SAPER CUOCERE UN UOVO: PICCOLA STORIA DELL’ARTE VISTA DALLA PARTE DEL ROSSO E DEL BIANCO

(Questo piccolo saggio, in realtà un divertissement, è già apparso nella rivista ‘Zeusi’. Ho tolto le note e aggiunto un po’ di immagini in modo da renderlo più digeribile. Visto che parla di uova e che in tanti ne diffidano perché dicono che fanno male a questo e a quello, pure se non è vero, è meglio andarci cauti)

Piero della Francesca, Pala di Brera, 1472

  «Non sapete come quietare un bambino che piange perché vorrebbe qualche leccornia per colazione? Se avete un uovo fresco sbattetene bene il torlo in una tazza in forma di ciotola con due o tre cucchiaini di zucchero in polvere, poi mescolate soda la chiara ed unitela in modo che non ismonti. Mettete la tazza davanti al bambino con fettine di pane da intingere, colle quali si farà i baffi gialli e lo vedrete contentissimo» (Pellegrino Artusi, Ricetta 719. Un uovo per un bambino, La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene, 1910)

Appena uno viene a sapere che il rosso d’uovo (il tuorlo) comincia a coagulare a 68°C e il bianco (l’albume) a 65°C, ecco che di botto capisce perché la vita è davvero quel rompicapo che sembra, incomprensibile, con quasi niente e nessuno al posto e al momento giusto, sfalsature, inciampi, décalage perenne, occasioni e treni persi.
Insomma, hanno ragione quelli che sostengono che tutto è questione di tempistica, ce lo insegna pure l’uovo, che è, fino a prova contraria, l’inizio di tutto.

Ab ovo, appunto. Ovvero, a stare a sentire Orazio nella sua Ars Poetica (verso 147, siamo nel 13 a. C.), prendendo la narrazione alla larga, nel caso, dalle uova di Leda: da uno nacque Elena, causa prima della guerra di Troia.
(Bene, anzi, meglio fa Omero che, al contrario, entra subito in medias res e subito ci fa sentire l’odore della battaglia).
A ciò aggiungiamo pure che i Romani cominciavano il pasto ab ovo pure loro, però stavolta per davvero, ossia mangiando un uovo, per concluderlo ad mala, con la frutta, in questo caso le mele.

A guardarla da questo punto di osservazione, la storia dell’arte sembra tutta fatta di uova, a cominciare dalla tecnica, visto che esiste da subito la tempera a uovo, con il colore diluito e agglutinato per mezzo di sostanze organiche: colla, tuorlo, lattice di fico. Ne parla diffusamente Cennino Cennini alla fine del secolo XIV nel suo Il libro dell’arte e riprende l’argomento, in Introduzione alle tre Arti (1568, I, pp. 130-131), Giorgio Vasari, che, anzi, considera la tempera per eccellenza quella realizzata con il tuorlo d’uovo.

Duccio, Maestà, 1311

E, tecnicamente, è una tempera su tavola la Maestà (1308-11) di Duccio di Buoninsegna, grande e complessa macchina narrativa commissionata per l’altare maggiore del Duomo di Siena, che doveva, a un tempo, onorare la Vergine e esprimere la ricchezza e la potenza della città, all’epoca, e a ragione, rivale di Firenze. A onorare l’opera magnifica non bastarono il solenne corteo di autorità e di popolo accompagnato da campane e trombe di cui raccontano le cronache, visto che vennero anche disposti tabernacoli, tende, angioletti scolpiti, cassettine per le elemosine e due uova di struzzo, deposte lì per fare ancora più bello l’altare.

Piero della Francesca, Pala di Brera, 1472

Bello è anche l’ambiente della Sacra Conversazione della Vergine tra Santi e Angeli, con Federico da Montefeltro in ginocchio, conosciuta, dalla sua attuale collocazione, come Pala di Brera, dipinta da Piero della Francesca per l’altare principale della chiesa di San Bernardino a Urbino probabilmente nel 1472. A suggerire la datazione di una delle pagine più raffinate e auliche del catalogo del maestro biturgense è proprio l’uovo che pende come una perla dalla valva della conchiglia che orna la nicchia, meravigliosamente rivestita di marmi e preziosamente rifinita da fregi, cornici e rosette, a conferma della pienezza espressiva che ha ormai raggiunto il nostro Rinascimento.
In linea con la testa della Vergine raccolta in preghiera, la cui sproporzione rispetto alle altre figure sarebbe chiara se solo lei si alzasse, esso potrebbe alludere alla fertilità, visto che proprio in quell’anno nasceva l’erede del ducato Guidobaldo da Montefeltro.
Ma facilmente si avverte anche che da quest’uovo singolare dipende tutta l’atmosfera, il senso di misteriosa sospensione del tempo in un mondo che Piero vuole sia al di là delle ansie umane, immobile, sereno, concepito secondo schemi matematici, narrato in una luce limpida, astratta e mentale.

Dylan Dog, La via degli enigmi, 2010

Volendo, poi, raccontare un omaggio, o un atto di incoscienza, che viene da tutt’altro ambiente, diciamo che Piero e i suoi personaggi, compreso l’uovo, sono finiti in una tavola di Dylan Dog nell’album La via degli enigmi (2010), un’agitata caccia al tesoro in cui l’eroe deve recuperare una lancia leggendaria che sembra l’unica arma in grado di uccidere il pericoloso demone tornato sulla terra dopo essere rimasto secoli prigioniero nel cuore di una montagna. Il tempo, ancora, esteso e che passa lento, anche per l’orrendo demone dalla testa di Ariete e il corpo da uomo, proprio come per i santi e gli angeli raccolti in meditazione intorno al Bambino addormentato in grembo alla madre, al cui collo il ciondolo di corallo, rosso come il sangue ma anche dotato di proprietà curative e apotropaiche, racconta già tutta la sua vicenda, dalla Passione alla Resurrezione.

Tintoretto, Adorazione dei pastori, 1579-1581

Uova in quantità sufficiente per un intero reparto di Neonatologia sono offerte nel corso dell’Adorazione dei pastori che Tintoretto dipinge fra il 1579 e il 1581 nella Sala Grande della Scuola di San Rocco a Venezia e sono ben arrangiate in un grande cesto che tiene il personaggio che sta con altri uomini, e con delle bestie, il bue, certamente, ma anche il pavone e il gallo, al, chiamiamolo così, piano terra di una struttura che vede gli angeli sistemati in soffitta e tutta la Sacra Famiglia in mansarda. La scena, agitata e trepida, piena di dettagli realistici, come il cucchiaio che tiene in mano la donna in alto a sinistra, e di sfilacciature di luce e paglia, sembra sintetizzare l’esuberanza del grande Jacopo Robusti proprio nell’abbondante contenuto del cesto, generosamente sufficiente per tutti i presenti, pennuti compresi, siano essi animali o celesti.

Diego Velázquez, Vecchia che frigge le uova, 1618

Ab ovo si manifesta il dirompente talento di Diego Velázquez: egli doveva infatti avere diciotto o diciannove anni quando realizzò la tela con la Vecchia che frigge le uova (1618), un bodegón, ossia una scena di cucina o di taverna, che qui diventa repertorio di gente e di oggetti tratti dalla vita quotidiana, la cui diversa sostanza, e la conseguente diversa reazione alla luce, sembrano affascinarlo, così come le superfici, opache o a specchio, e la forma degli oggetti. Ma più di tutto l’interesse dell’artista sembra concentrarsi sulle uova che friggono nel tegame di terracotta e la cui forma sposa quella del cucchiaio di legno, uova bianche, diciamolo, di quelle che a Siviglia si trovano facilmente anche sul buffet della colazione in albergo (questo accadde, in un viaggio che aveva come scopo la mostra del quarto centenario della nascita del Maestro. E quel pasto di inizio giornata fu un’iniziazione e un presagio).

Jean-Baptiste Greuze, Le uova rotte, 1756

Metafora di integrità morale per Jean-Baptiste Greuze e una delle sue ragazze, viste ora con una punta di galanteria, ora con aperta sensualità, diventano Le uova rotte, 1756;  l’opera, dipinta a Roma durante il viaggio in Italia di rito, mostra la servetta che siede sconsolata accanto alla bella natura morta formata dal cappello con i nastri azzurri e rosa e il canestro con le uova, alcune delle quali si sono frantumate cadendo, con grande gioia del bambinetto sulla destra, che approfitta della multiforme disgrazia per mangiarsi un tuorlo.
Artista pieno di talento, che ha sopportato stoicamente prima l’adulazione, poi il disprezzo dei suoi contemporanei, Greuze, che seppe passare dalla pittura di genere alla grande pittura di storia, visse in fierezza i tempi difficili della Rivoluzione, nel corso della quale pure ebbe alcune commissioni per ritratti di membri della Convention nationale, rimanendo attivo fino alla fine e fingendo di non vedere la proliferazione delle sue jeunes filles, di solito scarsamente autografe, che sono sempre citate, in una lettura superficiale del suo catalogo, come il suo soggetto più ricorrente e di cui la servetta che ha perso la verginità è una specie di sventata sorella maggiore.

Accade di trovare uova dipinte nel loro ambiente natio, ossia il nido e quando esse diventano, per precisione illusionistica e brillantezza cromatica, ‘paesaggi in miniatura’, come accade con William Henry Hunt (1790-1864), comprendiamo a fondo l’invito più volte reiterato nel corso della storia dell’arte a tornare alla natura.

William Henry Hunt, Primule e nido d’uccello, 1840

L’artista inglese, raffinatissimo acquarellista, amico intimo e maestro di Ruskin e proto-Preraffaellita, superò le infinite difficoltà a dipingere all’aperto  che gli venivano da una deformità fisica di cui soffriva fin dall’infanzia disponendo nel suo studio su alcuni banchetti coperti di edera e di muschio accurati allestimenti, fra i quali scegliamo quello che fa al caso nostro, Primule e nido d’uccello, realizzato negli anni ’40 dell’Ottocento e conservato, come auspicabile, a Londra alla Tate Britain.
Natura morta sistemata dalla mano dell’artista, ovvero natura ricreata in altro ambiente, per lo splendore del risultato, vera variazione sul tema di un canzoniere che sempre torna al medesimo, e amatissimo, soggetto, l’operina, che misura 184 x 273 mm e che è realizzata su carta, è capace di scombinare tutte le nostre convinzioni sul valore e sull’interesse di un dipinto, ricordandoci come nulla di ciò che riteniamo di aver acquisito debba necessariamente essere confermato a una verifica dei fatti.

Non sfuggono alla seduzione delle uova gli artisti della forma (Paul Cézanne, Natura morta con pane e uova 1865; Brancusi nelle varie versioni del Nouveau né e della Muse endormie; Paul Outerbridge, Eggs in Bowl, 1921), quelli che della forma approfittano per raccontare altro (René Magritte, La Clairvoyance, 1936; Affinités électives, 1933; Le Retour, 1940).

E e quelli che, evidentemente, le mangiano.

Elizabeth Vaughan Oxie Paxton, Breakfast Still Life, 1923

E guardate come Elizabeth Vaughan Oxie Paxton abbia ispirato Nan Goldin.

Nan Goldin, Breakfast in Bed, Torre di Bellosguardo, Florence, 1996

Forse perché entrambe, la pittrice e la fotografa, sono di Boston ed è probabile che l’altra abbia visto l’una.

Salvador Dalì, Eggs on the Plate without the Plate, 1932

C’è poi la categoria di coloro che delle uova vedono il lato osceno e, se non ci eravamo accorti prima che ci fosse, sono pronti a mostrarcelo. Prendiamo per esempio Salvador Dalì e il suo Eggs on the Plate without the Plate, 1932, a sentire l’artista una memoria della sua vita intrauterina. Di questa comoda cavità naturale egli riproduce i colori (rosso, arancio, giallo, azzurrognolo), non tralasciando di appendere una delle uova a un filo che rimanda al cordone ombelicale e di fare un omaggio all’amata Gala, il cui sguardo, a sentire Paul Éluard, che la conosceva bene, poteva trapassare i muri, traducendo gli occhi della donna nelle due uova che stanno nel piatto. Per non parlare degli echi spermatici che ha l’albume colante, riuscendo così a ricongiungere i due elementi, ovulo e spermatozoo, che, uniti, generano la vita.

Di un umore affine è Sarah Lucas quando realizza il suo Self Portrait with Fried Eggs, 1996, uno degli autoritratti fotografici nei quali l’artista indaga le tematiche del genere sessuale, della sua apparenza, della pornografia e del desiderio maschile.

Sarah Lucas, Self Portrait with Fried Eggs, 1996

Qui lei appare in una posa machista, con jeans laceri, scarpe pesanti ben ancorate al suolo, gambe aperte e sguardo di sfida. Sui seni, sopra la maglia, sono due uova fritte che stanno lì come un’installazione a ricordare come cibo e sesso rappresentino nella nostra modernità generi di consumo affini e probabilmente intercambiabili.

Martin Parr, Breakfast, 1999

La pensa così anche Martin Parr, il geniale fotografo inglese che si è assunto il compito di prendersi sulle spalle il peso degli orrori del mondo e che nel suo lavoro Common Sense, 1999,  ci mette davanti all’insensatezza di certe vacanze, di certi cani, di certo abbigliamento e anche all’iperbolica quantità di cibo che inonda una certa parte del globo. Come, per esempio, in Breakfast, uno scatto realizzato in Florida, USA nel 1998 in cui c’è un uovo che, a ben guardare, è una pesca sciroppata appoggiata su del cottage cheese che sembra albume, una visione ironica, quindi liberatoria, di come anche il più semplice e umile degli alimenti, il cui costo è di pochi centesimi, possa essere sottoposto a una manipolazione concettuale e culinaria (e non si sa quale delle due faccia più male al fegato e al cuore).

Piero Manzoni, Consumazione dell’arte, 1960

Ritorna al ruolo cristologico dell’artista Piero Manzoni, che il 21 giugno del 1960 nella performance Consumazione dell’arte dinamica del pubblico divorare l’arte imprime l’impronta del suo dito pollice su alcune uova sode, offrendole poi al pubblico e mangiandone lui stesso. Uovo-reliquia, uovo come il pane e il vino, uovo innalzato, e, a ben guardare, con pieno merito, alla dignità degli alimenti primordiali che la tradizione della religione cristiana riconosce come fondanti.

E ritorna alla tecnica cui abbiamo fatto cenno all’inizio del nostro discorrere Marcel Broodthaers con I Return to Matter, I Rediscover the Tradition of the Primitives, Painting with Egg, Painting with Egg (1966, Tate Gallery), una scatola di legno dall’aspetto giocoso che contiene gusci rotti di uova e allude alla possibilità di fare arte con la tempera a uovo ma anche utilizzando direttamente le uova come oggetti.

Marcel Broodthaers, I Return to Matter, 1966

Martin Kippenberger, L’Uomo-Uovo, 1997

Ma il cerchio certamente non si chiude qui, perché tanti altri artisti lavorano sulle uova, facendone in alcuni casi il filo conduttore di tutta la loro ricerca, come nel caso del prematuramente scomparso Martin Kippenberger, che interrompe la sua carriera proprio nel 1997 con una mostra (Der Eiermann und seine Ausleger, tradotto in inglese con The Eggman and His Outriggers), a Mönchengladbach, in Germania, utilizzando l’uovo in senso ludico e parodistico, con riferimenti alla nascita e alla riproduzione, ma anche trasformando se stesso in uomo-uovo nell’autoritratto fatto sulla carta da lettere di un albergo, supporto di comodo e di fortuna utilizzato anche altrove.
(Come Warhol aveva trovato la banana, lui aveva trovato l’uovo).

A ben guardare, tutti gli artisti che abbiamo enumerato rimangono costantemente in bilico fra l’apparente banalità dell’uovo e i suoi evidentemente molteplici significati simbolici.

Bianco, fragile, con un contenuto a metà insipido e a metà parecchio nutriente e saporito, con una forma che richiama quella dei testicoli, esso si ritrova nei miti della creazione di più di una civiltà, da quello orfico ai polinesiani, con presenze giapponesi, peruviane, indiane, cinesi e finniche; per non parlare di come non solo Elena dall’uovo sia uscita ma anche, come minimo, come da lì siano usciti i Dioscuri e pure un antico re della Corea; dell’iconografia alchemica, che lo identifica con la pietra filosofale, ovvero con la materia primordiale; e delle molte usanze di umore simbolico, prime fra tutte quelle legate alla Pasqua e alla primavera e di quelle popolari, in cui ha funzioni apotropaiche e riesce anche a proteggere dal fulmine.

In quest’ottica forse non è un caso che il monologo di Molly Bloom che conclude l’Ulysses di Joyce si apra con ‘a couple of eggs’ richieste per la mai prima registrata abitudine della colazione a letto; che Dorian Gray, al capitolo VIII, svegliatosi parecchio dopo mezzogiorno, faccia una ‘light French Breakfast’ nella library con una omelette; che Irene Brin in Olga a Belgrado (2012) si porti delle bustine di tè ‘con del pane e due uova’ quando va qualche settimana a Lubiana; che il tremendo e simpaticissimo padre di Lessico famigliare (Natalia Ginzburg, 1963) imponga a tutta la famiglia come unico pasto possibile in montagna uova sode con ‘fontina; marmellata; pere’; che la squisita Tawara Machi, che ha venduto 8 milioni di copie del suo L’Anniversaire de la salade, un esile libretto di tanka, che sono qualcosa di simile agli haiku ma che hanno regole diverse, si porti anche lei sulla spiaggia ‘sandwich alle uova sode’.


E, infine, non è un caso nemmeno che Rose Carrarini, che ha fondato un’impresa, Rose Bakery, che viene normalmente racchiusa nei termini ‘Anglo-French Bakery and restaurant’ ma che sembra essere qualcosa di più (se non altro, per essere registrata, in conduzione familiare, a Londra, Parigi, Tokyo, Seoul e New York), abbia scritto il manuale How to Boil an Egg (Phaidon Press, London, 2013), in cui le 84 ricette, capaci di trasformare ‘l’umile eroe della Natura’ in colazioni, pranzi o tè, sono illustrate dagli acquarelli di Fiona Strickland, un’artista botanica tale e quale a coloro che sono stati il vanto dei manuali del XVII e del XVIII secolo, solo più moderna e con i pennelli al servizio di Egg & Cress Salad, Egg Sandwich, Orange Crème Caramel e anche di una pirotecnica Pavlova, in un  trionfo di dettagli, sfumature, croste croccanti e morbide paste capace di insinuare il dubbio in chiunque non sappia cuocere nemmeno un uovo di essere non solo inadatto alla cucina, ma anche, detto sinteticamente e in una parola sola, all’esistenza tutta.

 

 

2 Comments

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  1. Lucia Fenicia

    1 aprile 2018 — 22:54

    Incredibile. Non so come mai certe tue scelte degli argomenti coincidono con alcuni capisaldi della mia vita. Nella mia famiglia si può dire che l’uovo e’ al centro della nostra dieta da anni. Ne mangiamo tutti 2 al giorno con gran gusto e quasi dipendenza. Certo non vuole essere un’asserzione di verità assoluta ma il nostro colesterolo e’ più che decente. L’impegno e’ nel cercare assiduamente fonti di uova biologiche vere facendo ricerche tra amici parenti e contadini disponibili. Io ho ereditato da mia madre questa mania e ricordo ancora quel povero papà costretto a portarci per pollai durante i viaggi in puglia. L’uovo “vero” era sacro e mia madre ne faceva incetta ovunque. Io ho ereditato la mania ed il gusto. Ne mangiamo continuamente e senza voler essere presuntuosi sia io (biologa degli alimenti ) che Attilio (medico) siamo convinti che in assenza di patologie correlate non sono dannose. Comunque ci piacciono e dopo anni di questa dita si può dire che siamo un campione sperimentato. Senza parlare dell’aspetto dell’uovo:perfetto nella forma e nel colore. Prendila come una esperienza soggettiva ma mi fa piacere condividere questa nostra “mania”. Un abbraccio.

    • Rosella Gallo

      2 aprile 2018 — 8:46

      Che atto di coraggio. Senza arrivare alle vostre raffinatezze, pollai in viaggio, uova biologiche e via elencando, aderisco a tutto. Fra l’altro, avere una riserva di uova in frigorifero ti risolve qualunque cena e fai anche una buona figura. Tutto questo in una cultura in cui ti guardano strano se solo dici che fai l’omelette baveuse e mettendoci dentro tre uova. Sono molto divertita dall’aver scoperto in te questo lato ulteriore di complicità e affinità, vedi tu a che servono il blog, ti sono grata di tutto, grazie anche del conforto professionale tuo e di Attilio, vi cito e metto tutti a tacere. E mi aspetto fin da ora un simpatico scambio di indirizzi e di ricette. Un abbraccio a te

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