CHIARO DI LUNA CHE TINGE LA MIA SOLITUDINE

Vilhelm Hammershøi, Interno con donna al pianoforte, 1901

Mi piace dare consigli.
Do consigli soprattutto ai miei studenti, su quali romanzi leggere, che film vedere e che musei visitare.
Mi aspetto anche dei ringraziamenti.
Quando i miei studenti mi dicono che non vanno a vedere una mostra o all’opera perché non sanno con chi andarci e che, casomai, hanno passato una settimana a Londra senza incontrare i marmi del Partenone o il San Gerolamo di Antonello perché erano con degli amici ai quali dell’arte non importa niente, racconto loro una mia storiella personale.
Dalla quale esce fuori che a me piace anche ricevere consigli e che una volta, in uno stato di disorientamento e confusione totali, ricevetti il consiglio, il migliore della mia vita.
A me, che sono una persona socievole e comunicativa e che avevo conoscenze e contatti che, come spesso accade, assomigliavano a una giostra, sulla quale si sale e dalla quale si scende secondo il capriccio e l’umore, qualcuno di lucido, un po’ freddo, a suo modo illuminato, disse: fai l’esperienza totale della solitudine.
Era anche morta la mia ultima gatta.
Volevo prenderne un’altra.
Ti suggerisco di aspettare, mi disse la persona lucida, fredda, a modo suo illuminata.

Fu così che ora ho i pesci rossi.

L’estate incombeva ed era chiaro che era saltata tutta l’organizzazione delle vacanze.
Strappai un biglietto aereo e con l’altro partii per New York.
Non mi ci volle molto a capire che la metropoli, anzi, quel tipo di metropoli, aveva una ricca tradizione di ospitalità e di conforto per gli «Urban Bohemian Travelers»: era accogliente, apprezzava l’anonimato, forniva tutti i servizi immaginabili, non dormiva mai.
Lo dicevano i romanzi, lo dicevano i film, da Rear Window a In the Cut, eroi ed eroine se la sbrogliavano per la maggior parte del tempo da soli.
Avrei fatto altri viaggi, sarei ritornata negli USA, poi sarei andata in Cina, il tutto senza lasciarci le penne.
A Pechino mi smarrii fra gli hutong, i vicoli della città vecchia, dove mi aveva portato con un’Ape scassata un cinese grasso che, saputo che ero italiana, aveva cantato ‘O sole mio per tutto il tragitto.
Poi mi aveva piantata là. Dove non c’era una sola indicazione, dove non c’era niente da vedere. Annottava e cominciai a preoccuparmi.
Sapevo che piazza Tien’anmen era a nord.
Tirai fuori la bussola che ho sempre in borsa.
Mi incamminai nella direzione indicata dall’ago.
Sbucai su una strada trafficata, piena di taxi.
Pure quella volta arrivai in albergo sana e salva.
E che diamine. Ci sono persone, anche donne, che si fanno la traversata oceanica in solitaria, cosa che io non farò mai perché non mi interessa.
Tutto il resto, quello che era nelle mie corde, mi sembrava accessibile.
Le provai tutte: passai da sola il mio compleanno; il Natale; la sera di San Silvestro.
Non stavo male, anzi.
Mi misi a leggere romanzi, cosa che comunque avevo sempre fatto.
Mi misi a vedere film, e pure questa non era una cosa nuova. Ma mandai giù cose precise: le più o meno 59 ore di Heimat in tedesco; tutto Bergman in svedese; la Nouvelle Vague in versione originale; tanto Ozu in giapponese; film cinesi, coreani, israeliani.
Mi feci una bella scorpacciata di film, senza discutere il genere, l’effetto e l’umore.
Una sera capii che potevo pure divertirmi da sola. Stavo a Strasburgo per lavoro, la città era un incanto, si mangiavano e bevevano cose profumatissime.
Tentai di riattaccare via messaggi con un uomo che non voleva più vedermi, lui faceva il sussiegoso, gli dissi almeno passa da me un momento quando torno, ti porto un regalo, qui hanno cibi fantastici.
Incuriosito, mi chiese: «Che mi porti?».
«Del Munster», risposi io, serafica.
Non lo sapeva, la creatura, che in Francia c’è il detto C’est le Camembert qui dit  au Munster:  tu pues , che corrisponde al nostro Il bue che dice cornuto all’asino, solo che i francesi, giustamente,  si esprimono a suon di formaggi e fra Camembert e Muster non si sa quale dei due abbia l’odore più fetido.
La sola idea di mettere del Munster in valigia, o insieme ai cosmetici nel mio bagaglio a mano, mi precipitò in uno stato di ilarità demenziale, chiusi lo scambio, risi tutta la sera da sola, capii che ce l’avevo fatta.

Mi innamorai, pure.
Mi innamorai come ci innamoriamo noi passionali, perdendo la testa, perdutamente, in modo totale.
Volevo far saltare il banco.
Volevo tutto.
Lui mi attaccò il vizio del Campari Soda.
Lui apprezzava le bottiglie che gli raccontavo nei dettagli.
Fu una relazione singolare, tutta fatta di parole, alcune scambiate al telefono, tantissime scritte.
Una valanga di messaggi e di mail, lui mi scriveva alle tre del mattino, io tutte le volte che ne avevo voglia: continuamente.
In un anno ci vedemmo solo due volte e solo in posti pubblici dove lui lavorava ma, nonostante questa miseria, la vicenda mi arricchì incommensurabilmente.
Fu questa storia che mi convinse a tornare nel mondo, un giorno capii che stavo perdendo la testa, ma sul serio.

Avevo tagliato tutti i ponti.
Ne gettai di nuovi.
Mi misi a farmi nuove conoscenze.
Sono una persona socievole e comunicativa, si vede subito.
Manco per niente.
Ero cambiata io, era cambiato il mondo.
Non sopportavo più i discorsi fatui; non mi passava affatto per la testa di andare a cena con gente con cui non avevo niente da spartire; le confidenze femminili mi ributtavano; le situazioni sentimentali mi sembravano tutte di una banalità insopportabile, almeno, mi dicevo, imparate a raccontarle.

Mi stabilizzai, però non mi fu possibile tornare indietro.
Mi è rimasto il gusto della solitudine, che non ho mai vissuto come una punizione, non sono esiliata, bandita, esclusa, vedo, in essa, la possibilità della creazione estetica, della scelta individuale.

Questo, dico ai miei studenti.
Imparate a stare da soli, è una disciplina, un esercizio, una tecnica, si tratta per lo più di organizzazione, nessuno vi impedisce di andare a Londra in solitaria e di vedervi, finalmente, i musei; se avete voglia di un ristorante un po’ di tono, ci andate presto e avete tutti i camerieri a disposizione; se siete con altra gente, prendetevi un paio di pomeriggi per vedervi le nostre cose d’arte.
Questo problema ve lo porterete, ce lo portiamo dietro tutti tutta la vita.
Non sta scritto da nessuna parte che una relazione amorosa o di amicizia ti impedisca di fare le cose che vuoi fare, si può trattare, scendere a patti.
Ci sono situazioni poco praticabili, sono d’accordo.
Se vuoi scalare l’Himalaya.
Se vuoi andare a cena in un ristorante stellato.

Ma non devi rinunciare a un’escursione in montagna.
Del mare abbiamo già detto.

Gustave Courbet, Les Bords de mer a Palavas, 1854

Guarda, però, il rapporto che ha con lui Courbet, uno dagli appetiti, in tutti i sensi, robusti, guarda come lo saluta, teatralmente.

E per le stelle, il discorso è ben più complesso, perché ci devi andare con la persona giusta, altrimenti la serata ti va di traverso.
Fatti l’amico di cinema.
Fatti quello con cui puoi bere.
Se fossimo piatti, aderiremmo in pieno l’uno all’altro.
Invece siamo prismatici e aderiamo solo in superfici piccole e limitate.
Siamo prismatici ed è per questo che emaniamo luce.

Il filosofo è un solitario.
Non parliamo nemmeno dello scrittore o del musicista.

Antonello, San Gerolamo nel suo studio, 1475

Gli eremiti un po’ esagerano, però il San Gerolamo che ti ho detto ha uno studiolo tutto suo, che è fantastico, ordinato, pulito, moderno, ti fa venire voglia di fartene uno uguale e poi ha con sé tutti gli animali che gli stanno simpatici.
Si può essere allo stesso tempo uomini di mondo e uomini solitari, tutto sta a dosare le occasioni.

Guarda i nostri artisti. L’atelier è uno spazio privato, sai le volte che sono stata invitata ad accomodarmi fuori da un collega che voleva dipingere e che non poteva farlo con gente fra i piedi.
E le volte che ho desiderato anch’io l’atmosfera protetta del mio studio, il dialogo con il mio computer, la cui preveggenza rispetto a quello che cerco è addirittura commovente.

E capisco la dama di compagnia.
E capisco pure Darwin, che in uno dei suoi viaggi si portò un «gentiluomo da conversazione».
Immagino che a nessuno dispiacerebbe averne uno sotto mano quando serve. Poi, però, va’ a vedere il tono e gli argomenti.
Pure per quanto riguarda la dama, che c’entra.

Hopper non ha fatto altro che raccontare la solitudine metropolitana.
Goethe è venuto a Roma in incognito, sotto falso nome e del viaggio non ha parlato con nessuno.
Friedrich, il re della pittura romantica tedesca, con il suo viandante elegantissimo e di spalle, ci dice che la vita e il viaggio sono rêverie, ovvero quell’abbandono fantastico che è ben difficile sperimentare in compagnia.

E, per sole donne (ma anche gli uomini che le donne le apprezzano sono i benvenuti), guardate che meraviglia. Elegantissima, malinconica, certo, ce lo dice, oltre all’espressione, la mano appoggiata al viso, che abbiamo imparato a riconoscere come il segno di questo complesso stato d’animo, la bella è ritratta mentre ha sospeso di scrivere una lettera.
Mi piace molto la sua borsa.

Léonard Foujita, Au Café, 1949

E mi piace l’atmosfera.
L’artista, di origine giapponese, ha soggiornato a lungo in Europa ma realizza questo dipinto a New York.
E ha nostalgia di Parigi, e si vede, perché ambienta la scena a Montparnasse, dove lui ha vissuto a contatto con Picasso, Soutine, Modigliani.
La prima volta che ho visto l’opera, essa era appesa a un muro di uno di quegli incredibili musei francesi che stanno in una città piccola, in questo caso, a Nord.
Ricordo che mi saltò agli occhi nonostante l’affollamento.
Che cosa c’è nel bicchiere?
A che cosa sta pensando, lei?
L’avevo messa in apertura del mio articolo.
Poi ci ho dormito su e l’ho tolta.
Volevo tenermela come la dolcezza del fondo, come la cosa ultima ma ugualmente importante.
Volevo che la bella sconosciuta fosse un po’ il senso di questa ulteriore estate che incombe.

E il senso è che tutto è possibile.
La bella sconosciuta si alza dal suo tavolo e va a vivere un’avventura.
Oppure, l’avventura la raggiunge, lei toglie la mano dal viso e sorride.
La sua solitudine ha tantissimi sapori: la redazione di una lettera; un punto della situazione; dei progetti; una bella ubriacatura imminente (nessun problema, per me, nell’ubriacarsi da soli); la città che la ospita.

L’estate si avvicina a grandi passi.
In questa circostanza, di sentimenti e di calendario, volevo e mi faceva piacere indicarvi qualche via di uscita.
State un po’ da soli.
Leggete romanzi.
Vedete film.

Scrivete.

E frequentate tutti i posti che avete voglia di frequentare: mare, montagna, soprattutto città, con i ristoranti e i caffè che in ogni città stanno. Copiosamente.

E se siete in solitaria, pensate a una traversata oceanica, agli odori che stanno nell’aria, alla necessità di occuparvi della vostra barchetta, al coraggio.
Ai cieli sterminati che si aprono sulla vostra testa.
A tutto ciò che di audace, di non banale, di letterario, di cinematografico e di artistico vi attende.
Tutto sta proprio lì, dietro l’angolo.

E, se vi capita di essere soli, sappiate che la solitudine è una disciplina, un esercizio, una tecnica, un’organizzazione.
Di tutto questo torniamo a parlare.

Intanto, buona estate 2019 a tutti.

2 Comments

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  1. Sabina Albano

    20 giugno 2019 — 23:06

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