Carl Larsson, Donna sdraiata su una panchina, 1913

Questo è, un terzo grado.
Nel senso che il grado numero 1 è una canzone del 1992 di Jonathan Richman, That Summer Feeling, che ho scoperto solo in questa circostanza.
Poi c’è il bellissimo film di Mikhaëls Hers, Ce sentiment de l’été.
Grado numero 2.

Poi arriva il grado 3, dunque, il terzo: il mio blog, che mi auguro sarà interessante.
E l’idea del terzo grado nemmeno mi dispiace, vuol dire che sarà una fase confessionale, del resto, che altro può essere un blog se non una confessione e che senso avrebbe, se così non fosse?

Estate.
Strano matrimonio di pieno e di vuoto. Stagione leggera e colma di promesse, ambivalente, dunque, stagione della noia e del vuoto.
Estate come felicità. E, dunque, estate come delusione perché la felicità è sempre ardua da raggiungere.
In estate è tutto più difficile. Mi è capitato due volte di stare male, ma male sul serio, e di verificarlo di persona. Una volta vedevo solo medici, quella dopo ero convalescente. Il sentimento prevalente era del fuori posto, il guastafeste che alla festa non partecipa.
Ricordo anche molto bene che entrambe le volte, a distanza di anni, ci furono due casi di cronaca nera che per me divennero indimenticabili: nello spazio chiuso della stanza, non potevo fare altro che appassionarmi, leggere i giornali, stare a vedere come andava a finire, tutte le impressioni dilatate, il mondo fuori che si ammazzava, un’estate un delitto passionale; l’altra, una strana vicenda di un’imbarcazione con un assassinio, una cosa che nella mia fantasia aveva assunto i colori di un racconto di Poe.

Estate come vacanze.
Vacanze iniziali, dell’infanzia e della scuola.
Con mia madre, la piemontese, che prendeva i figli e li infilava in un viaggio eterno, fatto di treni e di cambi, fino a che, di notte, non si vedevano delle luci e qualcuno ci veniva a prendere.
Lì si apriva la zona buia della sua esistenza: perché, perché si era innamorata di un meridionale? Domanda stupida, uno si innamora, e basta.
Ma perché ci aveva fatto dei figli, se poi, quando l’estate scoppiava e lei ritornava, con un viaggio infinito, alle origini, c’era il problema dell’inflessione linguistica (proibito, rigorosamente, qualunque accento) e, peggio, quello dell’aspetto fisico, in qualche caso, per esempio, il mio, così mediterraneo.

Vacanze dai nonni materni, ovvero: bicicletta. Ogni volta che inforco la mia magnifica Lazzaretti nera a sette marce mi ricordo delle ruote che diminuivano, da quattro, a tre, da tre, a due. Caduta nel fosso prevista, poco male, poi ritorni, letteralmente, in sella.
Magnifica metafora della vita tutta.

Vacanze dai nonni materni, ovvero: animali.
A dirla tutta, lo strazio.
Il cane tenuto a pane e acqua perché facesse la guardia, quindi, alla catena, inavvicinabile e feroce, ancora mi ricordo i suoi denti, non sono mai riuscita a fargli una carezza.
Qualche gatto di passaggio, considerato inutile se non prendeva i sorci, anche lui poco gestibile dal punto di vista delle fusa e della morbidezza del pelo, probabile, però e grazie tante, che quei gatti lì fossero più tali di quelli che, dopo, avrei avuto in vita mia.
I conigli. Dal pelo serico, segreti, infilati nelle gabbie della stalla, spesso, come è giusto che sia, con dei piccoli, caldi, tremanti. Il nonno, una volta a settimana, il sabato pomeriggio, infilava la sua enorme mano in una delle gabbie e ne tirava fuori il più grosso.
Era un uomo grande e potente. Prendeva, allora, il coniglio per gli orecchi, lo tramortiva con un violento pugno, lo attaccava per le zampe ai ferri che tenevano chiusa la porta della stalla e cominciava a scuoiarlo, la bestia, non so se mezza viva o mezza morta, un po’ si dibatteva.

Il cane, eccitato dall’odore del sangue, ululava.

Dopo un paio di ore, il coniglio era servito in tavola, cucinato in padella.
Non sono diventata vegetariana, ma la sera del sabato da bambina ero volentieri inappetente e saltavo il secondo.

Le galline, quelle, mi spaventavano. Andavo nel pollaio a vedere se avevano deposto un uovo e certe volte lo trovavo.
Incredibile, come abbia conservato sulla pelle quella sensazione, ogni volta che trovo una cartolina nella cassetta della posta o che, pure, mi arriva una mail interessante, mi sembra di entrare nel pollaio, scacciare l’animale con la mano, sciò, sciò, e tirare fuori da sotto le sue penne quella cosa meravigliosa, fertile, così esplicita, maschile al singolare e, al plurale, femminile, ditemi voi se in questa regola di grammatica non c’è, tutto, il segreto dell’esistenza.

E poi le altre estati. Le iniziazioni sentimentali, gli amori, i pasticci, certe volte proprio i guai.
La lontananza dagli amici di sempre, quindi, le lettere, ne scrivevo e ne ricevevo di continuo, dunque, estate come scrittura.
La noia delle vacanze in montagna.
La fatica delle vacanze al mare.
Le case, mai accoglienti, mancava sempre qualcosa, meglio l’albergo.
Però, lì, era la casa a mancare.
I viaggi. Ho fatto viaggi bellissimi, ho visto tutta l’arte che volevo vedere in America, ho percorso itinerari letterari in Francia, che si concludevano regolarmente a Ferragosto a Parigi sulla tomba dell’autore, per ringraziamento di aver suggerito, con la sua vita, strade alternative.
Però, da che sto in professione, la felicità di tornare.
A me le vacanze mi scombinano più o meno sempre, ma c’è voluta un’intervista di una disegnatrice di fumetti che seguo per capire. Lei diceva che non le piaceva l’estate, che in vacanza si annoiava, e aggiungeva: succede a me come succede a tutti quelli che amano il proprio lavoro.
Ah, ecco, e io che mi ero data, di nuovo, della guastafeste, tutti che non vedono l’ora di partire, e io che non vedo l’ora di tornare.

Al momento, la mia idea di villeggiatura è: sveglia con comodo, mattina con calma, colazione lunghissima, toletta infinita, posso anche saltare il pranzo, torno a dormire di pomeriggio, vedo un film, se c’è nell’aria qualcosa di interessante, esco, vino, discorsi, passeggiate di notte senza guardare l’orologio.
Tanto domani si ricomincia, sì, ma con la vacanza.