Cose da pazze, 1: le scarpe

Jean-Auguste-Dominique Ingres, Baigneuse Valpinçon, 1808, part.

Voi prendete gli uomini.
Hanno fatto il mondo a loro immagine, inventandoselo per i loro comodi.
E hanno fatto benissimo. Io, al loro posto e se avessi potuto, avrei fatto di peggio, nel senso di cose ancora più esclusive e prepotenti, con porte chiuse dappertutto e parecchi piacevoli spazi riservatissimi.
Ora, guardate che scarpe indossano gli uomini.
Vi guido io. 
Voi prendete Jonny Johnasson, il creatore di Acne Studios, ovvero l’uomo che ha reinventato i blue jeans.
(Io già avevo tendenza a non indossare altro, ora che sono arrivata al mio terzo paio della marca svedese, il primo e il secondo portati alla distruzione per uso intenso, praticamente li indosso a settembre e li tolgo quando davvero fa troppo caldo. Ah, già, un’uscita ogni tanto in lavanderia dal signor Michele, che viene allertato, che mi prende pure in giro perché lui serve il signor Valentino e il signor Capucci e la moglie, la signora Grazia, ha pure lavato e stirato due camicie di Obama quando è venuto a Roma, ma che alla fine ci sta, mi giura che i miei blue jeans non vedranno l’acqua e che saranno pronti il giorno dopo, quando io, alle ore 15:00, già starò fuori del suo storico negozio, con i primi sintomi dell’astinenza e il vago senso di inquietudine che provo sempre quando gli Acne non ce li ho addosso).
Dicevamo, Jonny Johnasson. Alla domanda di un modaiolissimo blogger su quali siano i cinque capi di abbigliamento che ogni uomo dovrebbe possedere, risponde così:

A white T-shirt, a pair of worn black jeans, a white shirt and a pair of expensive black leather shoes  (preferably English ones). I also think you should own something very feminine, like a piece of jewellery or something from your mother’s wardrobe. That’s how I dress’.

Antoine Watteau, Gilles, 1719, part., le scarpe più belle della storia dell’arte

Lasciamo perdere il gioiello di mamma e occupiamoci di altro, per esempio di questo: ‘A pair of expensive black leather shoes (preferably English ones)’, faccio notare ‘expensive’. Lui credo che alluda, anzi, allude senza dubbio alcuno, a quelle meravigliose scarpe con i lacci che sono una delle cose che più invidio agli uomini, insieme alle tasche, ma di tasche parliamo un’altra volta.
Parla di 150 paia? Manco per niente. Un solo paio, l’unico, che, però, sia costoso.
E, intuisco, senza tacchi.

Gli uomini, infatti, indossano tacchi sono in due circostanze:
1. A Carnevale, quando si mascherano da donna. Una delle visioni più traumatizzanti della mia vita adulta fu una foto, che non riuscivo a non trovare ridicola ma che era anche qualcosa di peggio, di un gruppetto di chirurghi del Policlinico di Roma, che a me capitava di incontrare a cene Slow Food o a degustazioni di Biancolella d’Ischia o di Aceto balsamico, che, schierati, truccati, imparruccati e con la gonna, facevano come se ballassero il can can, mostrando al fotografo le scarpe con i tacchi alti. Sembrava pure che si divertissero molto.
2. Alle sfilate di moda, con stilisti dementi che mandano in passerella povere creature di sesso maschile, abbigliate in modo improbabile, a cominciare dal basso.

Voi prendete le donne.
Sempre a blaterare di liberazione e di violenza e poi pronte a ficcare i piedi in strumenti di tortura.
Una volta stavo con una specie di amica seduta dietro su una macchina. Lei era di quelle Sergio Rossi e aveva appena comprato delle scarpe di quelle, chiamiamole, classiche, ovvero che sembravano scarpe, anche se con l’aggiunta di tacchi alti cm 12.
Io, a un certo punto, le dico, fammene provare una, lei calzava il 38, io ho il 37, insomma, si poteva fare.
Infilo il piede nella scarpa e mi sento morire: non sapevo dove si stava appoggiando, inoltre era buio e la macchina stava camminando, insomma, la sensazione fisica non era per niente confortata da quella visiva.
Sfilo subito l’attrezzo e le dico grazie, no, il mio piede lì dentro sta così: e, metto la mano in verticale, a dita sotto.
Lei mi guarda con odio, l’odio l’ho visto benissimo pure se era buio, e mi risponde sputando rabbia: perché, il piede mio come pensi che sta?
Beh, allora sei scema totale, dimmi tu perché ti costringi a vivere in questo modo, a soffrire al punto da rovinarti le giornate, per non parlare delle ossa tutte, su su, fino ai denti, visto che stanno infilati nella mascella, che ha a che fare con la colonna dorsale e con la postura e chissà con che altro.

Lo faccio per essere bella.

E qui bisogna chiarire alcune cose. La mia specie di amica era (e credo che sia ancora) una donna alta a snella, quindi i tacchi li portava benissimo. Contrariamente alla gnappetta, che, con il suo metro e cinquanta, vorrebbe raggiungere e superare di botto altre vette.
Il paradosso è infatti che i tacchi alti stanno bene alle donne alte.
Oddio, stanno bene, dipende da come ci camminano, perché a vederle la mattina in metropolitana ti verrebbe voglia di consigliare loro di scendere a terra e di provare il piacere di correre.
E poi i tacchi alti, secondo me, la mattina sono fuori posto.
Come sono fuori posto ai piedi di un medico donna con il camice, della farmacista, pure della cassiera del supermercato, con la divisa spesso avvilente: forse, quando lavori, devi stare composta, poi, però, ci sono professioni nella quali tutto è possibile, tu fai la ballerina al Crazy Horse e allora ti metti pure le piume sul sedere lecitamente, insomma, nessuno ti viene a dire niente, anzi.

Voi prendete Garance Doré, una di queste blogger di Fashion e Lifestyle che io trovo siano davvero le eroine dei nostri tempi, ragazze che sono partite dal nulla, hanno lavorato come matte, qualcuna anche 20 ore al giorno, avete letto bene, 20 ore, prima nemmeno guardate da chi la moda la faceva, poi, piano piano e con mezzi che da artigianali diventano sempre più sofisticati, eccole famose, ricche e invitate in prima fila alla Fashion Week.
Lei è una simpatica e sul suo blog, diventato come lei americano e profumato di dollari, leggo circa un milione l’anno, a un certo punto dichiara che un giorno guarda le sue ‘twenty-five pairs of heels staring at me with their pointy tips’ e si rende conto che non le servono più.
Ha appena dichiarato che il suo grosso e stracolmo guardaroba è il suo terapista.
Dunque, deduco io che sta meglio con la testa e che, la faccio breve, lei ha capito che preferisce le scarpe ‘that make me happy every day – my sandals, flats, and shoes with small, easy heels – open, chic, friendly shoes’.

‘Open, chic, friendly shoes’, ditelo, quando lo vedete, a Sergio Rossi.

Lei fa poi quest’altra cosa deliziosa, gira un video che si intitola A Day in Heels, dandosi come missione di trascorrere un’intera giornata sui tacchi senza pausa ballerine.
Ascoltatemi bene. Siamo a Parigi durante una Fashion Week e le redattrici di moda corrono da un défilé all’altro su tacchi alti 10 centimenti.
Corrono. Si fa per dire.
Diciamo che da un posto all’altro traballano, e ciò nonostante la frequente presenza di uno chauffeur. Ammettendo di mettere cerotti e cuscinetti sotto le dita del piede; sottolineando che i tacchi alti rinforzano l’ego (ah, ecco); che nella moda bisogna essere molto sicuri (sicure) di sé; consigliando di non acquistare mai, ma proprio mai, le scarpe la mattina, bensì, al pomeriggio, quando il piede è bello gonfio.
Dopo le redattrici di moda arrivano le modelle. Una dice che le hanno dato scarpe numero 39 e che lei calza il 37, quindi ha dovuto mettere un nastro biadesivo per non perderle; un’altra dichiara che tutti abbiamo una tegola che ci casca sulla testa, per esempio un tacco che si stacca mentre sfili.
E questa medesima ragazza, ascoltatemi bene, alla domanda ‘Tu porti i tacchi nella vita quotidiana?’, risponde: ‘No, mai’.
Mica è matta, lei mette i tacchi quando lavora, come la ballerina del Crazy Horse si mette le penne, mica va così conciata al mercato a comprare la cicoria e le arance, con il sedere impiumato come la testa di un capo Sioux.
Poi arriva una Caroline, vera professionista, che indossa sempre i tacchi e che dichiara che bisogna fare esercizio, come per tutto il resto; sì, ha le vesciche e applica i cerotti specifici.
Contenta lei.
Arriva poi l’acme della vicenda, il creatore Christian Louboutin, quello delle suole rosse, ovvero uno dei principali responsabili del cattivo stato dei piedi delle donne.
Mica antipatico, a vederlo, uno se lo immagina a vendere salumi dietro un banco, cordiale e sorridente.
L’intervista si dipana a casa del Nostro, quindi vediamo un certo stile un po’ tribale e anche una certa, inquietante, quantità di soprammobili.
Sono seduti, Louboutin e Garance, a un tavolo di cristallo, con davanti due tazzine di caffè.
Sembra una conversazione innocente.
Sembra.
Peccato che prima ci sia stata un’inquadratura sulle scarpe di lui, mocassini con le frange e i chiodi (un tocco di eccentrico), in quanto mocassini, completamente piatti.
Ora, io vi invito a interrogarvi. Che cosa pensereste di uno chef che non mangia il cibo che lui stesso ha preparato? E di un odontoiatra con brutti denti? E non venitemi a citare la storiella del calzolaio che va in giro con le scarpe sfondate, perché qui la musica è diversa, qui abbiamo il calzolaio che fa solo tacchi e che senza tacchi va in giro.
E teorizza. Quando una donna indossa le sue scarpe, tutto il suo centro di gravità si sposta (lo sa. Se ne è accorto), il corpo è spinto in avanti, lei è costretta a flettersi, i suoi seni sporgono (come se di solito rientrassero) e le natiche pure, insomma, la silhouette cambia.
Poi, lo dice: è fatto per gli uomini.
Infatti, e qui sono io che chioso, agli uomini piacciono i tacchi alti.
Per esempio a me è successo di sentirmi chiedere da un collega come mai andavo in Accademia sempre a piatto. Non so chi mi abbia dato la pazienza di fargli notare che mi alzavo alle sei del mattino, mi facevo 426 chilometri in un giorno, salivo e scendevo dalle metropolitane, facevo una certa quantità di scale e poi facevo pure lezione in piedi perché solo così controllavo la situazione, forse, l’ho buttata lì, i tacchi in quel percorso di guerra erano fuori posto.
Però, l’ho consolato, li metto quando esco a cena, sempre che mi vengano a prendere in macchina.
E non gli ho detto, per non deluderlo, che non avevo nemmeno un paio di scarpe con tacchi che superassero i cinque centimetri.
Ma torniamo al calzolaio. Che, in un attacco di poeticità, dice che quando una donna indossa i suoi tacchi, un uomo ha il tempo per guardarla.
E ti credo, la poveretta non può muoversi, se solo ci prova, capisce che non è aria.
Lo dice lui stesso: una volta in boutique una cliente gli ha fatto notare che con le sue scarpe ai piedi non poteva correre. E lui, paterno, ma perché vuoi correre, dove devi andare. Insomma, a sentir lui, le sue scarpe fanno parte delle cose belle della vita perché rallentano il movimento: tale e quale ai treni regionali, agli ingorghi di traffico, all’autobus che non passa e a tutti gli altri disservizi.
Poi, serafico, aggiunge che bisogna essere se stessi e che le scarpe non sono tutto, sono solo un piccolo aiuto.
Il piatto può essere sexy? Garance ci prova, piena di intenzioni ottime. Lui, candido ma sempre salumiere dietro al banco, annota che il piatto dà un senso di libertà e di leggerezza.
Quest’uomo è un mostro. Se lui, più apertamente, producesse martelli destinati alle donne perché possano darseli sui denti, forse qualcuno lo fermerebbe.
Ma così, no.
Garance esce e la vediamo per strada, dice che sono le cinque del pomeriggio e che non ne può più, infatti cammina con molta difficoltà.
Mi ricorda qualcosa: ‘A ogni passo le sembrava…di camminare su punte taglienti e su coltelli affilati, ma sopportò tutto volentieri, e tenendo il principe per mano salì le scale leggera come una bolla d’aria…’. E questo è Andersen con la sua sirenetta, che, per ritrovare gli occhi neri del giovane uomo di cui si era innamorata, aveva ceduto la sua voce all’orrenda strega, privandosi così di uno dei motivi del suo fascino, e ottenendo in cambio la scomparsa della coda di pesce, data via per un paio di gambe.
Il video finisce con una festa dove tutte le donne si danno le martellate sui denti, scusate, dove tutte le donne indossano scarpe con tacchi da 12 centimetri.

Lo fanno per essere belle.

In un’intervista recente Catherine Deneuve, che è una che non la manda a dire, si interrogava su questa stranezza contemporanea. Lei, da ragazza, indossava scarpette Roger Vivier, con quello che si chiama un pezzo di tacco. Quelle calzature rendevano le donne eleganti e, in contemporanea, consentivano loro di farsi gli affari propri con disinvoltura. Immagino che fra questi affari ci fosse anche quello, fondante, dell’essere sexy.

A Venezia, durante il suo splendido Rinascimento, le donne portavano le ‘chopine’, sorta di zeppe in legno alte anche 50 centimenti, ricoperte di cuoio o di velluto e di gioielli. Ne ho visto un paio al Museo Correr e ho visto un’attrice che le indossava in un film in costume: lei aveva un cicisbeo di là e uno di qua che la sostenevano e che la facevano avanzare come sui trampoli.
Ecco, è questo che forse le donne ricercano in quest’immagine di sé dei nostri tempi, la riduzione allo stallo confortata da un paio di accompagnatori galanti.

Mi sono un po’ informata, diciamo, scientificamente, e fra parafilie, presunta forma fallica del piede, e di conseguenza, della scarpa che lo indossa, teorie sulla fissazione e sui feticci, atti di sottomissione (bacio della pantofola, lavanda dei piedi), mappe cerebrali e altre cosette, c’è solo da perdersi.
Comunque, il nodo, qui, non sono né i piedi né le scarpe, qui le cose da pazze sono i tacchi, ulteriore strazio imposto alle femmine dopo i busti, quelli in cui si strizzava Scarlet O’Hara con il robusto aiuto di Mammy e che hanno stretto in un mortale abbraccio le donne fino agli anni ’50.
Uno dei miei libretti prediletti, ben in vista sul comò della mia camera da letto, rosa come una caramella e con dentro disegnetti irresistibili, si intitola The Art of Being a Well Dressed Wife, è di Anne Fogarty ed è una lettura straordinariamente istruttiva: insegna come tenersi un marito vestendosi a seconda delle circostanze, un esercizio militare e se lo dice lei che ci ha pensato su, deve essere vero. Del resto questo suggerisce che è, il matrimonio, una battaglia vinta che però non deve far pensare di deporre le armi, anzi, ‘You have not yet begun to fight’.
Nel suo discorrere, suggerire, teorizzare, raccontare, sempre con un tono confidenziale e autorevole quanto basta, a un certo punto lei ci dice quanto misura la sua vita: 18 pollici. Fate con me la conversione: cm 45,72. E poi andate a prendere il metro a nastro da sarto nella vostra scatola da cucito, uno dei contenitori più importanti nella casa di una donna, e verificate quanto misura la vita vostra. Io l’ho fatto ed è stato, quello, uno dei rari momenti della mia esistenza in cui ho provato la sensazione che ci fosse qualcosa di troppo nella mia alimentazione.
Non c’è, anzi, però la differenza era tale da lasciarmi sconcertata rispetto ai metodi impiegati da queste signore per fare del proprio corpo quello scempio.
Il libretto è del 1959.
Risolta una tortura, le donne ne hanno inventata un’altra.

Almeno due fashion designer, almeno ascoltati con le mie orecchie, hanno dichiarato di non amare i tacchi alti: Yohji Yamamoto e Raf Simons. A quest’ultimo piacciono, inoltre, le tasche, di solito poco o niente contemplate nell’abbigliamento femminile (sia lode all’intelligenza di quest’uomo).

Il termine grisette nel XVII secolo designa una stoffa di colore grigio e, a partire dal 1665 e per metonimia (ovvero grazie a quel simpatico gioco espressivo per cui si indica, più o meno, una cosa per un’altra), anche la giovane donna di condizioni modeste che la indossa.
Mano a mano e in leggerezza, la grisette diventa fioraia, lingère, dunque qualcuno che si occupa della biancheria, ricamatrice, esercitando il suo talento nella sua stanza, come la Mimì de La Bohème, ‘en boutique, en magasin’ o nell’atelier. È graziosa, ha un sorriso provocante, ha una reputazione di ragazza facile, nel senso che riceve spesso denaro dagli uomini in cambio di qualche attenzione, ma rimane, nella sostanza, misteriosa. Qualcuno sostiene che più che della ‘grisette’, bisognerebbe parlare di una ‘costellazione grisette’, indicando così l’estrema varietà del personaggio. Fra gli anni 1815 e 1850 la grisette invade la sfera artistica: letteratura, belle arti, canzone, caricatura, giornali.
Rimane inafferrabile e multipla, però di lei sappiamo due cose sicure che riguardano gli accessori: indossa sempre una cuffia e indossa sempre uno scialle, che ogni tanto smette di nascondere le sue attraenti spalle per andare a proteggere i suoi amori dagli sguardi indiscreti, come quando lo appende alla finestra della stanza dello studente di turno.

Eugène Morisseau, La Grisette, 1832

È una creatura agile dall’immaginazione fertile, che ha sempre la preoccupazione di perdere il meno tempo possibile durante le sue peregrinazioni: ‘Lei non sembrava camminare, lei sfiorava il pavé; lei scivolava rapidamente sulla sua superficie’.
E allora, quali erano le sue calzature? Delle scarpette sottili, delle protezioni in cuoio o legno per ripararsi dall’umidità, dei coturni fantasia, degli stivaletti ‘de casimir noir’, laddove il ‘casimir’ è una deformazione della provincia del Cachemire.
La grisette porta i tacchi? No, mai.

Le scarpette della grisette, satin nero, 1835-1845

Lei, che è l’incarnazione di una femminilità gioiosa e piena di charme, amante delle gite in campagna, dei balli sfrenati, in particolare del can can e della polka, lei che molto piace agli uomini e che gli uomini molto apprezza e che è uscita trasfigurata dalla penna di Baudelaire, lei, così coquette, graziosa, voluttuosa, lei non ha bisogno di infilare i suoi delicati piedi in scarpe che le impedirebbero di avere la sua andatura caratteristica: ‘à la fois agile, agaçante et légèrement effarouchée’, ovvero ‘al medesimo tempo agile, provocante, leggermente spaventata’.
Ditelo, quando lo vedete, a Christian Louboutin.

Insomma e in conclusione, vogliamo provare a interrogarci su questa iperbole della femmina, sulla contaminazione fra la vita quotidiana e tutto quello che attiene allo spettacolo mondano e notturno, sul dubbio che ha la laureata in Medicina che sarebbe stato meglio dedicarsi al Burlesque, tutte attività e situazioni, per carità, degnissime, ma che in qualche modo sono, rispetto alla vita, in eccesso?
Che cosa è accaduto alle donne contemporanee perché, più delle veneziane del Rinascimento, abbiano abbracciato la causa del tratto che, enfatizzato, diventa caricatura e parodia di se stesso, il dodicesimo tatuaggio perché undici non bastano, il ventunesimo piercing a forare la faccia o la pancia perché a venti non è stato possibile fermarsi, l’espansione di cinque centimetri di diametro perché due centimetri non sono sufficienti?
Questo andare oltre il segno che cosa rappresenta?
Ed è poi vero che gli uomini gradiscono questa sottolineatura di un accessorio così importante come è la calzatura femminile?

Insomma, una donna deve per forza passare da quel genere di scarpe per essere bella?

 

 

2 Comments

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  1. E leggendoti rivedo tutte le scarpe piú importanti della mia vita. Ti racconteró…..

    • Allora funziona. Quando ho cominciato a occuparmi di moda, mi sono resa conto che poco alla volta mi tornavano in mente tutti i miei vestiti, io sono una che butta, quindi il mio guardaroba stava solo nella mia memoria. La prova che qualcosa stava succedendo era che si era rimessa in movimento. Grazie, come sempre e ancora una volta

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