Vincent, La camera da letto a Arles, 1888

Intorno ai miei dodici anni, avevo sofferto di non possedere in casa un angolo per me. Leggendo su Mon Journal la storia di una collegiale inglese, avevo contemplato con nostalgia l’immagine a colori che rappresentava la sua stanza:  una scrivania, un divano, degli scaffali coperti di libri; fra quei muri dai colori vivi, lei lavorava, leggeva, beveva del tè, senza testimoni. Come l’invidiavo!

Simone de Beauvoir, L’età forte

Vincent. Quella sì, che fu una mostra.
Nell’aria fissa e costantemente gelida di Amsterdam, nel museo intitolato all’artista, c’era praticamente tutta la sua produzione.
Da perderci la testa.
Nel centenario della morte, la terra natale festeggiava quel suo figlio santo e maledetto a un tempo, morto suicida in Francia, avendo dipinto solo una decina di anni, gli ultimi della sua vita e avendo lasciato una traccia luminosa come la coda di una cometa.
Difficile, non amarlo.
Alcolizzato, sifilitico, autolesionista, inquieto, certamente non matto, van Gogh voleva essere chiamato solo col nome di battesimo, come era stato con i grandi, Leonardo, Michelangelo, Raffaello, Tiziano, Rembrandt.
Infatti, lui così si firma: Vincent.

Oggi ci occupiamo di lui per un dipinto nel quale lui ci apre la sua anima.
Anzi, tre dipinti.
La camera da letto a Arles esiste infatti in tre versioni, quasi identiche.
La prima è quella che vi mostro in apertura, conservata ad Amsterdam, che si rovinò durante un’inondazione sopravvenuta nel corso dell’ospedalizzazione del pittore a Arles.
Dopo un anno, Vincent decide di farne due copie, una delle medesime dimensioni, oggi a Chicago, l’altra di taglia ridotta, oggi a Parigi.
Nella mostra al van Gogh Museum del 1990, le tre versioni erano esposte una accanto all’altra.
Inutile fare giù e su per le pagine di un catalogo.
Inutile fare giù e su per il mondo.
Esse stavano tutte e tre lì.
Finalmente.
Arles fu per Vincent un sogno e un progetto. Andò tutto storto, ma l’idea di fare della casa gialla un atelier del mezzogiorno e di vivere lì una vita di affetti è condensata nel desiderio, di cui l’artista parla in una lettera al fratello, di esprimere la tranquillità e la semplicità della sua camera attraverso i colori:  «i muri lilla pallido, il pavimento di un rosso rotto e sbiadito, il letto giallo cromo, i cuscini e il lenzuolo verde limone molto pallido, la coperta rosso sangue, la toletta arancio, il catino blu, la finestra verde».
Che lettera da pittore, intrisa di colore.
Lui vuole esprimere «un riposo assoluto», lo fa riferendosi alle stampe giapponesi che ama e che colleziona, alle stanze in esse descritte, così semplici, alle quali si ispira per la sua.
Che ha, d’accordo, quadri e mobili, ma che secondo lui è «una camera vuota, con un letto in legno e due sedie».
La prospettiva è instabile, come vista in sogno, ma la composizione è salda per via della rigorosa combinazione delle superfici colorate.
È probabile che questa sia la camera da letto più famosa del mondo e vi faccio notare che su quel letto, che sembra così stretto e destinato a ospitare una sola persona, Vincent mette però due cuscini accostati.
Vuole una donna.
E da questa donna vuole un figlio, per vivere con la donna e il figlio nella casa gialla di Arles che sta preparando per loro.
Come detto, tutto andrà storto, ci sarà l’autolesionismo, ci sarà il manicomio, ci sarà la smania di morire così come c’era stata quella di vivere.
Ma, questo lo dico sempre a lezione e alzo pure l’indice, e cito un critico che ha visto giusto, guai, guai a chi non fosse capace di vedere la gioia che c’è nei dipinti di van Gogh.
E in questa camera da letto, in questa camera ripetuta come in una serie o un’ossessione, di gioia ce n’è tanta.
Basta saperla vedere.
Come sempre, nella vita e nell’arte.

Virginia. Fra i più grandi letterati della modernità, Virginia Woolf pubblica nel 1929 un saggio basato su due «papers» presentate nell’ottobre del 1928. Troppo lunghe per essere lette in pubblico, esse furono rivisitate e approfondite.

Virginia

Il titolo del saggio, quello che oggi ci interessa, è A Room of One’s Own, di solito tradotto in italiano con Una stanza tutta per sé.
Anche se la parola inglese room indica sia la stanza che lo spazio che si occupa fisicamente.
E, mentalmente, lo spazio che si occupa nel pensiero di un altro.
A me capita spesso di dire che una persona mi abita, che è come dire che quella persona ha una stanza nella mia testa.
Nel saggio l’autrice immagina che Shakespeare avesse una sorella. Pari a lui per talento, pari a lui per genialità, ma con un lascito culturale radicalmente diverso.
Questa donna, frutto di immaginazione, non scrisse mai una sola parola e si suicidò, senza realizzarsi.
Se solo lei avesse trovato i mezzi per creare, lei avrebbe raggiunto le medesime altezze del fratello.
I mezzi per creare.
Ci arriviamo anche noi a capirlo, facilmente.
Una donna dovrebbe avere un’entrata fissa e una camera, room, tutta per sé per avere la libertà di creare.
Andrei più a fondo con la metafora. Sostengo che le donne hanno fatto letteratura prima di riuscire a fare scultura o cinema perché per scrivere occorre poco: anche un angolo del tavolo della cucina e un mozzicone di matita.
Vale a dire, la scrittura è economica, quasi gratuita, non si devono comprare la tela e i colori, non devi possedere una cinepresa o una macchina fotografica.
Le donne scrivono bene, proprio come gli uomini, quando gli uomini scrivono bene.
È probabile, però, che una donna per scrivere debba andare a scuola. E qui si aprono tanti discorsi diversi, per cui fino a ieri l’altro e, talvolta, fino a oggi, in famiglia è più facile che studi il figlio maschio e non la figlia femmina e che dunque sia il maschio a creare.
(Laddove la femmina crea diversamente).
Ma oggi io voglio parlare di camere, non di emancipazione femminile.
Per la quale Virginia Woolf è però un magnifico esempio.
Intellettuale raffinata, dotata tanto di logica quanto di fantasia, ha un catalogo di romanzi, racconti e saggi davanti ai quali c’è da inchinarsi.
Chissà da che cosa era abitata quel 25 gennaio del 1941, quando si riempì di pietre le tasche del cappotto e si immerse nelle acque, che immagino gelide, del fiume Ouse, nello Yorkshire.
Trovarono il suo cadavere dopo due settimane.
Lei scrisse delle lettere di addio, belle e strazianti.
Depressione, disturbo bipolare, non credo di poter dire di più di quello che hanno detto in tanti.
Solo, davanti al lungo elenco di titoli che scorro alla pagina Books by Virginia Woolf, prima del frontespizio del saggio di cui stiamo parlando, mi prende un moto di sconforto.
Penso agli altri suoi tentativi di suicidio, penso alla fatica di vivere, penso alla ricchezza della sua intelligenza.
E comunque, penso anche guai, guai a chi non fosse capace di vedere la passione per la vita che c’è negli scritti di Virginia Woolf.
Essa è visibile e vistosa.
Poi, si sa com’è, ogni tanto va tutto storto.

Martinus & Marius. Sto lavorando a due lezioni dedicate alla stanza che tutti dovremmo avere. Voglio occuparmi, nella prima, dello spazio profano, o laico, o mondano, chiamatelo come preferite; nella seconda, dello spazio sacro. È un pezzo che giro intorno al tema e questo confinamento mi ha dato finalmente l’occasione di affrontarlo.
Mi torna in mente la prima casa in cui sono andata a vivere da sola e in cui dopo ho iniziato una convivenza, fiorita in un matrimonio. Era una casa molto più bella di quella in cui vivo adesso, che comunque è una casa che mi sta bene, mi corrisponde e mi somiglia.
Mi chiedo quale sia la mia vera stanza al suo interno e mi viene subito in mente lo studio, nel quale io trascorro sempre e comunque molto tempo, insomma, il confinamento ha cambiato ben poco nelle mie abitudini.
Leggevo ieri che stare confinati a Bergamo non è come stare confinati a Posillipo.
Posso capirlo e sono d’accordo.
Perché ogni stanza ha un dentro e ha un fuori e il fuori è rappresentato dalla sua apertura sul mondo.
Poi, bisogna vedere come è il fuori della stanza di Bergamo e se per caso il fuori di quella di Posillipo non rischi di venire a noia.
Comunque l’affaccio di una stanza è tanto importante quanto la stanza stessa.
Dunque, ragioniamo un momento anche sulla finestra, argomento che da solo potrebbe generare qualche altra lezione. E non è detto che non lo faccia.
La mia finestra prediletta nella mia casa è quella del guardaroba: è una finestrina piccola che affaccia sul retro, per trovare la maniglia della quale, rigorosa ma bella e, soprattutto, proporzionata alle sue dimensioni, ho impiegato un sacco di tempo.
Le altre finestre hanno ancora le maniglie originali degli anni ’30, che stanno benissimo. La finestrina è stata fatta in seguito, quindi ha richiesto un’attenzione speciale.
Il suo davanzale esterno è molto profondo e occupa tutto lo spessore della parete del palazzo. Su di esso ho messo un cilindro di vetro con dei sassi e una candelina, che accendo tutte le sere quando scende la notte.
Le prime volte andavo anche a guardarmela dalla via che c’è sul retro della mia casa. La luce era minimale ma io sapevo che c’era e questo era l’importante.
Questo per quanto riguarda la mia finestra prediletta in casa mia.
Nella storia dell’arte, la mia finestra prediletta, eccovela.

Martinus Rørbye, L’abitazione dell’artista a Amaliegade, 1825

Lascio la parola a Mario Praz per la descrizione: «La maliosa veduta del porto e delle navi è la voce del mondo, dell’avventura, del sogno, a cui rispondono dal davanzale i fiori addomesticati nei vasi, l’ortensia, le piante grasse (una protetta da un tubo di vetro), l’uccellino addomesticato nella gabbia, il piede fermo per sempre nel calco di marmo».
Eccolo, il dentro e il fuori. Fuori come avventura e sogno; dentro come piante e uccellino addomesticati.
Martinus Rørbye è danese e il suo atelier è a Copenaghen.
Viene anche in Italia per un viaggio di formazione e si ritrae a Roma, dove la luce deve essergli sembrata così calda.
Così come a me la luce danese è sembrata così fredda.
E i viaggi alla ricerca della luce continuo a pensare che siano molto belli.
Chissà se ne faremo più, di quei viaggi.
In questi giorni in cui non è ragionevole fare nessun progetto, in cui le date, di apertura, riapertura, chiusura e richiusura, si affollano, in cui in tanti cercano di interrogare il calendario chiedendo continuamente quando, quando si torna a fare questo e a fare quello, e in tanti hanno, abbiamo, il sentimento che niente sarà più come quello che è stato (e qualcuno ne è anche contento perché quello che è stato aveva un sacco di aspetti che andavano corretti), in questi giorni di chiusura obbligata in una stanza, mi prendo il tempo di farmi i fatti degli altri.
E ieri sera, anzi, stanotte, ho passato una ventina di minuti a scorrere le confessioni sotto forma di commenti di tante persone che, come faccio io, seguono uno scienziato umanista che, finora, ha visto giusto e ha detto le cose che c’erano da dire.
Ieri lui ha chiesto ai suoi interlocutori che cosa mancava loro.
Domanda che, qui e là, vado facendo anch’io.
Nessuna delle risposte mi corrispondeva.
Al momento, ho riguardato, i commenti sono 263.
Alle persone mancano: gli affetti; le passeggiate nella natura; la possibilità di abbracciare i genitori anziani; i viaggi; l’interazione diretta con le persone;  alla barista mancano i clienti e il loro raccogliere con il cucchiaino l’ultima goccia di cappuccino (immagine che trovo molto poetica); la bicicletta; la verdura dei contadini; le uscite con gli amici; la colazione al bar; la serenità; a una signora mancano i soldi che guadagnava il marito (vedi sopra, paragrafo Virginia); i concerti; fare la spesa; le mostre e i musei.

A una mia studentessa, da me interpellata ieri on line, mancano gli aperitivi in spiaggia con gli amici.
Posso capirla, a vent’anni gli amici sono importanti.
E pure gli aperitivi.
Quelli, anche dopo.
In certi casi, anche gli amici.
Mancano e sono importanti.

Non sono intervenuta ad arricchire la discussione perché mi sentivo fuori luogo.
Perché a me mancano, nell’ordine: quel narciso del mio parrucchiere; quella squisita ragazza della mia estetista; il tecnico del rubinetto, che mi dovrebbe cambiare il gruppo del lavello della cucina, almeno, ordinarlo e oggi ho scritto alla ditta e ho detto che così non andava bene, che il responsabile della sede di Roma non poteva staccare il cellulare perché io sto sprecando un sacco di acqua e lui dovrebbe almeno rispondermi e dirmi almeno quando; il tecnico della televisione, perché la mia televisione è spenta da ormai una ventina di giorni e non posso più vedere i miei film come ero abituata a vederli, con comodo, in una stanza grande e sulla mia poltrona.

Insomma, differenza di vedute.
Vedute differenti.
Un po’ come quello che si vede dalla finestra di Bergamo che differisce dalla finestra di Posillipo.

E poi, che ne so.

I miei sentimenti, questo sì, sono esacerbati, me ne accorgo benissimo.
Mi arrabbio più facilmente del solito.
Insulto la radio, che manda programmi penosi (quasi tutti).
Ho avuto un paio di chiarimenti con delle persone solo perché i chiarimenti me li hanno chiesti.
Io non avrei chiarito per niente. Ma che chiarisci a fare.

Con la ragazza rumena che mi aiuta in casa stiamo facendo le pulizie di primavera.
Certo, lei non tocca i miei bicchieri.
Però ha pulito a fondo tutti gli armadi della cucina.
E si occupa delle mie stanze.

E parliamo.
E lei mi racconta.
E le do dei libri da leggere, molti dei quali li sta leggendo il suo compagno, che è uno che faceva le consegne e che adesso lavora solo due giorni a settimana e che, l’ha scoperto pure lui così come l’ha scoperto la sua ragazza e così come l’ho scoperto io, ama leggere romanzi.
E da un pezzo, in questo senso, non mi divertivo tanto.
Mando a Marius i miei romanzi prediletti, se possibile, cose italiane, altrimenti, tradotte e lui chiede e vuole altro.
Da dieci anni, a ventotto anni, non prendeva in mano un libro.
Quasi non credo a questo racconto.
Magari succedesse ai miei studenti.

Stare confinati nella loro stanza e leggere.
Ovvero e a piacere, avere delle cose da fare, studiare, scrivere, creare, approfittare del confinamento per occupare il proprio spazio con qualcosa di bello.

E poi, d’accordo, riparliamo di passeggiate nella natura, viaggi, cappuccini e soldi.

Ma non di parrucchiere, estetista, tecnici dei rubinetti e della televisione.
(Su questi argomenti non scendo a patti).
Ognuno ha le mancanze che può.

E ognuno sente le mancanze che vuole.