DELL’OTTIMISMO E DI CHI CE L’HA

 

Ieri ho messo la sveglia alle 5:30.
L’ora era infame per due motivi sostanziali: perché era notte fonda e perché alla radio c’era solo una replica di una trasmissione di scienze e non c’era nemmeno un umano a dirti buongiorno.
Avevo un impegno di lavoro presto e i tempi della mia preparazione mattutina si attestano fra quelli di Napoleone quando stava a Sant’Elena, due ore e mezza e quelli di Victoria Beckham,  quattro ore.
Escludo che l’Imperatore tenuto al confino in mezzo al nulla si comportasse nel medesimo modo quando stava sul campo di battaglia e dormiva in un lettuccio di ferro, ma non ho notizie certe.
Di Victoria Beckham non so altro, comunque, la capisco.
Lei vuole uscire di casa in forma e io lo stesso.

La conseguenza della levataccia è stata che alle ore 11:00 avevamo finito e un mio squisito amico e collega, pure con una bella macchina nuova, mi depositava a piazzale Flaminio.
Praticamente mettevo piede a piazza del Popolo, la mia piazza prediletta, passando come sempre sotto la Porta, proprio come fece Goethe arrivando dalle mie parti, con quattro ore di anticipo rispetto alla mia lezione delle 15:00.

Quando si dice, il décalage e tutte le sue conseguenze.

Sono andata dritta dritta in Accademia.
Ho parlato con tutti quelli che conoscevo.
Ho parlato anche con quelli che non conoscevo.
Ho guardato per bene il presepio che avevano fatto i bidelli nell’atrio e ho fatto loro i complimenti.
Pure se avevano messo già il Bambino.
Ho detto loro che lo avrei rapito, come avevo visto fare in una serie e che avrei chiesto un riscatto.
Si sono messi a ridere però io dicevo sul serio.

Sono andata a comprarmi la mia rivista francese, che non era uscita.
Sono andata a farmi un panino a via della Croce, nell’ultimo negozio di alimentari che è sopravvissuto allo scempio di negozi del centro storico.

Sono tornata in Accademia e a quel punto non avevo scelta: sono entrata in Sala Professori.
La Sala Professori dell’Accademia è un posto triste: una stanza piccola, piena di armadietti con i nomi segnati col pennarello, c’è sempre qualcuno che occupa il tavolo centrale e ti credo, con la quantità di docenti che c’è in un posto così grande, come fai a trovarla vuota.
Passo sul fatto che io non ho il mio armadietto, nonostante l’anzianità di carriera, sono fra gli ultimi arrivati, quindi pago pegno.
Non è che mi dispiaccia più di tanto.
L’unico armadietto che ho avuto in un’Accademia è stato quello a Carrara, che ho pure lasciato chiuso e con dentro Anna Karenina perché ebbi un trasferimento improvviso e andai da un’altra parte, per la precisione a Bologna.
Ogni tanto mi chiedo se lo sportello è ancora chiuso con dentro il mio romanzo, che mi sono ricomprata, o se l’hanno scassinato e si sono trovati davanti al mio libro, con tutte le sue, molto intime, sottolineature.

In Sala Professori c’era un computer con un bell’elefante sul desktop. A me gli elefanti stanno molto simpatici, come pure le montagne, nel senso che sul desktop dei computer dell’Accademia trovi sempre e solo elefanti e montagne e a me sta pure bene, solo che non capisco perché qualcuno non personalizzi, e allora personalizzo io e con i miei studenti ci facciamo una quantità di risate, per cui una volta mettiamo sul desktop una bella foto di un bel ragazzo che io ho visto in una serie e un’altra un’immagine che ho citato a lezione, tutte cose perbene, per carità, anche perché abbiamo una reputazione e vogliamo difenderla.

Comunque al computer con l’elefante ci stava un collega che non conoscevo e che sembrava molto concentrato a fare quello che faceva, che non ho capito bene in che cosa consistesse.
A un certo punto mi sono scocciata e ho cominciato a presentarmi.
Io in Accademia, e certe volte pure fuori, mi presento sempre con nome e cognome e Storia dell’arte, cosa che non fa nessuno, per cui tu non capisci mai se stai parlando con un artista, con un teorico, con un tecnico, che ne so, con un fotografo o un esperto di luci a teatro o un costumista.
Per non parlare dei corsi quelli moderni e multimediali, che mi sfuggono sempre, anche perché in ogni Accademia si chiamano in un modo diverso e allora pure se il collega mi dice io insegno Sistemi interattivi, e ho preso un corso a caso dal sito, tu va’ a capire che insegna quello.
Invece Storia dell’arte è sempre chiaro, tutti capiscono di che si tratta e poi è il mio mestiere e sono capace a spiegarlo, comunque non scendo mai in dettagli, non è che sto a dire Storia dell’arte contemporanea o Storia dell’arte moderna.
Storia dell’arte punto e basta.
E, sul serio, basta.

Alcuni colleghi sono antipatici e boriosi.
A me non me ne importa niente ed evito di frequentarli.
Però ieri ce ne era uno in Sala Professori che mi ha detto che i suoi studenti sono bravi perché è bravo lui.
I miei complimenti, ho ribattuto, da ciò deduco che se i miei studenti sono somari, è perché sono somara io.

Autoritratto di Michelangelo nel Giudizio

E infatti dopo, a lezione, quando stavo parlando degli autoritratti e ho mostrato quello, terribile, di Michelangelo, che nel Giudizio si fa come una pelle scuoiata tenuta in mano da San Bartolomeo perché è stato scuoiato pure il santo e ha addirittura in mano il coltello con cui è avvenuto il martirio e mi sono resa conto che solo uno dei ragazzi aveva riconosciuto l’autore, sono precipitata in un abisso di tristezza, tu guarda, una carriera e una vita intera dedicate all’arte e in Sala Professori incontro quello che mi dice, nemmeno troppo fra le righe, che sono un’incapace e che ho sbagliato tutto.

Mentre mi ripromettevo di non entrare mai più in Sala Professori se c’era il collega quello bravo, è entrata una collega, come una furia.
Ha aperto il suo armadietto e ha tirato fuori roba.
Mi ha detto subito che aveva ereditato il contenitore da un collega che era andato in pensione e mi ha chiesto secondo te che ci devo fare con tutte queste tesi e tesine.
Le butti al secchio, ho risposto senza esitare, figurati che cosa dicono di nuovo in cinque cartelle sugli affreschi di Arezzo di Piero della Francesca o sugli interventi a San Pietro di Bernini.
Lei mi ha detto che pensava di consegnarle al docente, io ho insistito che lui le aveva messe lì perché non aveva nessuna intenzione di mettersele in cartella.

Io li capisco, gli uomini.

La collega era simpatica e abbiamo legato.

Non vi ho detto che in Sala Professori hanno messo da poco un gesso inquietante, una statua di un uomo grande e grosso, sbattuto a terra, mezzo nudo, con i piedi rotti e poco avvenente.
Siccome c’era un sacco di spazio, la statua l’hanno messa là.
Io ho detto è un Cristo morto, una collega è intervenuta e ha detto ma no, vedi, c’è pure scritto, è Il Seminatore, un seminatore che dorme, ma che è, un seminatore morto.

Avevo saputo parlando con la collega simpatica che è medico e che insegna Anatomia e allora ne ho approfittato e le ho detto guarda la statua e dimmi se secondo te questo è morto.
Certo, mi ha detto lei, è morto ed è pure brutto.

Ah, come sono contenta quando ci prendo.

Poi siamo passate al personale e lei mi ha raccontato un po’ di cose, lavoro, affetti e allora ci sono andata giù dura come amo fare quando sento un flusso caldo che avvolge me e la persona con cui parlo e le ho chiesto se quando si svegliava la mattina era contenta.
Certo, mi ha risposto.
La vita è così bella.
Ogni volta che sento dire che la vita è bella, entro in uno stato di sospetto.
Allora ho chiesto alla collega simpatica che cosa c’era di bello nella vita.

«Io», mi ha risposto, senza nemmeno un attimo di esitazione.
«Io mi alzo la mattina e mi guardo allo specchio e mi dico “Buongiorno” e già questo mi rende contenta».

Di botto ho capito tutto.
La collega è un’ottimista.
Bisogna frequentare gli ottimisti.
Bisogna strusciarseli addosso, farsi contagiare, sperare che qualcosa di questa loro attitudine a stare al mondo ci si attacchi.

Sala Professori con dentro gli ottimisti: pagherei per entrarci

Progetti e programmi per l’anno nuovo incombente e per il nuovo decennio: la faccio finita con i mugugnoni, i sempre scontenti, quelli che ti dicono che tanto finisce male, quelli che ti guardano in tralice se tu dici facciamo questo.
Mi guardo dentro, pure più di quanto non faccia di solito.
Premetto che sono di quelli che pensano che i sempre contenti siano non del tutto intelligenti, andiamo, su, come fai a essere contento di stare al mondo, ogni volta che chiedo che cosa ti piace, mi rispondono in modo per me incomprensibile, che ne so, viaggiare, mangiare, guidare una macchina, aprire la finestra la mattina e vedere che c’è il sole, che devo fare, andare finalmente su una spiaggia dei Caraibi con le palme, comprarmi una macchina dieci volte più potente della mia, mettere in conto la crapula per Natale, e aggiungo pure che a me la pioggia non dispiace affatto e che sono più lunatica che solare.

E poi ci vuole altro.

Ma anche un incontro con una collega ottimista è una cosa buona, ma per carità, fra il collega che mi dice tu guarda come sono bravo e la collega che mi dice tu guarda come sono contenta, proprio non ho dubbi: la prossima volta entro in Sala Professori solo se c’è quest’ultima, perché a me del collega bravo non me ne importa niente e casomai non è nemmeno vero che lui è bravo e, messa così, la sua bravura manco mi contagia.

Invece la contentezza si diffonde nell’aria e riempie tutto, si innalza, prende il vento, torna giù e si deposita e casomai è pure contagiosa.

Insomma e a chiudere: io con la Storia dell’arte so come sbrogliarmela, è con la contentezza di stare al mondo che ho dei problemi.
O dubbi.
O difficoltà.

E, diciamocelo, almeno la frequentazione di un ottimista e, sottolineo, non uno di quelli cui in quel momento gli ha detto bene, mi sembra un’opportunità fantastica.
Diamogli un corso in Accademia.
Diamogli la possibilità di parlarne.

E apriamo la Sala Professori solo per lui.

Lasciando fuori quelli che pensano di essere bravi.
E poi chissà se lo sono davvero.

Tu va’ a sapere.

4 Comments

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  1. La tua/nostra collega é davvero simpatica perché, come te, é una donna intelligente, colta e , soprattutto, una vera signora. So di chi parli mentre sono curiosissima di sapere chi è lo “Sborone”. Ti va bene se dopo avderlo identificato lo chiameremo sempre cosí ?

  2. Ahahahah, c’è pure un pregresso relativo al collega: anni fa un’amica, anche lei storico dell’arte, mi fece leggere una cosa scritta dal tipo e mi disse ma tu capisci che c’è scritto, io, no. In effetti non si capiva niente, passammo un paio di ore cercando di venire a capo del testo, senza riuscirci, ridendo come matte.
    D’accordo su tutto, Lucia cara, come sempre

  3. Ti leggo e rido, cara collega:-)

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