JOURNAL, 1: POSTACOVID

Io mi sono detto cento volte che la pittura, vale a dire  la pittura materiale,  non era che il pretesto, che il ponte fra lo spirito del pittore e quello dello spettatore

Eugène Delacroix, Journal , 1932

Attacco oggi 27 luglio un Diario che chiamo Journal, come quello di Delacroix.
Attacco ma non è vero manco per niente, sto sul mio Journal da 39 (trentanove) taccuini, quello color azzurro turchese o come vi pare che vedete nella foto è quello in corso.
A ritmo di due taccuini, due Journal l’anno, fate voi il conto, vi metto in guardia, dovete fare una divisione.
Qual è la differenza fra il Journal che vedete in foto e questo che leggete.
Poca roba.
I sentimenti sono i medesimi.
Il turpiloquio, qui non lo trovate, non lo apprezzo e lo evito fino a che posso.
Poi, che c’entra, il mio Journal, quello di colore azzurro che l’azienda chiama diversamente, di parolacce è pieno.
Perché è privato.
Perché ogni tanto ci vuole.
Perché se uno mette il turpiloquio sul suo Journal, comunque si chiarisce le idee e si sfoga.
E il mondo resta libero.
Non dico leggiadro e poetico. Ma, almeno, vivibile.

Laddove se tu il turpiloquio lo usi nel mondo, lo infanghi, d’accordo, lo definisci, però poi è anche colpa tua se esso è invivibile.

Il ragazzo del turno 186 alla posta ha una mano rattrappita, mia madre avrebbe detto offesa.
Il mio numero arriva subito, non mettevo piede alla posta da due anni, da quando cioè avevo portato la domanda di trasferimento dell’Accademia da Napoli a Roma.
Trovare il coraggio.
L’impiegata, tutta vestita di rosa, non so come avesse fatto a capire, mi aveva chiamata professoressa e trattata gentilmente.
Piansi tre giorni, un po’ consolata dall’impiegata in rosa che aveva compreso il mio dramma.
Il ragazzo stamattina, no.

(Alla posta l’atmosfera è surreale, tutti in calzoncini corti ma con la mascherina.
Se ci fosse una rapina, sai chi se ne accorgerebbe).

Cartoline Sorbetti

Ho detto al ragazzo, chiara, cortese, affabile, ho bisogno di francobolli che abbiano il formato di un francobollo, che non siano delle lenzuola, ho delle cartoline da spedire, le ha create un bravissimo grafico, hanno anche il loro francobollo, ma è illustrato, poi hanno pure una scritta, per favore, lei ha francobolli di formato normale.
Mi guarda e si illumina, mi dice certamente.
Entra nell’ufficio, ne esce dopo dieci minuti buoni.
In mano ha un foglio di francobolli, grandi come lenzuola.
Gli dico, guardi, sono desolata, le ho detto che mi servono dei francobolli piccoli.
«Non ha capito», mi fa lui, la frase della rottura di ogni relazione, dovrebbero insegnare a non utilizzarla.
Certo, che ho capito, che tu i francobolli di formato normale non li hai.
Ringrazio, gentile. Spero solo che non mi abbiano fatto una multa, ho piantato la macchina davanti alla fermata dell’autobus a Furio Camillo.
Ma tanto, a Furio Camillo, gli autobus non passano mai.

Fermo la macchina a Santa Croce in Gerusalemme.

La tabaccaia sta pranzando, sono le dodici e venti ora di Roma, mangia con una forchetta da un contenitore di plastica, prima di me c’è un ragazzo con un cane, facciamo una specie di danza di complimenti, per carità, fai tu, devo parlare con la signora.
La signora capisce al volo, afferra una delle mie cartoline, mi dice lei lo mette per così, penso che la signora ha occhio, è sicuramente brava a parcheggiare la macchina e a sistemare i mobili in casa sua.
E a dare indicazioni per i francobolli.
Le dico che alla posta mica hanno capito, manco sorride, sta mangiando dal contenitore di plastica e sono le dodici e venticinque, ora di Roma.

 

S. Croce in Gerusalemme, Roma

Questo è un posto che amo, la facciata del barocchetto romano mi mette sempre allegria. Mi capita spesso di spedire la mia posta da lì, riesco sempre a mettere da qualche parte la macchina, la buca della posta è accessibile.
Chiedo quarantadue francobolli.
Alla posta il ragazzo mi ha detto l’affrancatura di una cartolina.
La tabaccaia mi chiede una cifra superiore.
Le dico, scusi, che calcolo ha fatto.
Agra, staccata, casomai brava a parcheggiare la macchina e a spostare i mobili di casa, mi dice 1,20 invece che 1,10.
Il tono è quello del barista davanti al Monte Bianco da caffetteria: ovvero la schiuma senza la parte liquida del latte, servito in bicchierino di vetro per far vedere il contrasto cromatico, che costa pochissimo in più al barista e un aumento di prezzo al cliente.
E io che ne so. Come, che ne so, sto leggendo un libro che spiega il marketing, peccato che l’indagine dell’autore non abbia raggiunto i francobolli in tabaccheria.
Chiedo alla signora se posso usare il bancomat, ho il POS lì davanti, certo che no, quello serve solo per le bollette, ah ecco.
Pago.
Esco.

All’edicola di via Veneto, dove sono diretta per la mia rivista francese, il signor Francesco è con la moglie Gabriella.
Si defila subito, oggi, chissà perché non mi invita a cena come fa sempre.
Ma mi ha messo da parte la mia roba, pago e mi fermo almeno otto minuti a sentire dalla signora come sono gli uomini quando sono mariti da un po’ di tempo.
Ma dai, a chi mai sarebbe venuto in mente.
Ringrazio, le dico che senza di loro sarei isolata dal mondo, ormai procurarsi un giornale estero è un’avventura.
Mi fermo ad attaccare i francobolli alle cartoline vicino a Porta Pia.
Le imbuco tutte alla buca  sull’Appia vicino al negozio dei miei pesci rossi.
La mia vita è ingombra di sentimenti, luoghi, sensi vietati, rituali, persone.
La mia vita è ingombra, punto e basta.

Compro insalata e pane.

Rientro.
Sono stremata.
Dormo circa un’ora.
Poi metto a posto una lezione, che faccio on line in diretta alle ore 18:00 e che mi riesce bene.
È l’ultima di un lunghissimo ciclo.
Termino con la voce che mi si spezza.

Poco male, ho una corda vocale zoppa, mi succede spesso, quando poi ci si mette l’emozione.

Almeno ho spedito le cartoline.
Almeno, pure se non è servito a niente, sono riuscita ad andare alla posta.

2 Comments

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  1. Brava!!!!!

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