INNO ALL’AMORE, prima parte

L’Eros di Piccadilly Circus, Londra

Chi l’avrebbe mai detto: «…povero, sempre; e non è affatto delicato e bello, come per lo più si crede; bensì duro, ispido, scalzo, senza tetto; giace per terra sempre, e nulla possiede per coprirsi; riposa dormendo sotto l’aperto cielo nelle vie e presso le porte».
Bel ritratto, eh, quello di Eros fatto da Diotima nel Convito di Platone. Il fanciullo è infatti figlio di Penia, la Povertà, che va a mendicare al banchetto in onore della nascita di Venere e si fa venire la brillante idea di giacere con Poros, l’Espediente.
E ci riesce, anche perché lui è ebbro di nettare («vino ancora non ce n’era»).
Da questa coppia così bene, o male, assortita nasce il dio dell’Amore, certo il primo e il più importante dei sentimenti.
Dunque, cominciamo da lui.

Figura, chiamiamola, minore del pantheon dei Greci e dei Romani, Eros, che diventa Amor e Cupido, è rappresentato molto di frequente nell’arte ellenistica e, a partire dal Rinascimento, praticamente sempre.
Evidentemente è un dio molto importante.
Il bel dialogo di Platone, tutto a lui dedicato e intrecciato intorno a un banchetto che gli dà il nome, vede i commensali disquisire ciascuno dal suo punto di vista, con Socrate che, come sempre avviene, ha la meglio su tutti per intelligenza e sottigliezza. Oggetti del desiderio e dell’amore sono, dice lui, ciò che non si ha e la condizione in cui non ci si trova. E questo lo sappiamo tutti, basta innamorarsi una volta per capirlo.
Dunque, Amore difetta di bellezza e la va cercando.
Proprio come facciamo noi, e d’accordo sulla bellezza, però l’elenco di ciò di cui difettiamo e che andiamo cercando potrebbe farsi lungo.
Personalmente trovo anche calzanti le doti che la creatura ha preso dal padre (Espediente, non dimentichiamolo): è insidioso, valoroso, audace, veemente. Cacciatore possente. Capace di intrecciare astuzie e intrighi.
È anche filosofo.
Incantatore.
Esperto di filtri.
Si capisce facilmente che è pericoloso e che fa male.
Eppure siamo sempre lì a cercarlo.
C’è una formula che definisce noi tutti, almeno così io penso, che trovo molto bella: siamo dei romantici delusi.
Romantici, perché continuiamo a considerare l’Amore la pietra angolare delle nostre vite. Delusi, perché conosciamo la fragilità dei sentimenti.

Detto questo, vediamo di fare ordine nel loro caos.

Una volta, durante non so più quali campionati mondiali di calcio, lessi un articolo di un giornalista sportivo di quelli bravi (altrimenti non lo avrei letto). Lui domandava ai suoi lettori quante volte si erano innamorati, ma sul serio, in vita loro. Voleva saperlo perché lui aveva una sua teoria, che vedeva innamoramento e calciatori corrispondersi.
Mi spiego.
Lui diceva che non ci si può innamorare (sul serio) più di tre o quattro volte nella vita.
(Io, che pure sono una passionale e una che perde la testa, nella sostanza sono d’accordo).

Secondo lo stesso principio, non ci potevano essere nella storia del calcio più di tre o quattro calciatori eccezionali.
Se non ricordo male, lui si fermava addirittura a tre.
Detto fra noi, il terzo non me lo ricordo. Ma i primi due me li ricordo benissimo, anche perché da allora cominciai a chiedere a tutti i conoscitori di calcio che mi capitavano a tiro quali fossero i tre più grandi calciatori della storia e tutti, senza eccezione, mi hanno dato la medesima risposta: quelli che vedete nelle figurine.

 Il terzo variava, e variava sempre. Si capiva che lì entrava in gioco il gusto personale, forse anche il tifo per la squadra del cuore, insomma, il terzo calciatore era ballerino.
Ma sui primi due, nessun dubbio.
Ora vi invito a interrogarvi: quanti amori, ma di quelli non variabili, avete avuto in vita vostra?

Questa somma, ammettiamolo, sdutta, risicata, potrebbe starci un po’ stretta. Ma è un po’ il gioco della torre: butta di sotto quello che non ti serve e tieni quello che davvero conta.
Com’è il vostro bilancio?

Alexandre Cabanel, Fedra, 1880

Ci innamoriamo di fantasmi, che invadono la nostra vita con ancora più potenza di coloro che la abitano fisicamente.
Fedra è innamorata di Ippolito, che ha incontrato una sola volta (e in una sola versione, Euripide e Racine dicono cose diverse).
Il carattere del tormento di Fedra è quasi astratto, ma ciò non toglie che sia un tormento violento, organizzato com’è intorno a un oggetto irreale.
Lei brucia a vuoto e c’è chi sostiene che è passione, ed è folle, solo quando l’oggetto amato viene a perdere, agli occhi dell’innamorato, qualunque realtà tangibile.
Fedra prova nei confronti di Ippolito, che è, fra l’altro, il figlio del marito Teseo che, però, è ritenuto morto per gran parte della pièce, una forte attrazione fisica.
La sua passione è singolare e strana.
L’equivalente oggi potrebbe essere un innamoramento per una persona che si manifesta solo tramite WhatsApp e solo di tanto in tanto.
Che gioco ci sia dietro, non lo sappiamo, forse il gioco non c’è nemmeno ed è solo un passatempo, una distrazione, però il nostro sentimento è uguale a quello di Fedra e ugualmente violento.
Il fantasma, si sa, funziona più della persona reale.
(Ma resta da chiedersi: se l’altro è un fantasma per noi, noi, che cosa siamo per lui?).

Sophie

Sophie Calle, Le carnet d’adresse, 1998

Ci innamoriamo di fantasmi, che carichiamo di tutte le nostre attese e di tutte le nostre aspettative.
Sophie Calle è un’artista la cui strada si è intrecciata a un certo punto con la mia, l’ho incontrata, infatti, in un romanzo di Paul Auster, con il quale lei ha avuto tempo fa una relazione.
La ritrovo spesso, al punto da considerarla una compagna di viaggio.
Potremmo definire Sophie Calle un’artista del comportamento.
Siccome le storie capitano a chi le sa raccontare, lei, tempo fa, trova in terra un carnet d’adresses, ossia una rubrica telefonica.
La spedisce in forma anonima al legittimo proprietario, le cui coordinate erano indicate sulla prima pagina, ma solo dopo qualche ora.
In quel lasso di tempo lei la fotocopia.
L’opera consiste nel telefonare a tutti coloro il cui nome compare sul carnet e nel proporre loro un appuntamento, nel corso del quale lei chiederà loro di parlarle del proprietario della rubrica, del quale svelerà il nome solo al momento della conversazione.
Lei va, dunque, alla conoscenza di un fantasma.
Del quale, come è ovvio, si innamora.

«Un uomo che non dice mai “sì, d’accordo”, ma: “volentieri, sono molto lusingato”…Con un lato alla Lubitsch…dal fisico un po’ arcaico, da moschettiere e che un giorno fece uno scandalo in una stazione perché il ritorno era più costoso dell’andata perché c’era una soprattassa per il tunnel…un personaggio shakespeariano, fra il buffone, l’umano, il tragico…un uomo caloroso e riservato, una combinazione molto rara…un uomo che ha rischiato di morir dal ridere quando gli raccontarono la barzelletta seguente: “Mi scusi, signora, può dirmi dove sono le zone erogene?” E la donna risponde: “Lei deve scusarmi, ma non sono del quartiere”. Un uomo che ama il dipinto di Paul Delaroche L’esecuzione di Lady Jane Grey, che ha paura dell’aereo…un appassionato di opera lirica, un virtuoso del flipper, che ha l’aria fuori posto in un night… che non riesce a condensare un messaggio su una segreteria telefonica e deve sempre richiamare… che ama l’Italia… i fumetti… la pastasciutta, uno che da piccolo voleva essere egittologo, che sorride molto. Un uomo all’agio nella sua follia, organizzato nella sua solitudine. Misterioso. Che sarebbe capace di sparire senza lasciare tracce…».

Paul Delaroche, L’Esecuzione di Lady Jane Grey, 1833

L’amore accade.
E accade che Sophie Calle si innamori.
Lei entra in uno stato di eccitazione e comincia a immaginare che lei sia destinata ad amare l’uomo della rubrica telefonica. Entra in campo un altro fantasma, così frequente in tutti, forse in particolare nelle donne: lei si convince che questo sia l’uomo migliore di tutti quelli che ha conosciuto, l’uomo dei suoi sogni.
Tutto quello che succede è un segno del Destino e il Caso ha lavorato perché nelle mani di lei finisse «quell’oggetto magico, riserva di passioni oscure e di desideri inespressi».
Un quotidiano aveva proposto all’artista di curare un feuilleton de l’été: per un mese lei conduce la sua personalissima inchiesta per creare il ritratto di uno sconosciuto. Lei racconta le tappe successive della sua indagine.
Lascia la sua casa e si installa in un luogo più anonimo per potersi immergere in modo più radicale nella vita di lui.
Smette di incontrare i propri amici e incontra solo gli amici di lui, che gli invidia. Passeggia nel quartiere di lui. Ai gusti di lui si conforma.
Non c’è nemmeno il rischio di incontrarlo prematuramente perché viene a sapere presto che lui è partito per due mesi, è andato in Norvegia, non legge la stampa di Parigi, non è al corrente di niente.

Lei aspetta che lui ritorni.
L’attesa, la condanna delle donne, da Penelope a Madama Butterfly, un incubo ricorrente, che stende le sue ombre anche sulla vita di un’artista contemporanea.
Aggiungete a tutto questo che i conoscenti di lui, all’inizio esitanti o reticenti, presto si erano prestati volentieri al gioco, perché quel gioco e quella storia sembravano fatti su misura per LUI.
Sophie Calle usa tutte le maiuscole a questo punto della sua narrazione.
L’ultima puntata del feuilletton L’Homme au Carnet è una dichiarazione d’amore: lei dice a lui che lo ha seguito, cercato per più di un mese; dice che, se lo incontrasse, saprebbe riconoscerlo; che non ha più bisogno degli amici di lui; che lascia Parigi la sera stessa e che sarebbe potuta andare a Reims, dove lui è nato, a cercare altre sue tracce, la sua scuola, la sua casa. E invece lei va (viene) a Roma, dove lui si reca tutti gli anni. Dove a lui piacerebbe vivere.
L’innamoramento è totale, l’immersione nella vita di lui, simbiotica, ogni volta che faccio una lezione su Sophie Calle e spiego quest’opera, perché di opera d’arte si tratta, domando ai miei interlocutori quale sarebbe stato il loro atteggiamento se si fossero trovati a essere oggetto di questa passione.
Personalmente, mi sarei divertita, non mi sarei sentita perseguitata, anzi, avrei apprezzato ogni sfumatura del sentimento dell’altro.
Lei termina la sua inchiesta il 2 settembre e si chiede se lui sia già a conoscenza della loro storia, se gliene vuole per essa.
La conclusione è lamentevole e ve la risparmierei volentieri. Ma questa è una piccola lezione di storia dell’arte e non una favola.
Lui rientra e pubblica sul medesimo giornale il suo punto di vista.
Non ha gradito l’intrusione nella sua vita privata, è ferito e si vendica.
Si è procurato una foto di lei che la rappresenta nuda (altra performance dell’artista), la espone al mondo, chiude malamente la vicenda, anche se, in un certo senso, la autentifica.
Il libretto pubblicato da Sophie Calle è barrato in rosso, contiene solo poche pagine, quelle dalle quali ho attinto il materiale per quest’articolo e l’autrice garantisce che il suo manoscritto non infrange le leggi relative alla diffamazione né offende il pudore.

Infatti.

Lui avrebbe avuto cura di far sapere all’artista che il suo risentimento non si era spento.
A questo punto, però, a noi poco importa.

Quello che ci interessa qui è che il fantasma amoroso si sia incarnato in un atto d’arte moderno, certo, un po’ precedente cronologicamente l’avvento di internet, cosa che mi fa pensare come oggi potrebbe svolgersi una vicenda analoga.
Io, qualche idea, ce l’avrei. Però finisce che qui, se ve la espongo, qualcuno si offende e non gradisce.

Scritta sul muro sotto casa mia

Eterno ritorno dei modi d’amore,  loro danza a movimentare la nostra esistenza, a darle colore e sapore, il colore e il sapore di tutti i nostri sentimenti.

2 Comments

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  1. Sabina Albano

    10 marzo 2019 — 21:27

    MERAVIGLIOSO
    NON POSSO CHE FIRMARE COSÌ:

    • Rosella Gallo

      10 marzo 2019 — 21:53

      Grazie, Sabina carissima, della tua squisita generosità. Noi due, sempre sulla medesima lunghezza d’onda, e questa cosa è bellissima, un abbraccio affettuoso

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