Albrecht Dürer, Melencolia I, 1514

A parlare dei propri amori, si rischia di infilarsi in un tunnel, insomma, di non essere capaci a trovare le parole giuste, dunque di non essere all’altezza del proprio sentimento.
Ma procediamo con ordine.

Sere fa, era Carnevale, un professore d’orchestra del Regio di Torino, una donna, ma dire ‘professoressa’ fa tanto scuola media all’angolo, dichiara all’intervistatore durante l’intervallo che si è messa addosso qualcosa di mascherato perché non ne può più del nero, il nero è triste e la mortifica.

Lì ci sarebbe stato da risponderle come fece uno dei più noti corallari di Napoli all’amico che suonava al San Carlo e che si lamentava per faccende sindacali: ma stai zitto, stai in una delle orchestre più famose del mondo, dovresti dare tu i soldi a loro perché ti fanno suonare.
Tradotto: ma stai zitta, suoni in una delle orchestre più prestigiose del mondo, dovresti ringraziare tu il tuo teatro perché ti fa vestire così elegante, pensa come saresti dozzinale se tu potessi scegliere.
Inoltre, la signora avrebbe potuto intraprendere la carriera da solista, il solista si concia come gli pare, anzi, più si veste sgargiante, più si distingue.
Se non digerisci il nero, non stare in un’orchestra.

Edgar Degas, L’orchestra de l’Opéra, 1870

È così per tanti altri: i preti, le monache,  alcuni giocatori di rugby particolarmente selvaggi,  quelli che sono a lutto, gli esistenzialisti, gli anarchici, i motociclisti degli anni ’50, i punk, gli arbitri, i giudici, l’autorità, quindi, poi i vampiri e i romantici tutti.
Eccoci qui, bene o male apparteniamo a qualcuna di queste categorie.
Personalmente, mi sposto dall’una all’altra, un po’ qua e un po’ là, insomma, se non fosse perché poi me lo fanno notare, io mi vestirei sempre di nero, come diceva Baudelaire, ‘tutti noi celebriamo qualche funerale’, evidentemente è, questo, il mio stato d’animo perenne.
Guarire dalla vita in nero è come riprendere a mangiare dopo una fase di inappetenza: si introducono poco per volta piccoli bocconi di alimenti, leggi, piccole dosi di colore,  si procede per gradi perché si rischia a ogni passo il disgusto,  piano piano non dico che il guardaroba si infiamma e che la pancia si riempie, però a ciò si tende.
L’unico problema è il bicchiere che si concede l’alcolista che ha finito la cura per festeggiare il suo successo; è la sigaretta che chi ha smesso di fumare si accorda in un momento sensibile, si dice un sorso solo, una sola tirata e si ripiomba nell’abisso.
Medesima cosa per gli indumenti: averne lasciato sopravvivere qualcuno alla volenterosa opera di revisione del guardaroba, aver fatto ancora la pila di maglie, tutte morbide, con la scollatura che sta così bene quando incontra la pelle, e averla lasciata insieme alle altre, insomma, trovarsi il golf nero a portata di mano quando ci si veste, significa afferrarlo voracemente, metterselo addosso, guardarsi allo specchio, riconoscersi e dire fra sé e sé ma che vogliono questi, il nero mi sta benissimo, quasi quasi ricomincio.
In fondo e sommando tutto, la vita in nero è meno tossica del fumo e dell’alcol.

Le ho provate tutte.
In passato ho anche indossato un cappottino rosso con i bottoni dorati e ho avuto un tailleur in ottoman del medesimo stile e colore, però non so se me ne sono dimenticata o se c’era un’altra persona al mio posto.
A un certo punto ho fatto il passaggio al blu.
Missione compiuta, al punto che qualcuno ora pensa che esso sia il mio colore d’elezione. Si sbaglia.
Inutile chiosare che la maglia che prediligo fra le mie è un double face in cachemire di marca deliziosa blu e nero, che porto solo dal lato del blu, tenendomi, dunque, il mio colore amatissimo più vicino al cuore.
Però, come spesso accade con le ossessioni che ci tiriamo dietro, il nero, buttato fuori dalla porta, è rientrato dalla finestra: il nostro amico Michel Pastoureau, quello simpatico, quando si occupa dei colori del protestantesimo, che, a voler continuare il nostro paragone con il cibo, si è presto mostrato un corpo parecchio inappetente,  sottolinea come da subito, ovvero dall’inizio del secolo XVI, esso abbia istituito una cultura e un immaginario di un sistema cromatico interamente costruito intorno all’asse nero-grigio-bianco.
Nel XVIII secolo e ancor di più nel XIX ‘i valori del protestantesimo diventano quelli del capitalismo nascente, poi quelli della società industriale e alla fine quelli che si chiamano, nella cultura occidentale, i valori borghesi’.
Ecco che l’etica dell’abito scuro, soprattutto per gli uomini e soprattutto per le occasioni mondane eleganti, rimane un valore, sostituito al più, ascoltatemi bene, da una specie di valvola di sfogo, da un colore di rimpiazzo: la (in francese il colore è femminile, bello, no?) ‘bleu marine’.
Dunque, io con il mio passaggio al blu non mi sono inventata proprio niente.

Jonny Johansson, creatore di Acne Studios, l’uomo che ha reinventato i blue jeans

Perché anche la mia fedeltà ai blue jeans, che continuano a sembrarmi il capo di abbigliamento più geniale e versatile che si possa indossare, considerati dallo studioso un altro ‘indumento emblematico delle nostre società capitaliste’, un pantalone il cui colore è frutto della morale protestante anglo-sassone, rientra concettualmente nella predilezione per la categoria degli abiti scuri e moralizzati: i blue jeans come eredi della ‘culotte noire’ dell’Ancient Régime.
Insomma, non si scappa.

A fare la dieta cromatica, quella di cui vi ho parlato a proposito del bianco e che trovate qui, nel giorno consacrato al nero è possibile mangiare: spaghetti al sugo di seppia; riso Venere; caviale; tartufo; fagioli neri; rafano nero; liquirizia.
Capisco che come regime non sia del tutto invitante, però dura solo un giorno, e poi fa arte, che è la cosa più importante.
E, a proposito di arte, ci sono gli artisti che sono i veri e assoluti signori del nero, ve li metto in ordine cronologico.
Cominciando con Albrecht Dürer, a stare a sentire Erasmo, ‘l’Apelle delle linee nere’, a evocare il virtuosismo del mitico artista greco tradotto da lui nell’incisione, davvero l’apprezzamento più alto che uno studioso dell’Antico poteva fare a un suo contemporaneo. E di Dürer vi ho proposto in apertura una delle sue cose più belle, quella Melencolia I stracolma di significati simbolici ed esoterici, eppure così semplice da intuire e da apprezzare, visto che tutti vedono benissimo che si tratta di un ritratto metaforico dell’artista, che, nonostante il tuo grandissimo talento e la presenza delle ali, preda di uno stato d’animo che in arte, e non solo, si incontra così di frequente, non riesce a innalzarsi e, cupo e incupito proprio come il suo strano angelo, con la compagnia del cane ossuto e del putto che si affanna, sta lì a rimuginare, nero l’umore, nere le sue stupefacenti linee.
Frans Hals, il primo grande artista del Secolo d’oro olandese, quello insuperabile a restituire il senso della forza e dell’ottimismo che hanno espresso gli uomini della nuova Repubblica nel Seicento, ritrattista brillante come pochi, capace davvero di esprimere la vita dei suoi committenti, sposato due volte, con almeno dieci figli, sembra che non abbia lasciato nemmeno un disegno, o, meglio, ogni studioso sogna di trovare prima o poi e di farlo suo un cesto con gli schizzi preparatori dello straordinario maestro.

Frans Hals, Il banchetto degli ufficiali della Guardia di San Giorgio, 1616

E poi lui, il ‘peintre des peintres’, ossia il pittore dei pittori, il più grande della Scuola di Spagna: Diego Velázquez, eccezionalmente precoce, orgoglioso al punto da trattare alla pari, pur nel rigido cerimoniale della corte di Madrid, Filippo IV, più o meno suo coetaneo, due giovani uomini alle prese con la Storia che si ritrovano a condividere un destino, colui che fu capace di tornare alla natura e anche e soprattutto di guardare il mondo che aveva intorno con compassione e simpatia, davvero un umanista, per cui il re e il nano sono indagati con la medesima attenzione, una lezione esistenziale come poche, il realismo, la naturalezza, l’incanto, uno talmente grande da suscitare in noi un sentimento di ammirazione sconfinato, innamorato dell’Italia, caldo come piace a noi e a noi vicinissimo.

Diego Velázquez, Las Meninas, 1656, part.

Édouard Manet, ‘impeccabile seduttore, pittore nervoso, irresistibile in tutto’. È, questa, la parola giusta, perché è impossibile resistergli.
Un autentico ‘man about town’, ricco, coltivato, complesso, enigmatico, elusivo, libero da ogni costrizione tradizionale, non si ripete mai e si reinventa di continuo, ogni volta che vedo le sue ultime cose, realizzate in uno stato di salute che definire precario è essere gentili, mi struggo.

Henri Fantin-Latour, Ritratto di Manet, 1867

Voi prendete il suo dipinto del tramonto, autentica prova che l’arte non muore perché non è capace di morire, stanco, anzi, sfinito dalla sifilide, comunque ancora capace di prodezze, dà un addio al mondo che ama, quello della Parigi notturna, delle donne piene di fascino, delle luci, del divertimento e della città moderna, che in me risuona sempre come il ‘e non ho amato mai tanto la vita’ di Mario Cavaradossi, pittore pure lui, che si prepara a comparire davanti al plotone di esecuzione a Castel Sant’Angelo, come narrato nella Tosca di Puccini.

Èdouard Manet, Un bar alle Folies-Bergère, 1882

Una tragedia, questa e quella, fatti che di botto ci coinvolgono e ci buttano nella mischia pure se li osserviamo dalla poltrona di casa nostra.
Potenza dell’uno e dell’altro, l’eroe della pittura nuova e quello della musica moderna e noi lì, a guardarci nello specchio che ci porgono.

E, ancora, uno dei nostri artisti più grandi, fra gli italiani del XX secolo, probabilmente il più grande di tutti.

Alberto Burri, Grande Cretto Nero, 1978

Collocato nella medesima casa di Caravaggio e dei Caravaggeschi, ovvero a Napoli, a Capodimonte, il Grande Cretto Nero di Alberto Burri è una delle visioni più violente della pur violenta (in tutto, nei colori e nei sentimenti) città partenopea. Grande, sovrastante, tutto fatto di materia, ci si arriva alla fine del percorso museale, quando il contemporaneo incontra la storia e con essa si fonde.

Dante Gabriele Rossetti, Perlascura, 1871

Ho avuto una gatta nera, si chiamava Perlascura e aveva un’allure egizia, in foto veniva male, soprattutto quando dormiva, in tutto quello scuro non si vedevano i suoi occhi verdi e si perdeva l’orientamento. Credo che rimarrà la mia ultima gatta, almeno per il momento non torno sui miei passi, ho due pesci rossi in vasca e una chiocciola intermittente e bizzarra, voi capite l’incompatibilità dei caratteri.

E poi non scherziamo, l’unico inchiostro possibile è quello nero.

Guido Crepax che disegna se stesso che disegna Valentina

 

 

Per Henry Ford, l’uomo che aveva inventato una nuova religione, quella dell’industria, il Model T, che costava un quarto del prezzo della macchina più economica che l’America aveva messo in commercio dieci anni prima, aveva una larga possibilità di scelta: ‘You can have any color as long as it’s black’.

E Coco Chanel si era fatta la sua Ford personale, inventando da par suo l’abitino declinabile all’infinito, buono per tutte le stagioni e sotto tutti i cieli.

La Petite Robe Noire di Chanel e alcune delle sue possibili declinazione

E finiamo con Ettore Sottsass, il grandissimo architetto (per noi, il grandissimo designer) che nel 1961, malato di nefrite e ricoverato per quasi due anni in un ospedale della California, esce da questa esperienza guarito e cambiato. Del resto, come sarebbe potuta andare diversamente. E produce la sua serie di Ceramiche delle tenebre, vero  inno alla vita che si pensava perduta e che si ritrova, primordiale, nella sua sostanza originaria non appena si torna a vivere.

Ettore Sottsass, Progetto e realizzazione di una Ceramica delle tenebre, 1963

Chi ha mai parlato di nero? Dei capelli della messicana, di quel nero lucido, profumato di gardenie, di pettini, di nastri, di letti bagnati dal sudore della messicana? Chi ha parlato di tutti i neri sparsi come la benedizione, come l’incenso, come le nuvole, sparsi sulla periferia, sulle case, sugli uomini, sulle donne, sui bambini, sulle mani e nelle unghie dei minatori di carbone? Sparsi anche sulla cattedrale gotica. Chi ha parlato del nero delle pennellate giapponesi? Del nero di Bond Street? Del nero della Bentley lucidata e messa dietro i cristalli? Del nero delle calze sporche dei preti? Del nero della peste delle gondole?

Ecco, almeno e per quanto possibile, noi di qualche nero abbiamo provato a parlare.