Le mani di Glenn Gould

Ho orrore di tutti i mestieri. Padroni e operai, tutti contadini, ignobili. La mano da penna vale la mano da aratro. – Che secolo di mani! – Io non avrò mai mani.

Arthur Rimbaud, Una stagione all’inferno,  1873

Le mani degli studenti. I miei studenti si mangiano le unghie.
Se le mangiano oltre ogni limite. Alcuni scendono oltre la parte ungueale, attaccano la pelle delle dita, sanguinano.
Mi porto in borsa cerotti per medicarli, li finisco spesso.
Mi fanno pensare a quei morti apparenti che si svegliano nella bara, si accorgono di come stanno messi, urlano, implorano, bussano e passano gli ultimi brandelli di vita ritrovata divorando se stessi a cominciare dalle mani.
Li scoprono mezzi spolpati quando arriva l’esumazione.
(La mia fantasia gotica fa il paio con quella di Poe e da lui deriva).
Vado da una femmina e dico ma guarda come sei conciata, le mani in una donna sono importantissime.
Quella si nasconde le mani dietro la schiena e si avvita in una crisi in cui femminilità e unghie si mescolano senza possibilità di soluzione.
Vado da un maschio e dico che alle donne piacciono le mani degli uomini e guarda tu le tue come te le conci.
E a quello, casomai, le donne manco piacciono.
Con gli studenti non sai mai come fare, come fai, fai male.


Resta che questi sono fenomeni nuovi, insieme a crisi di ansia insuperabili che li paralizzano agli esami e ad attacchi di panico che li bloccano per strada mentre attraversano.
Mi sono fatta due conti di calendario e sono arrivata alla conclusione che due possono essere i motivi di questo loro stato d’animo.
1. Fumano troppo, arrivano in aula completamente stonati perché non vogliono starci e questa sola idea mi fa infuriare, io mica li obbligo.
2. Stanno troppo sui telefoni. Come tutti, del resto, ma loro sono più fragili perché non hanno conosciuto forme di vita diversa ed è come se da quei dispositivi emanasse veleno. Si vede pure da come li usano a lezione, quando dico cercate l’opera su Google, sono sempre esitanti, come se mi chiedessero ma davvero posso farlo.

L’incidente, 1. Una sera mi prendo un dito nella porta scorrevole della cucina.
Il fatto è successo perché, come spesso fanno le donne, facevo tre cose contemporaneamente:
1. Ripassavo una verdura in padella
2. Chiudevo la porta della cucina perché non volevo che la suddetta verdura mi appestasse gli abiti in guardaroba
3. Rispondevo a un messaggio

Fu così che misi il pollice della mano sinistra nella trappola.
Non imprecai.
Le imprecazioni e il turpiloquio li ho fatti fuori dalla mia esistenza.
(Oddio, il mio diario, ovvero il mio Journal, è pieno di insulti, pagine intere vergate con grafia furibonda. Ma è una cosa fra me e me, questo deve sapersi).
Non imprecai e ficcai il dito nel cassetto del freezer, dove conservo ammucchiato il ghiaccio in tutte le sue forme.
Mi tenni l’unghia nera per mesi. Chiunque incontravo in quel periodo mi chiedeva che mi ero fatta.
E io lì a spiegare la verdura e gli abiti.
L’unghia cresceva a rilento. Strano, a me le unghie crescono a velocità supersonica.
Quelle sane.
Quella ammaccata, no.
Finché un giorno mi guardo l’unghia e caccio un grido di orrore.
Mi stavo trasformando in un mostro, ero un freak che nessuno avrebbe mai più accettato sulla faccia della terra: dalla lunula stava crescendo un nuovo corpo ungueale, vedete voi se non sono informata.
Cioè, un’unghia nuova si stava sovrapponendo a quella acciaccata.
Non in successione, come sarebbe stato logico, come crescono, per esempio, i capelli.
No, quella nuova si sovrapponeva all’altra.
Il processo durò altri mesi, andai a lamentarmi dal collega di Anatomia, che mi rispose guarda che le unghie ricrescono in questo modo.
Ma, almeno, avvertitemi.
Insomma, per risolvere l’esperienza del fattaccio della verdura ripassata e della porta, mi ci volle un anno.
Per mesi provai l’ebbrezza dell’uomo elefante, di Niki Lauda dopo l’incidente, la mia unghia mi aveva trasformata in un Quasimodo e in tutti gli altri mostri della storia.
Ogni volta che mi guardo l’unghia del pollice sinistro, che è in condizioni perfette e che non reca alcun segno del suo minimale ma lungo calvario, penso: ma quanto sei bella.

L’incidente, 2. Ho con la città di Urbino un legame profondo. Che è il motivo per cui ho giurato di non metterci mai più piede. Ho lavorato per un sacco di tempo con la Soprintendenza e lì ho fatto il Perfezionamento, avanti e indietro per due anni, fino alla discussione della tesi.

Urbino

Uno allora dice ma perché non ci torni.
Perché è un luogo della mia memoria e dei miei sentimenti, e tanto basta.
A Urbino una volta conosco Gianfranco, che era un ragazzo carinissimo, aveva bellissimi capelli lunghi e prendemmo subito a parlare tutte le sere come fiumi in piena.
Aveva qualcosa di strano nel movimento delle mani, non riuscivo a capire, la sensazione è che avesse, mettiamo, due mani sinistre. Oppure destre.
Non mi capacitavo.
E lui una volta, stavamo in una di quelle trattorie marchigiane dove si mangia, e si beve, benissimo, mi fa un racconto raccapricciante: aveva avuto un incidente da ragazzetto, una motosega gli aveva troncato di netto una mano, lui l’aveva vista volare via, mi descrisse per filo e per segno quello che aveva provato, rivoleva quel pezzo del suo corpo, afferrò la mano staccata con quella che ancora aveva e corse verso l’ospedale, fu operato immediatamente, l’intervento riuscì molto bene, solo che la mano è un organo troppo complesso e non tutti i nervi furono riattaccati al punto giusto, mi ricordo la sua mano aperta sul tavolo e lui che mi faceva vedere dove l’aggancio non aveva funzionato, qui, qui e qui, era pure allegro.
Quella sera ebbi la conferma di una mia vecchia teoria: il freak può essere un sacco di cose, fra le quali anche chi è sopravvissuto al trauma. L’hai sfangata, però, dopo quello che ti è successo, non sei più lo stesso. Proprio come la mano del mio amico, che se ne stava un po’ per suo conto e faceva cose imprevedibili e bizzarre.

L’incidente, 3. Glenn Gould è il mio pianista prediletto. Al mio funerale ricordatevi di mandare le sue Variazioni Goldberg.
Entrambe le versioni mi stanno bene.

Glenn Gould

Una volta leggo un’intervista dove lui raccontava i due più grossi traumi della sua vita: la rovinosa caduta del suo Steinway durante un trasloco.
Una pacca sulla spalla.
Il pianoforte, lo capisce chiunque.
L’amichevole colpo, un po’ meno.
Ma lui riportò un’infiammazione a un nervo (ancora un nervo) della schiena che per mesi gli impedì di effettuare alcuni passaggi con i mignoli.
Lo racconta anche Bergman, che aveva sposato in uno dei suoi tanti matrimoni una pianista. La maestra di lei si chiamava Anna Corelli.
Faceva parte di un quartetto, che ebbe difficoltà quando sale da concerto e teatri vennero chiusi durante la Seconda Guerra.
La città dove loro si trovavano fu occupata dalle truppe russe.
Tutti i musicisti furono portati in un centro di raccolta.
A tutti furono portati via i loro strumenti.
Anna fu violentata dalle guardie. Era con sua figlia e, per non spaventarla, lasciò che quegli uomini facessero di lei quello che volevano.
Calcolò ventitré o ventiquattro volte.

Dopo la guerra Anna Corelli si stabilì a Stoccarda e si affermò come insegnante di pianoforte.
La moglie di Bergman, Käbi Laretei, divenne sua allieva.
Era bella, generosa in senso musicale, ma non aveva tecnica.
Fra le due donne iniziò un lavoro difficile che durò anni e iniziò pure un’amicizia.
«Articolazioni delle dita, mano, braccio, avambraccio, spalla, schiena, posizione delle dita, non imbrogliare, non affrettarti quando sei indecisa, fermati e pensa…se la seconda falange non funziona il problema è qui (punta l’indice inanellato tra le scapole dell’allieva)».

Ecco spiegato il dramma di Glenn Gould.
Se fossi capace di innamorarmi della vita (non lo sono), mi innamorerei in prima battuta della complessità del corpo: una cosa unica, nella quale, però, ogni parte è legata attraverso misteriosi percorsi a un’altra.
Giorni fa sentivo alla radio un servizio sul restauro di un organo antico di una chiesa di Milano. Un organo è composto da 130.000 (centotrentamila) elementi.
Ti credo che è un’avventura, restaurarlo.

Di quanti elementi è composto il corpo umano?

Ricordo benissimo che da ragazza pensavo di essere molto procace: tutte le camicette mi tiravano e i bottoni stavano a stento nelle asole.
Ma non mi sentivo tale.
Ci pensò un amico, a indicarmi la sorgente del disagio.
Una volta mi disse: «Certo che tu hai proprio due spalle belle larghe».
(Evidentemente se le era guardate bene. E, con loro, tutto il resto).

La falange che non funziona, il bottone che non si allaccia, bisogna capirlo, hanno motivi loro interni, che dipendono da altro: la prima, dalla schiena; il secondo, non dalla dimensione dei seni, bensì da quella delle spalle.

Tagliato a mano. Quando rientro a quest’ora tarda, il supermercato mi accoglie come un ventre caldo. Il direttore è sulla porta a fumare una sigaretta.
Facciamo due chiacchiere impertinenti.
Compro il pane, poi mi viene voglia di prosciutto e chiedo a Danilo di farmene un etto di quello di Amatrice.
Si deve tagliare a mano.
Lui manovra abilmente intorno alla morsa, impugna il coltello.
Mi dice che toglie la prima fetta, che ha preso un po’ d’aria.
Taglia la seconda e me la porge.
«Degustazione», mi dice. Ho il cervello in pappa per la stanchezza e non accetto mai mai mai bocconi fuori pasto: sono una disappetente e mi guasto la cena.
Ma come faccio.
Mentre io sbocconcello la fetta di prosciutto, gli chiedo se gli piace di più tagliarlo a mano o a macchina.
«A mano, che domande», mi risponde.
Questa sì, che è una performance da maestro, a tagliare un tocco di maiale con l’affettatrice, sono capaci tutti.
Tu prova a girare intorno a quel pezzo di carne senza massacrarlo e senza massacrarti le dita, con il coltello e il tagliere.
Quando si dice, avere le mani in pasta e sapere dove metterle.

Ah, l’amore, l’amore. Leggenda dell’incontro fra Picasso e Dora Maar Aux Deux Magots.

Aux Deux Magots

Circostanze passionali e poetiche.
Guanti neri di lei ornati di piccoli fiori rosa.
Lei toglie i guanti, comincia a piantare un coltello nel tavolo fra le dita, cola sangue, lui le chiede i guanti per tenerli e li conserva in una vetrina.
Relazione complessa fra i due, di mutuo scambio.

Picasso e Dora Maar

Essa durerà dal 1935 al 1943, in mezzo ci sarà anche Guernica, l’opera più dolorosa del XX secolo.
Ma lei con lui non si massacra solo le mani.
Con lui, lei conclude la sua vita.
«Dopo Picasso, solo Dio».
Dora campa fino a novant’anni, chiusa nella casa di rue de Savoie, consacrandosi totalmente all’arte.

Dora Maar, Guernica, Picasso, secondo stadio, 1939

Vallo a raccontare a qualcun altro.
Lei campa altri cinquantaquattro anni senza di lui, continuando a rimpiagerlo.
Tu vatti a innamorare, va’, va’.

A mani basse. «Nell’ippica, arrivo a mani basse, di fantino che giunge al traguardo con le mani in posizione normale, che ha vinto facilmente senza imporre sforzi al cavallo». Locuzione che certamente sarebbe piaciuta a Primo Levi, che indagava la storia delle parole e che è passato spesso dall’ippica.
A tutti piacerebbe vincere a mani basse, senza fare troppa fatica.

Poi, però.