Touchée.
Tempo fa faccio una visita guidata alla mostra di Dürer alle Scuderie del Quirinale per un gruppo di giuristi a Roma per un convegno. A esso volevano aggiungere qualcosa di culturale.
Alla fine della visita un giovane avvocato mi prende in disparte e mi fa: «Ma dottoressa, lei questo Dürer lo ama di amore carnale».
Se fossi timida, sarei sprofondata all’istante.
Non sono timida, dunque risposi in qualche modo, non mi ricordo come, fatto sta che mi resi conto che la mia tresca era venuta alla luce e che tutti  ormai sapevano.
Da allora, excusatio non petita, premetto il raccontino ogni volta che affronto il discorso dell’immenso artista tedesco.
Pura legittima difesa.
Come si dice dalle mie parti, chi mena per primo, mena due volte.
E chiudiamo questa parte del discorso.

È l’Adamo più bello della storia dell’arte. Vibrante e anelante, fu eseguito al ritorno dal secondo soggiorno italiano dell’artista.
Albrecht Dürer è il massimo rappresentante dell’arte del Rinascimento  in Nord Europa.
Figlio di un orafo, dovette ereditare dal padre la capacità di soffermarsi in modo meticoloso sul dettaglio. Se guardate le sue incisioni, apprezzerete la definizione che dette di lui il suo amico Erasmo. Chiamandolo «l’Apelle delle linee nere», formulò un commento di portata inarrivabile, tracciando un parallelo con il più grande pittore della Grecia antica.
Dürer è un umanista. Dunque viene in Italia due volte, accolto nel secondo viaggio con gli onori che merita e rientrando da Venezia con una conoscenza del nostro Rinascimento che si esprime soprattutto in un nuovo senso del colore e nel controllo delle proporzioni e dell’armonia.

Albrecht Dürer, Adamo e Eva, 1507

Il pannello con Adamo è giustamente completato da quello con Eva.
Le due figure esprimono la sintesi di quello che l’artista ha appena imparato e l’equilibrio da lui raggiunto nel mettere insieme la cultura italiana di arrivo e quella tedesca di formazione. Il risultato è un inno allo splendore del corpo umano, che qui si manifesta in tutta la sua perfezione.
Dürer ha una conoscenza prodigiosa dell’anatomia del nudo antico, le due figure sono un po’ l’essenza del maschio, proporzionato, scattante, ritratto in un movimento che sembra derivare dal desiderio, e della femmina, morbida, con le rotondità al punto giusto, magnifici i seni, un vero porto di attracco il grembo, occultato, meglio, segnalato dalle foglie del melo che lo proteggono.
Capiamo facilmente che il soggetto biblico è un pretesto e che l’artista mira ad altro. C’è il serpente, sì, e sappiamo pure come va a finire, però il momento della presentazione dei due si fa eterno e supera pure il racconto, le figure sono monumentali, lui ha pochissimi peli, ma vene e muscoli in rilievo, i capelli ricci sono agitati dal vento, lei è un concentrato di tutte le bellezze femminili, dalla bocca alla grazia dei piedi, questi due sono amanti, fratelli, questi due sono usciti dal medesimo pennello, che i restauratori, intervenuti da poco, descrivono come miracoloso.
La poca natura esistente, fatta di un albero, di due frutti e di sassi, è di matrice squisitamente tedesca, accurata nella descrizione, precisa nelle linee, quasi un sobrio inventario che illustra l’ambiente.

Voi sapevate che fra uomo e donna ci sono (da sempre) delle tensioni? Vi è mai capitato di trovarvici dentro?
Ecco, appunto. Anche se, a parlare di sentimenti, forse il termine odio non sarebbe il primo a venirvi in mente.
Ce lo suggerisce esplicitamente però Félix Vallotton, svizzero naturalizzato francese, che quando fu omaggiato in una magnifica mostra al Grand Palais fu molto ben descritto dal titolo: Le feu sous la glace, più o meno il fuoco sotto il ghiaccio.
Sotto il ghiaccio, poi, il fuoco avvampa.
E pure qui ci siamo, data la superficie liscia come il pack artico delle sue forme. Amico di Bonnard e di Vuillard, espone più volte con i Nabis, quel bellissimo gruppo di artisti che si erano dati il nome ebraico di profeti e che rendono, se possibile, ancora più interessante la fine di un secolo e l’inizio di un altro.

Gente moderna, metropolitana, che non manca di spiritualità e di interesse per le arti applicate e la decorazione.

Félix Vallotton, La Haine, 1908

Quando Vallotton si mette a descrivere la sua relazione con l’altro sesso, prende anche appunti sul suo Journal, il suo diario: «…che cosa ha fatto l’uomo di così grave perché gli tocchi subire questo terrificante associato che è la donna?».
Signore e signorine, eccoci sistemate. Tutte.
Il dipinto si intitola proprio L’odio e mette in scena un uomo e una donna nudi a grandezza naturale.
Fra loro non sembra correre buon sangue.
Nonostante l’evidente richiamo ad Adamo ed Eva, qui sembra proprio che i due, fatta l’esperienza della conoscenza, non vogliano più saperne uno dell’altro.
Chiuso lui a qualunque confronto: braccia conserte, tutto muscoloso, diremmo, robusto, pure con i baffi che sono l’unico elemento che ci segnala l’epoca di esecuzione.
Aggressiva e pronta a colpire lei, che a fatica contiene la sua rabbia. Anche in questo caso, è l’acconciatura a dirci che siamo ai primi del Novecento.
Questi due il Paradiso lo hanno perduto e si sono ritrovati faccia a faccia.
Perduta anche ogni bellezza, i corpi stanno lì, accampati su un fondo nero e grigio senza alcuna preoccupazione di carattere estetico.
Di erotismo nemmeno l’ombra. Solo conflitto, solo dissonanza.
Le linee di contorno dei nudi diventano un arabesco che però non unisce proprio niente; non c’è pace, non c’è armonia, fra uomo e donna solo la contrapposizione è possibile.
Noi siamo messi di fronte a uno specchio implacabile, che ci riporta ai momenti peggiori della nostra esistenza, alle incomprensioni, al muro contro muro, a una rottura che diventa auspicabile.
Aggiungete a tutto questo l’intimità violata, esposta sia nella nudità che nella collera, che invadono, entrambe, il nostro spazio, che è pubblico, perché noi siamo spettatori di una scena che si sta svolgendo sotto i nostri occhi.
Ma, i panni sporchi, non si lavavano in famiglia?
Il titolo è allegorico, d’accordo, dunque potremmo quasi allontanarci nella speranza di trovare pace nella storia dell’arte e in tutti i suoi, infiniti soggetti, però siamo violentemente riportati all’evidenza dall’impatto fotografico del dipinto, la sfida fra i due è lanciata e nemmeno noi possiamo sottrarci.

E questi due, come se la passano?
Eccoci ritrovati ancora una volta nel ruolo del voyeur.
Ma qui siamo tenuti a distanza.
Anche questi due sono nudi e sappiamo dal titolo che sono una coppia.

John De Andrea, Coppia, 1971

Ce li troviamo davanti così come sono stati realizzati, a grandezza naturale, dipinti ad acrilico su poliestere, con i capelli sintetici, gli occhi in vetro e i peli pubici, così come recita la loro scheda. L’autore, John De Andrea, è uno scultore iperrealista, disturbante come tutti quelli che appartengono a questa categoria.
Parte da modelli viventi e realizza dei calchi, dopo di che procede nell’accurata descrizione della loro anatomia. Per esempio, dipinge la pelle, che ha analizzato accuratamente, a più strati.
Qualcosa in queste figure provoca in noi un’ondata di emozioni diverse: c’è l’illusionismo del corpo, c’è l’immobilità della posa, abbiamo attraversato la frontiera fra realtà e finzione e ci sentiamo smarriti.
Non c’è movimento.
C’è comunicazione?
Certamente non fra loro e noi e, mi viene da pensare, nemmeno fra loro due.
Lei è appoggiata al muro e tiene gli occhi bassi, le mani sono dietro la schiena, il corpo è completamente offerto.
Lui ha un unico gesto di contatto ed è quel braccio appoggiato al muro contro il quale sta lei.
Hanno litigato?
Si sono appena conosciuti?
Faranno l’amore?
Difficile dirlo.
La carriera dell’artista, un vero creatore di creature, è punteggiata di corpi, non solo di coppie ma anche di donne, certe volte messe in atteggiamenti erotici, almeno secondo lo sguardo erotico di un uomo.
Incontrate qui e là, sembrano un po’ delle bambole gonfiabili, di quelle costose, però, che riproducono perfettamente una presenza femminile.

Un simulacro dei nostri tempi, ridiscesi sulla terra dopo essere passati per l’idealizzazione del corpo inseguita dall’Antico, dal suo recupero rinascimentale, dalla deviazione della modernità, che rivela il conflitto, esprime la violenza dei sentimenti di disaccordo e approda a modo suo, così come fa l’arte, che parla sempre del suo tempo, al racconto di ciò che siamo noi, maschi e femmine, messi contro un muro, gli uni e le altre.
Forse mi sbaglio, ma questi artisti che generano figure umane usando i trucchi del cinema mi danno sempre l’idea della fatica dei discorsi, del timore del guardarsi negli occhi, della fuga in un mondo parallelo che si costruiscono loro, che sono così tecnicamente bravi, ma che esprimono una solitudine che sembra impenetrabile e che non promette niente di buono davanti a quelle presenze così apparentemente semplici, così quotidiane, così inevitabili che sono un uomo e una donna.