marcello offre al padre, venuto a trovarlo, un Gin fizz a via Veneto. In Closer (Mike Nichols, 2004), Anna (Julia Roberts) beve d’abitudine Vodka tonic.
Sappiamo tutti che il grande 007 reclama Martini «agitati e non mescolati».
In Les Enfants du Paradis (Marcel Carné, 1945; sceneggiatura di Jacques Prevert) c’è una multa da 1 a 6 franchi per chi, fra gli attori, arriva a teatro in stato di ebbrezza (probabilmente in molti, nel film bevono tutti e dappertutto, anche nella piccionaia, le paradis, del titolo).
Il Falstaff di Giuseppe Verdi viene subito presentato nell’opera omonima (1893) alla prese con uno Sherry. E lo Sherry è un vino magnifico, che diventa ancora più suggestivo se pensate che la sua casa è a Jerez e che è invecchiato in botti che non sono mai vuotate del tutto e che vengono riempite con il vino della botte precedente. Questo fa sì che le botti dell’ultima fila in teoria possano contenere una goccia, o anche poche molecole, va bene lo stesso, di vino vecchio di qualche centinaia di anni.
Se poi pensiamo alla relazione che ha avuto Francisco Zurbarán (1598-1664) con Jerez attraverso i dipinti per la Certosa, allora, in qualche sera sensibile, possiamo anche esaltarci come se noi e lui, il grande mistico della Controriforma, stessimo bevendo dal medesimo bicchiere.
Inoltre, in ordine sparso e per capi parecchio sommi, accanto al notissimo brindisi del primo atto de La Traviata (Giuseppe Verdi, 1853), smemorante invito a godere di una giovinezza che di lì a poco si rivelerà caduca
(«…Libiamo, amor fra i calici / Più caldi baci avrà»), ricordiamo anche che Rodolfo ne La Bohème (Giacomo Puccini, 1896) offre a Mimì, che ha appena bussato alla sua porta perché le si è spento il lume e sviene fra le sue braccia per la fatica delle scale, «…un po’ di vino…» che la riscalda; che Scarpia nel secondo atto di Tosca (Giacomo Puccini, 1900) propone alla protagonista del titolo «…vin di Spagna, un sorso…» per rincuorarla; che intonano proprio all’inizio dell’opera un «Vivat Bacchus, semper vivat» che è tutto un programma un paio dei personaggi del romanticissimo Werther di Jules Massenet (1892); e che, soprattutto, il Don Giovanni di Mozart/Da Ponte (1787), che, nel finale del II atto, nel corso della sua ultima, estrema cena con cacciagione e Marzemino, rivolge un brindisi anche alle donne («Vivan le femmine, Viva il buon vino, / Sostegno e gloria / D’umanità!»), è interprete nel primo atto della cosiddetta «Aria dello champagne», «…davvero l’equivalente sonoro del gioco delle bollicine in un calice», un inno alla «joie de vivre» che auspichiamo sia la colonna sonora di questa vostra lettura e da cui abbiamo preso l’attacco del titolo: «Fin ch’han del vino / Calda la testa, / Una gran festa / Fa’ preparar. / Se trovi in piazza / Qualche ragazza, / Teco ancora quella / Cerca menar».

«Mentre c’è una certa confusione contemporanea su chi ordina il cibo, è ancora abitudine accettata che l’ospite scelga il vino. La sola eccezione è  quando una donna offre un pranzo, allora lei può chiedere al principale ospite maschio di scegliere il vino al suo posto».

Ma procediamo con ordine.
Se riusciamo.
Perché il vino, di esso ci occupiamo stavolta, è una faccenda complessa, antica, carica di simboli, che si va a mescolare con l’esistenza quotidiana, i giorni di festa, la storia, la letteratura, l’arte, il viaggio, la mitologia, si compra in enoteca e al supermercato, uno allunga la mano e lo trova disponibile, la bottiglia sta sulla tavola dei giocatori di carte di Cézanne in un caffè modesto nel tempo libero lontano dal lavoro e su quella aristocratica e alto borghese a partire dal Settecento, quando gli Inglesi, grazie all’invenzione dei forni a carbone, cominciano a produrre in dimensione commerciale il recipiente oggi più correntemente utilizzato per racchiuderlo, conservarlo, trasportarlo e servirlo. Per non parlare delle coppe, dei bicchieri, anfore, borracce, bricchi, boccali, caraffe, orci e ogni altro oggetto analogo che vi viene in mente destinato a rendere possibile l’atto della degustazione del vino nel nostro vivere.
Ma è, questo, un universo che sembra impenetrabile ai non professionisti.
Non ci siamo.
Non possono volerci «1.000 pagine per sapere che il Pinot nero preferiva le terre calcaree e i climi freschi». Dove finisce, in mezzo a tanta erudizione, il piacere? E, senza il piacere, che cosa rimane del vino?
Vi invito, dunque, a entrare nel mondo di cui ci stiamo occupando attraverso una porta un po’ nascosta, senza pedanteria, come per indiscrezione, abbandonando l’esperto e la sua pesantezza al loro destino.
Un buon mezzo può essere il primo mangavino della storia dell’umanità, uscito in tre volumi a Tokyo nel 2005 e arrivato dalle nostre parti nel 2008 con una traduzione, guarda un po’, francese.
In esso lo sceneggiatore Tadashi Agi e il disegnatore Shu Okimoto raccontano la storia di un ragazzo, figlio di un famoso enologo ma poco interessato al vino, che, alla morte del padre, non può godersi da solo la sua eredità perché viene a sapere di avere un fratello adottivo. Peggio, il testamento lo obbliga a scoprire dodici grands crus, il migliore dei quali dà il titolo all’avventura: Les Gouttes de Dieu.
Eccoci così lanciati in una vicenda di gusto nuovo, che si snoda fra vitigni, bottiglie millesimate che costano un mese del salario di ragazzi di pochi soldi e molto talento, sapori, décantage, locali, bicchieri di cristallo Riedl così delicati che sembrano scolpiti nel ghiaccio, amori, abbandoni, partenze, ritorni. E nel mentre, viviamo anche noi ogni emozione e degustiamo, almeno con gli occhi, uno Château d’Yquem 1990 o uno Château Mouton Rothschild 1982, il tutto con un’infinità di indicazioni, suggerimenti, spiegazioni, asterischi, note e perfino un, traduciamo così, ABC enologico finale, insomma, un capolavoro di didattica che ci fa sentire meno a disagio di fronte alla carta dei vini del ristorante.
Vogliamo provare anche noi?

«Non sentitevi obbligati a ordinare vini costosi visto che le varietà della casa sono di solito perfettamente godibili»

Originario del Caucaso, dove un gruppo di archeologi ha trovato la più antica cantina del mondo, risalente a 6.000 anni fa, il vino fu dunque prodotto per la prima volta dagli antichi abitanti dell’attuale Georgia. Poi, per la storia moderna, quella che più ci riguarda, cominciano le differenze, per cui la Francia ha una tradizione di consumo di 200 anni e l’Italia solo di 30, con una diffusione che parte dalla Campania, probabilmente da Ischia, e un primato di cui, però, si appropriano Toscana e Piemonte, regioni che sono considerate non del tutto a ragione la culla dell’enologia di casa nostra.
Sintetizza Ranuccio Bianchi Bandinelli: «DIONISO. Dio greco d’origine tracia, figlio di Zeus e Semele, dio della natura e del vino, identificato a Roma con Bacco». Il suo culto ha carattere orgiastico e nel suo seguito si mescolano Satiri, Menadi, Ninfe, leoni e pantere.
Ed è una divinità d’oltretomba, ce lo suggerisce la dottrina orfica.
Tutto comincia con l’ospitalità che Icario, eroe ateniese, offre al dio e con gli insegnamenti sulla coltura del vino e il dono di un otre pieno con cui egli ricambia. I pastori cui era stata distribuita la bevanda si ubriacano, credono di essere stati avvelenati, uccidono Icario a colpi di bastone e ne abbandonano il corpo ai piedi di un albero, dove lo ritrova il fedele cane Màira, che accompagna la figlia Erigone. La giovane donna, disperata, si impicca a un ramo.
Dioniso da una parte si vendica, contagiando terribilmente le ragazze ateniesi che si impiccano tutte a loro volta. Dall’altra, risarcisce il suo sfortunato divulgatore trasformandolo in costellazione. Anche Erigone riceve il medesimo trattamento, e perfino il fedelissimo Màira, che ritroviamo nella stella Procione della costellazione australe del Cane Minore.
Un’autentica tempesta in un bicchiere, che la dice lunga sul carattere fumantino del dio. Ciò che, comunque, ci sta a cuore sottolineare è che la storia del vino, come accade spesso anche altrove, comincia con un sacrificio.
Del resto Dioniso stesso è nato tragicamente: figlio, lo sappiamo, di Semele e di Zeus, orfano prima della nascita perché la madre è rimasta incenerita dal fulgore dell’amante che, su sua richiesta, si è manifestato a lei in tutto il suo tremendo splendore, viene cucito in una coscia del padre da Mercurio e affidato poi alle ninfe e allevato da satiri, menadi e da Sileno, divinità agricola in stato di perenne ebbrezza.
Figuriamoci che scuola.
E quanti seguaci.
Infatti bevono vino tutti.
Bevono i Greci, tra il simposio, momento fondamentale per la poesia lirica e l’epigramma, e il teatro, che nasce, appunto, intorno ai riti dionisiaci, e bevono in tono drammatico e giocoso, per riposarsi dalla fatiche quotidiane e per accedere a una dimensione religiosa dell’esistenza, fra toni foschi e divertenti aneddoti.
(E ricordiamo con Plinio il Vecchio che quando Zeusi il pittore si trova in competizione con Parrasio, dipinge acini d’uva, quelli che poi avrebbero ingannato gli uccelli. Mica altra frutta).
Bevono i Romani, in modo meno orgiastico dei Greci, con differenze fra la tavola del ricco (Petronio racconta che Trimalcione serve nel suo banchetto un Falerno vecchio di 100 anni) e quella del povero (il Trebulanum, per esempio, che veniva e viene da Pontelatone in provincia di Caserta, era allora, e solo allora, destinato alle classi meno abbienti).
E a noi basta ricordare che Orazio nella sua ode più famosa, quella che ha il suo nucleo nel Carpe diem, non facile da tradurre («goditi»; «afferra»; «cogli»; «vivi questo giorno»), invita la giovane Leuconoe a circoscrivere al presente le speranze affogandole in una serie di divieti (non si può conoscere il futuro; non si deve tentare l’oroscopo; sono gli dei che hanno stabilito la sorte, la vita e la morte di ciascuno di noi) ma anche nel vino («vina liques»), che lei «filtra», probabilmente attraverso il saccus, un vaso bucherellato di bronzo che si metteva nella neve, un’ostentazione di ricchezza, laddove di solito la bevanda era consumata calda.
La vita circoscritta nel presente o, anche, nello spatio brevi del banchetto.
(Qui non stiamo nemmeno a ricordare la frequenza con cui compare il vino nelle nature morte di Ercolano e di Pompei, quelle che gli antichi chiamavano xénia, che in greco vuol dire «doni ospitali»: frutta, uova, verdura, pesci, formaggi ma anche anfore e vasi colmi di vino, indispensabile alla luxuria in una cena. Marziale, volendo, elenca nomi e provenienze).

«è  cattiva educazione  riempire il proprio bicchiere senza offrirsi di fare lo stesso prima con i propri vicini»

Bevono nella Bibbia. Nella Genesi non si specifica, ma è probabile che, nella nostra ottica, anche l’Onnipotente, che si riposa il settimo giorno, in quella medesima circostanza si sia pure fatto una bevuta con relativo brindisi. Da festeggiare ce n’era, aveva messo ordine e creato tutto il creabile.
Anche questa, per noi, è un’indicazione di metodo. In altre parole, se vi servono un pretesto e un esempio per un bicchiere di quello buono dopo che avete portato a compimento una cosa qualunque, ve ne abbiamo forniti di ottimi.
Nella Genesi, però, sappiamo che beve Noè (9, 20-27): coltiva la terra, pianta una vigna e un giorno beve parecchio, al punto che, stordito, si distende nudo nella sua tenda e viene visto dal figlio Cam, che lo schernisce, e per questo sarà maledetto, laddove i suoi fratelli daranno prova di maggiore tatto, coprendo con un mantello il genitore. Forse la più bella interpretazione dell’Ebrezza di Noè è quella a firma di Giovanni Bellini conservata a Besançon e datata al 1514-1516, definita da Roberto Longhi «la prima opera della pittura moderna», con i protagonisti in ampia scala, il ghigno di Cam e la ciotola vuota in primo piano, una grande prova di una grande vecchiaia di un artista immenso.
E il Cantico dei Cantici di Salomone, qui nella traduzione di Guido Ceronetti, esordisce così:
«Dammi da bere i baci della tua bocca / Le tue carezze entusiasmano più del vino / è bello i tuoi profumi respirare / Il tuo nome è un unguento penetrato / Dalle giovani donne sei amato».
(Probabilmente l’interpretazione più erotica di una bevanda con la quale, eroticamente, è bene fare i conti).

«Alcuni ospiti possono non desiderare di bere vino e preferiscono semplicemente sorseggiare un bicchiere di champagne»

Ma colui che lega anche simbolicamente la sua vita al vino, dando a esso il risalto e il valore che ci interessano, è il  protagonista del Nuovo Testamento.
Cristo entra e esce nella e dalla vita pubblica attraverso il vino: il suo primo miracolo pubblico è quello che va sotto il nome di Nozze di Cana (Giovanni, 2, 1-12), durante le quali egli trasforma il contenuto di sei giare di pietra, garantendo agli invitati, quando sono terminate le scorte, un altro po’ di festa; il suo addio al mondo avviene in compagnia dei suoi discepoli nell’Ultima Cena (Matteo, 26, 17-29; Luca, 22, 7-23; Giovanni, 13, 21-30), consumata prima del suo arresto in un’atmosfera già venata di ogni possibile rimpianto che si rinnova nel corso del secoli attraverso l’interpretazione di tanti artisti. Nel corso del pasto si benedicono e distribuiscono il pane e il vino con le parole che segnano per la Chiesa cristiana l’origine del rito eucaristico, fondante nella sua liturgia: «Prendete e mangiate; questo è il mio corpo…Bevetene tutti, perché questo è il mio sangue».
E Cristo, fra i momenti opposti della sua esistenza, si rivela straordinariamente conviviale: cammina, parla, ha amici, aiuta, insegna, consola e, appena può, sta a tavola.
E a tavola si mangia e si beve.
Lui cena a casa di Simone il Fariseo (Luca, 7, 36-50) ed è lì che conosce Maddalena; va a casa di Marta e Maria (Luca, 10, 38-42) e Marta, che diventa così protettrice delle casalinghe (fa sempre comodo sapere a chi affidarsi), si occupa delle faccende e del servizio, mentre la sorella si siede ai suoi piedi e lo ascolta. Da queste narrazioni tanti artisti trarranno deliziose scene domestiche, con il vino sempre presente.
E dopo la morte e prima della resurrezione troviamo ancora una volta Cristo a tavola, stavolta nella Cena in Emmaus (Luca, 24, 28-32), una specie di prosecuzione delle chiacchiere fatte in cammino («Rimani con noi, perché si fa sera e il giorno già sta per finire»), nel corso della quale viene riconosciuto, e Caravaggio nelle sue due versioni, Londra, 1601, e Milano, circa quattro anni dopo, ce lo spiega benissimo, proprio attraverso il gesto dello spezzare il pane. Anche in questa circostanza non manca il vino.
E ci sono le metafore e le parabole, «Io sono la vite, voi i tralci» (Giovanni, 15, 1-8); «Il regno dei cieli, infatti, è simile ad un padrone di casa, che, di buon mattino, uscì a prendere a giornata dei lavoratori per la sua vigna» (Matteo, 20, 1-16); «C’era un uomo padrone di casa, il quale piantò una vigna…» (Matteo, 21, 33-41), insomma, un immaginario, che è una nuova religione, che si esprime con le parole del vino e della sua pianta.

«Non riempite mai il bicchiere più di due terzi. Tenetelo per il gambo quando bevete e non trangugiatelo come se foste stati nel deserto per parecchie ore»  

Soprattutto i pittori hanno affondato i pennelli in questa densa materia.
Il più grande di tutti quando è alle prese con Bacco? Credo Velázquez, che, ne Los Borrachos, (Gli ubriaconi, 1629, Madrid, Prado), segna un punto di svolta della sua carriera collocando tutti i suoi personaggi all’aria aperta e, in quello che chiamiamo qui il suo umanesimo, cambia di segno alla divinità e la mette a contatto con uomini eroici nella loro stanchezza, nei tratti appesantiti dall’alcol e alleggeriti dalla giovialità del momento. Bacco, un ragazzo bello e incanaglito, incorona di pampini uno di loro stando seduto su una botte.
Ma una storia dell’arte vista dalla parte del vino è ancora tutta da scrivere.
Una parola: dopo aver letto, chiudete gli occhi e lasciate che vengano a voi immagini che avete nella memoria e che hanno a che fare con il nostro argomento.

«…una vera signora deve conoscere qualità e opportunità dei vini»

Le parole, come sempre, dicono tutto: «antica sferica perfezione». Il motto delle Aziende Agricole Vestini Campagnano e Poderi Foglia, che riassumiamo qui nella persona di Amedeo Barletta, giovane avvocato, produttore e imprenditore, introducono una brochure in cui tutto è limpido e rivelato, tecnico là dove deve essere, poetico in ogni definizione e racconto.
Giorno di metà luglio.
Il collega e amico Luca Sorbo, titolare del progetto Emigrare in Campania, un manifesto esistenziale che invita a vivere la propria regione come un emigrato che deve guadagnarsi tutto, dallo spazio, agli amici, al lavoro, alla minestra, dalla stazione di Cassino mi accompagna ai Poderi Foglia, a ridosso del vulcano spento di Roccamonfina, nella zona felice, totalmente esposta a sud, fra la piana del Garigliano e l’isola di Ponza.
Lì Amedeo Barletta, figlio di Alberto e di Grazia Foglia che, con i soci, la famiglia Quaranta, hanno ripreso la coltivazione di uve con un legame antico con il territorio (fra tutti, i vitigni autoctoni casertani Pallagrello e Casavecchia, una faccenda da Indiana Jones dei vini perduti), nel silenzio del sabato, ci mostra le terre, la cantina, i dispositivi, le macchine scintillanti.
Ci fa assaggiare, ci spiega le bottiglie e le etichette, la ridefizione dell’azienda negli anni ’90, lo straordinario momento del vino in quel periodo, l’eccellenza italiana degli ultimi due decenni, la gestione di una cantina privata, anche piccola, la cura dei bicchieri, le consuetudini della primissima giovinezza di tutti i membri della famiglia, che vivevano la vendemmia e l’imbottigliamento come un rito e un appuntamento, la bellezza e l’orgoglio di un’impresa che produce circa 110.000 bottiglie l’anno, tutte curatissime e legate in gran parte alla storia di un territorio da cui già nell’Ottocento si traeva un «rosso di conca» cui viene affiancato oggi un «bianco di rango».
Eleganza dell’ospite. Sua generosità. (Ripartiamo con il portabagagli affollato di etichette).
Del resto Amedeo Barletta non è nuovo a questo stato dello spirito.
Più di una volta è venuto da noi in Accademia con le sue bottiglie e i bicchieri a presentare il vino ai nostri studenti.
Incontri seminali, da cui ne sarebbero nati, nella vicenda privata di ciascuno, altri. Amicizia del vino, calore dei rapporti, apertura di molte finestre su panorami coloratissimi, laccio che in quel momento, si è visto benissimo, si è stretto intorno al territorio, possibilità di vivere diversamente dal consueto le serate fra ragazzi.

«Il cameriere presenterà la bottiglia per far vedere che si tratta di quello che avete ordinato. Poi ne verserà una piccola quantità nel bicchiere dell’ospite perché lo provi…una volta che il vino sarà approvato, riempirà il bicchiere di ciascuno, cominciando con le donne e finendo con l’ospite (ammesso che sia un uomo)»

«Chiamiamo vino bianco un vino che è giallo e vino rosso un vino che non ha quasi niente di rosso. Nello stesso modo qualifichiamo come nera un’uva che è violetta e come bianca un’uva che può essere sia verde che gialla. Ciò nella maggior parte delle lingue e dalla notte dei tempi».
Una volta di più Michel Pastoureau ci apre gli occhi. Vino e uva hanno ricevuto le loro etichette colorate nell’epoca molto antica in cui erano disponibili solo tre colori – il bianco, il rosso e il nero, quelli base nella civiltà occidentale – per organizzare questo e gli altri codici.
Certo, gli altri colori esistevano materialmente ma non avevano alcun peso nel sistema dei significati, quindi non avrebbe avuto senso utilizzarli per definire l’aspetto reale del vino e dell’uva. Che, entrambi, si rivelano in questo modo «prodotti a forte dimensione simbolica e antropologica», inclusi in ogni sistema e rituale e dotati di un grande potere di evocazione poetica e mitologica.
Se poi aggiungiamo che nel linguaggio enologico francese non si parla di colore di un vino ma della sua «robe», e ricordiamo che il termine significa «abito, vestito», eccoci di fronte ai sottili e molteplici legami che mettono in relazione un mondo con un altro: qui la cantina e il guardaroba si osservano reciprocamente.
Inoltre. Se l’italiano (che pure sostiene che l’invidia è verde, proprio come l’assenzio, e che se ne possano fare, e dire, di tutti i colori) non dà un colore all’ebbrezza, lo fanno il francese, che la considera grigia e, in caso di ubriachezza pesante, nera, e il tedesco, nel quale essere sbronzi si rende con essere blu (blau sein).
Negli USA la «Blue Hour» non è né un profumo (Heure Bleue, Guerlain) né tantomeno quell’incerto e magico momento in cui comincia il tramonto, ma l’ora di uscita dagli uffici dei cittadini maschi che non rientrano a casa ma fanno una sosta in un bar per affogare nell’alcol il malumore e cercare di diventare, in corso di sosta, piacevolmente grigi.
Antico legame fra l’ebbrezza e i colori freddi, per cui in latino lividus poteva significare anche l’uomo che si era preso una solenne sbronza e non solo un colpo in qualche parte del corpo.
E Pastoureau conclude trionfale la sua ricognizione ricordando che non solo l’ebbrezza è grigia ma che lo è anche il cervello e ciò in tutte le lingue. Ma il vocabolario scientifico distingue da parecchio la nota materia grigia, rappresentata da cellule nervose sulla superficie, e quella bianca, costituita da fibre nervose situate al centro.
In queste ultime, udite, udite, i vapori dell’alcol non penetrano.
Quindi, rassicurati, diamo retta all’amato Baudelaire, che, «per non sentire l’orribile peso del Tempo che vi spezza le spalle e vi piega a terra», ci invita a ubriacarci.
Non solo di vino, ben inteso, ma anche di poesia e di virtù.
Le quantità, i tempi, i rituali per la frequentazione dell’uno e delle altre sono a discrezione di ciascuno («à votre guise», «come vi pare»): l’importante è che, leggendo, si sia creata quella simpatia che fa pensare che la strada, anche quella della comprensione del vino, è lunga ma che non siamo soli nel cammino che, come ricorda un proverbio spagnolo al viandante, non c’è perché il cammino si fa camminando.

Detto altrimenti e per ciò che ci sta a cuore: è solo bevendolo che scopriremo e impareremo il vino.

*Questo piccolo saggio è uscito con un testo di poco differente sul numero zero della rivista ‘Zeusi’. Lo ripropongo per il mio blog Con tutti i sentimenti perché continua a sembrarmi interessante. Le citazioni in corsivo a inizio di ogni nuovo paragrafo sono tratte da Elena Canino, La vera signora,  1952