A MANI BASSE, prima parte

Berenice Abbott, Le mani di Jean Cocteau, 1927

…la sua mano sinistra che afferrava la bottiglia d’acqua, la sua mano destra che svitava il tappo.

Adeline Dieudonné, Chelly, nella Raccolta di racconti  «13 a tavola», pronta per il 2020

Credo di essere sopravvissuta alle interminabili riunioni nella stanza della Direzione in Accademia solo perché passavo il tempo guardando le mani dei colleghi.
Dei colleghi uomini, perché le mani delle colleghe donne avevano un differente impatto sulla mia fantasia.
1. Le mani del Direttore: eleganti, da intellettuale, esperte di origami, di cui vedevo i risultati
2. Le mani dell’artista, mobili, eloquenti, con all’anulare una fascetta in argento un po’ alta, che stava lì dall’altra parte della fede nuziale. Negli uomini non apprezzo nessun gioiello oltre a un orologio rigoroso e di pregio. Forse posso fare un’eccezione per dei braccialetti. Talvolta
3. Le mani del ghiottone, paffute, un po’ disarticolate, che volteggiavano nell’aria
4. Le mani dell’altro intellettuale, più asciutte, forse nodose, mi accorgo che non me le ricordo
5. Le mani dell’artista dei fumetti, lui sembrava Nettuno, avrebbero potuto benissimo impugnare un tridente

Alle donne piacciono le mani degli uomini.
Le capisco e sono pure d’accordo.

A me, comunque, degli uomini piacciono anche le braccia, le spalle e il petto.
Ormai ho capito che in ogni parte della nostra carne si annida un sentimento. E nel petto c’è il coraggio. Voi fateci caso, i martiri, nei dipinti, offrono sempre al carnefice il loro petto. Bisognerebbe ricordarsene e dovrebbero ricordarselo soprattutto coloro che stanno con le spalle chiuse e contratte, vigliacchi, incapaci di offrirsi alla vita.
Oh, quanti.

Le mani del mio medico, unghie tagliate cortissime, quarant’anni di camera operatoria.
Le mani del collega conosciuto oggi, uno scenotecnico, ruvide, potenti, chissà com’è farsi accarezzare da mani come quelle.
Le mani della signora anziana ed estroversa, che una volta, per attraversare la strada, si era appesa al mio braccio, pesandomi addosso. Poi, però, l’altra sera, stavamo una di fronte all’altra e lei non si appoggiava, mi ha messo una mano sul braccio e la stretta era potente, un pugno di ferro. Mi sono chiesta come potesse una donna di quell’età avere tanta forza in un contatto. Tu vedi che fa, il carattere.
Le mani mie. Una volta stavo in un locale a piazza di Spagna e me le sono viste nello specchio del bagno, come se non mi appartenessero.
Simili a quelle disegnate e dipinte da Schiele.

Egon Schiele, Autoritratto con panciotto da pavone, 1911

Stavo lì pensando che dovevo rimettermi il rossetto e rientrare in sala e rimanevo a guardarmele, mi chiedevo se, così espressive, erano femminili.
Me le guardavo e pensavo che preferivo mille volte le mani mie a quelle di donne che conoscevo che le avevano morbide, tenere e bianche, come se non le usassero, meglio, come se fossero mani dall’utilizzo casuale e incerto.

Devo ricordarmi di dirlo ai miei pesci rossi, che siamo parenti.
La mano è infatti un’evoluzione della pinna pettorale di pesci arcaici, estinti. Era connessa con la locomozione, però la nostra andatura è diventata completamente bipede e il nostro cervello ha espanso le sue funzioni, per cui essa si è trasformata in un organo specializzato e preciso, prensile, dotato di cinque dita.
Il primo di esse ha due falangi anziché tre, come le altre.
Stiamo parlando del mignolo, e se voi vi state chiedendo a che serve, ve lo dico io: ad allacciarsi le scarpe.
Come lo so. Me lo disse un amico, che si era rotto i due mignoli, non mi ricordo come fece perché non è una cosa frequente. Con quelle due dita che mancavano all’appello, non riusciva a chiudere i lacci.
A me le scarpe con i lacci piacciono molto, ricordo che dopo questo racconto cominciai a fare attenzione all’operazione apparentemente semplice di allacciarmele.
Semplice, poi. Provate a insegnare a un bambino come si fa, capirete che semplice non è. Voi dite che ci sono anche le scarpe che si chiudono con il velcro.

Pierra Huyghe, Celebration Day, 2006

Ma il velcro è brutto e i lacci sono invece bellissimi, prova ne sia che l’artista Pierre Huyghe, in una sua opera che vidi una volta a Londra e che si chiamava Celebration Day, nella quale elencava cose e fatti diversi memorabili scrivendoli a grandi lettere serene, celebrava anche il laccio da scarpe.
Qui è la penultima dedica  in basso a destra.
L’artista, mica celebrava il velcro.

La pelle del lato ventrale, ovvero della parte interna della mano, quella che noi chiamiamo palmo,  «è priva di peli, solcata da pieghe e ricca di terminazioni nervose che ne accrescono la sensibilità tattile».
La parte interna della mano è quella che ti legge la chiromante.

Corto Maltese

Io alla chiromanzia non ci credo, tutti coloro che mi hanno letto la mano mi hanno detto una montagna di stupidaggini (contrariamente a coloro che mi hanno fatto l’oroscopo o fatto le carte, che mi hanno centrata come se io fossi stata un bersaglio) e dunque bene ha fatto Corto Maltese che, davanti a una linea della fortuna inesistente, se ne è creata una tutta sua, praticando un taglio con il rasoio.

Credo che toccare il palmo della mano di qualcuno sia un gesto di intimità assoluta e diretta. E mi meraviglia che non lo si capisca.

Le falangi distali, ovvero quelle finali del dito, sono ricoperte da unghie piatte.
E qui il discorso si articola e prende il volo.
Una volta ero lì che me ne andavo a spasso in un mezzo pomeriggio che mi ero ritagliata in un mio viaggio di studio.
Guardavo negozi.
Una signorina sulla soglia di un Nail Bar mi si precipita addosso e mi afferra una mano.
«Lei è un medico», mi fa.
«Io? No», le faccio. E avevo capito benissimo.
«Allora è una pianista».
«Nemmeno», aggiungo.
Non sono stata troppo lì a spiegare.

La strega di Biancaneve

Io mi taglio le unghie dalle due alle tre volte a settimana, mi crescono moltissimo e devo tenerle a bada, voglio avere sensibilità nei polpastrelli, voglio sentire toccando,
amo molto le mele ma con la strega che le confeziona non ho rapporti e nemmeno voglio avvelenarle, le prime unghie finte le ho viste negli Stati Uniti nelle cassiere del supermercato, battevano sui tasti con quelle strane protesi.
Poi ho avuto una simpatica ragazza con la quale facevo English conversation che aveva sopra margherite dipinte, lei era molto informale, entrava da me e lanciava le scarpe in aria, nemmeno mi chiedeva se poteva usare la mia stanza da bagno, la usava e basta, le sue conversazioni, che lei, chissà perché, aveva indirizzato in senso commerciale, mi annoiavano e a un certo punto la chiusi lì, non sopportavo più le simulazioni del gioco in borsa.
E forse non sopportavo più nemmeno le margherite.

Meravigliare, stanca, soprattutto gli altri.

Si scrive, intimamente, a mano.

La mano viene amputata presso i barbari, le società islamiche e altre popolazioni per punire alcuni gravi reati.

Alziamo le mani in segno di resa.

«Mai un uomo presenta per primo la mano a una donna. È lei che deve avere l’iniziativa di questo movimento».
«È la regina che parla per prima».
Dunque, deve essere la donna a tendere per prima la mano a un uomo.

Battiamo la mani, palma contro palma, per applaudire.

E, subito dopo, teniamo in palmo di mano qualcuno che abbiamo  in grande considerazione.

Si prega a mani giunte.

Albrecht Dürer, Mani in preghiera, 1508

E, poi, ci si mette una mano sul cuore, quando non ce la mettiamo sulla coscienza.

Io non so stare con la mani in mano perché sono una persona attiva e quando metto mano a una cosa, cerco di finirla.
Se c’è da dare una mano, la do.

E una sera, fu una bellissima sera, chiesi a un uomo che mi piace di mandarmi una foto della sua mano. Eravamo forse entrambi un po’ alterati, ciascuno per suo conto.

E lui la foto me la mandò e quella foto la conservo fra le cose più care e ogni tanto me la guardo ed è un po’ come stare al Consiglio in Accademia, nell’ora notturna galleggia l’idea di un film o di un libro, ma meglio sarebbe una conversazione, e quella mano sembra avere in sé una possibilità o un presentimento, e poi che ne so, al polso lui portava anche dei braccialetti e sulla foto si vedevano benissimo.

2 Comments

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  1. Rossella Racioppi

    20 novembre 2019 — 11:17

    Che meraviglia! Ricordo tuttora con infinito piacere uno degli esami più interessanti sostenuti all’università, Antropologia culturale con corso monografico su Il sapere della mano, appunto ciò che tu qui ben ricordi ovvero l’evoluzione dalla pinna alle nostre odierne appendici.
    Ora ripenso alle appendici inferiori che mia nonna paterna chiamava “estremità”, spesso lamentandosi -ahinoi, ben noto leitmotiv della sua vecchiaia- “Oggi mi fanno male, con decenza parlando, le estremità. Ma questa di Nonna Peppa è tutta un’altra storia che un giorno ti narrerò…
    Un saluto di buona mattinata. Ross

    • Grazie, mia carissima, non ho fatto l’esame di Antropologia culturale ma avevo compagni di corso che me ne hanno parlato, vedi come, con te, si è ricostituita l’atmosfera. Devi raccontarmi tutto di Nonna Peppa e delle sue «estremità», trovo molto bella questa delicatezza, soprattutto a fronte del linguaggio sboccato di oggi, che usano pure le nonne.
      E grazie per la lettura, il commento e per tutto il resto. Sempre grazie. E buona mattina a te. Ros

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