UNITED COLORS, 3: CON IL NASTRO ROSA

L’hors-d’oeuvre: Diego Velázquez, Venere Rockeby, 1650, part.

Con il rosa, la prima cosa da fare è togliere di mezzo Barbara Cartland, Barbie e l’industria tossica che hanno messo su, l’una e l’altra.
Fatto.
E ora possiamo occuparci seriamente di uno dei colori più belli della nostra tavolozza.
Fra l’altro, io, il rosa, ce l’ho nel nome, dunque ci ho fatto amicizia.
Mi piacciono pure i profumi che hanno sentore di vaniglia, quindi, mi pare di aver capito che nella vita qualcosa di dolce si può pure esprimere, e tutto senza cadere nella melassa.

È sempre una questione di equilibrio e l’equilibrio del rosa, audace quanto niente altro per ciò che abbiamo detto, ce lo suggeriscono ancora una volta gli artisti.

Diego Velázquez, Venere Rokeby, 1650

YSL, Haute Couture, 1983

Rosa e nero sono i colori di Baudelaire (‘Le charme inattendu d’un bijou rose et noir’,  ‘il fascino inatteso di un gioiello rosa e nero’, Lola de Valence) e c’è pure qualcun altro che apprezza il medesimo accostamento.

YSL, Omaggio a Jean Cocteau, 1980

Yves Saint Laurent, che ha usato il colore  senza averne paura, dedica anche un omaggio a Jean Cocteau, ricamandone i versi rivolti al sole su un Evening Ensemble: ‘Moi je suis noir dedans et rose dehors’, ‘Io sono nero dentro e rosa fuori’.
Abbiamo bisogno di ulteriori rassicurazioni?
Michel Pastoureau si chiede se il rosa sia un colore a sé o se non sia un mélange di rosso e di bianco.
Ci racconta inoltre che per lungo tempo i rosa fabbricati per la pittura e le stoffe non erano all’altezza di quelli che, invece, produceva la natura senza sforzo e che la tintura a base di legno di brasile (brasileum), preziosa e costosa e importata dalle Indie e da Sumatra, aveva solo parzialmente risolto il problema perché rimaneva fragile.
Quando si scopre un legno molto simile nell’America del Sud, che, fra l’altro, dà anche il suo nome al Brasile, si diffondono toni di qualità migliore. E siamo fra il XVI e il XVIII secolo.
Ne ha certamente approfittato Giovan Battista Tiepolo, ‘l’ultimo soffio di felicità in Europa’, cui Roberto Calasso ha dedicato un gran bel libro, che appunto si chiama Il rosa Tiepolo,  sospeso fra filologia e invenzione.
Vi propongo un esempio con l’Europa, che fa parte della decorazione per la Residenza di Würzburg (1752-53) e che illumina lo scalone d’onore con un’autentica sinfonia di rosa.

Giovan Battista Tiepolo, Europa, Würzburg, 1752-53

Vi invito a guardare qui, un po’ a sinistra, un’immagine simbolica e concettuale, La Pittura che dipinge il mondo, e lo fa letteralmente, con la tavolozza e il pennello su un globo. Idea fantastica, che solo a un pittore, il più grande del secolo XVIII, colui che porta alle estreme conseguenze tutta la tradizione dell’arte italiana, poteva venire in mente.
Ve lo presento anche nel suo Autoritratto con il figlio Giandomenico, che lavorerà molto con lui ma che farà anche cose diverse, che sembrano appartenere a un’altra epoca, più o meno quella nostra.

Giovan Battista Tiepolo, Autoritratto con il figlio Giandomenico, 1752-53

Il figlio, dall’alto dello Scalone, guarda noi. Il padre, no. Lui guarda quello che ha dipinto, e già qui sta la differenza, un uomo ‘tutto fuoco e spirito’, immerso in un universo che noi possiamo ammirare solo dall’esterno, e un altro, più giovane e più disincantato, sia pure per forza di cose, che cammina al nostro fianco.

Antoine Watteau, Gilles, 1719

Vi avevo già presentato le scarpe del Gilles di Antoine Watteau come le più belle della storia dell’arte. Siccome hanno il nastro rosa, entrano en fanfare in questa nostra piccola rassegna.
Opera enigmatica, la più monumentale di un artista che si era dedicato quasi solo al piccolo formato, Gilles forse nasce come insegna per un caffè. E forse è un autoritratto: poetico, triste, immobile, accompagnato da alcune maschere della Commedia dell’arte, che rendono ancora più stranita la scena. La figura del Pierrot si staglia contro il cielo, gli altri, asino compreso, quello del dottore, stanno immersi nel fogliame.
Watteau muore troppo presto, anche lui a 37 anni, come tanti altri artisti, fa e annuncia cose nuove e non assomiglia a nessuno dei suoi contemporanei: in un momento storico di agitazione, lui esprime languore, inattività e anche uno squisito erotismo.

A proposito di Eros, abbiamo aperto questo articolo con la Venere di Velázquez, l’unico nudo di tutto il suo catalogo. Anche di fronte a questa schiena meravigliosa e al volto di lei che ci guarda riflesso nello specchio, abbiamo molto da imparare: meglio una sola cosa, ma fatta benissimo, tale da sfidare tutto il resto, uscendone vincente.

Uno che ha avuto un intero, anche se breve, periodo rosa è Picasso.

Picasso, Famiglia di saltimbanchi, 1905

Dal 1904 al 1906 l’artista mostra un evidente interesse per questo colore, saturandone la sua produzione. Folta, fra l’altro e ancora una volta, di gente, come la chiamiamo, non allineata, acrobati, saltimbanchi, miserabili.
Si sentiva vicino a loro, il maestro?
Certo, non erano tempi facili. Però è strano come in uno degli artisti più vitali ed esuberanti che annoveri la storia dell’arte, 92 anni di  ricerca e di cambiamenti, certo, un po’ di infanzia l’ha vissuta anche lui, ma il suo talento era tale che funziona la leggenda secondo la quale la sua prima parola sarebbe stata lapiz, matita, però è strano, dicevo, che uno scuro sentimento di tenebre si stenda un po’ dappertutto.
Un altro grande malinconico, contrariamente alla voracità esistenziale dimostrata senza alcuna inflessione, non era lui a dire che gli spagnoli la mattina vanno in chiesa, il pomeriggio alla corrida, la sera al bordello e che fra questi tre luoghi il comune denominatore è la tristezza?

Questo Autoritratto a carboncino su carta grigia del 1900 sembra confermarlo.
Ma guarda tu, un altro che al rosa unisce il nero, dentro e fuori, sembra che non ci sia scampo.

 

 

 

Vi faccio omaggio di una Coppa di rose di Fantin-Latour, il più grande ritrattista di fiori di tutti i tempi.

Henri Fantin-Latour, Rose in una coppa, 1882

Guardate che bella la Pink Bag iconica di Acne, completa pure di nastri.

 

 

E guardate che albergo si è inventato Wes Anderson, un vero luogo mitologico, nel quale tutto può succedere. E, infatti, nel suo film succede di tutto.

Maquette per The Grand Budapest Hotel, 2014

Non so dirvi lo stupore che provai quando, tutta intrisa di quel film, che avevo già visto une ventina di volte, mi ritrovai in una mostra a Londra davanti a un’opera di Joseph Cornell, artista singolare, pioniere del collage e dell’assemblage, uno ‘che preferì il biglietto al viaggio e la cartolina al posto’ e produsse Shadow Boxes, scatole piene di riferimenti a località mai viste, alberghi dove non era mai stato, donne amate e mai incontrate, fosse pure perché erano ballerine del secolo precedente.
In chiusura della mostra, protetto da una teca che accentuava il sapore di favola, c’era un edificio che, ne fui certa, aveva visto Anderson prima di dare vita al suo albergo.

Joseph Cornell, Pink Castle, 1945

Oppure ero io che mi portavo dietro quel fantasma e lo vedevo dappertutto, va’ a capire.

E ora una storietta privata, che racconto perché è passato del tempo, perché qui ci sta proprio bene e perché un blog è uno spazio personale che si frequenta aprendosi a possibili cadenze confessionali.
(Almeno mi auguro che questo sia il vostro stato d’animo).
Dunque. Tempo fa ero triste e avevo bisogno di distrarmi. Ero inoltre infastidita dal tono demenziale dei messaggi che mandavano gli ascoltatori all’Uomo della radio. Nel tentativo di sollevarmi l’umore, cominciai a mandargli anch’io degli sms, di stile, però, diverso, che lui impiegò ben poco a distinguere dal mucchio.
Lo sventurato rispose.
E io accentuai il mio passatempo, proponendogli per esempio di passare da me dopo la trasmissione, avevo una bottiglia che lo aspettava e mi sentivo tanto sola.
Dopo un paio di sere, lui mi telefonò. Anzi, mi telefonò più volte in una medesima sera, visto che stava lavorando e interrompeva i discorsi per tornare alla diretta.
Cominciò a farmi delle dediche, che afferravo solo io, nessuno avrebbe potuto sospettare che una persona così seria e competente si inventasse delle fanfaluche per intrattenere una donna.
La più carina degli inizi, d’accordo, presa in prestito da Edgar Allan Poe, raccontava di un musicista morto precocemente, sulla cui tomba un’ignota mano femminile aveva deposto un fiore con un biglietto che diceva così: ‘Da Rosa, studiosa romana delle Belle Arti’.
Cominciammo una corrispondenza privata, io gli scrivevo la sera quando lo ascoltavo, lui mi rispondeva alle tre del mattino, raccontandomi della sala di casa sua, dove era seduto al pianoforte cercando di lavorare.
La serie delle dediche proseguì per mesi, con invenzioni continue e pirotecniche, era un uomo molto brillante, del resto, se non lo fosse stato, la faccenda si sarebbe sgonfiata, ripiombando su se stessa come un soufflé, molto presto.
Trovava rose dappertutto: nella lirica (La Traviata: ‘Addio del passato bei sogni ridenti, le rose del volto già sono pallenti...’; Il Trovatore: ‘D’amor sull’ali rosee vanne, sospir dolente…’); nella madonna (Rosa Mistica); nelle canzonette più deliranti (‘O Giorgio! Giorgio! Una notte con la luna! Una barca! Il lago! Le montagne! Le palme! L’argento! Rose! Mimose!’).
Ci incontrammo due volte, rigorosamente in pubblico, in situazioni per lui professionali: la prima volta, lui era a un tavolo con altre persone, gli feci cadere davanti un cioccolatino, indovinate quale; la seconda, durante la presentazione di un concerto, lo raggiunsi un attimo prima che accendesse il microfono e gli consegnai una busta con dentro due cartoline, un fiore e la mia opera preferita di Jean-Léon Gérôme, che lui conosceva, proprio perché era un uomo coltivato a dovere.
La vicenda finì come doveva finire, malamente, con lui che partì per tre settimane di vacanza in un posto a basso costo con la moglie rompiscatole e la figlia adolescente cicciottella e io che feci un viaggio che assomigliava a un naufragio.
Tornai appena possibile alla vita normale.
Non fu facile, mi accorsi, però, che avevo imparato tantissimo: la mia scrittura si era arricchita di inflessioni di cui non sospettavo nemmeno l’esistenza e avevo trovato nel mio nome motivi inesplorati con i quali fui costretta a venire a patti e che, intuivo, prima o poi si sarebbero rivelati utili, per esempio quando avessi avuto a che fare con qualche riflessione sul colore che il mio nome aveva dentro.

Vi sono grata se vorrete mantenere il senso dell’intimità della mia narrazione.

E vi saluto con una cosa bellissima, la performance divisa in tre parti  Impossible Wardrobes, che ha curato Olivier Saillard, scrittore, autore, storico dell’arte e della moda, performer e intellettuale creativo e poeticissimo, con la complicità di Tilda Swinton, utilizzando la straordinaria collezione di Palais Galliera, il luogo storico per antonomasia della moda di Parigi.
Gli abiti, ricondotti in vita e maneggiati con tutta la delicatezza che richiede un’opera d’arte, sono ‘portati’ (anche in italiano funziona il doppio significato) dall’attrice, che, con i guanti che proteggono mani e indumento dal reciproco contatto, li tocca come se fossero delle reliquie, imparando i gesti professionali dei curatori e inventandone di nuovi, ‘casti o romanzeschi’, dando ai pezzi eccezionali un’ulteriore e incantevole possibilità di esistenza.
Scelgo per voi questo momento rosa della performance, completo di nastri neri, che scambiano i termini della questione e ci riconducono ai motivi d’inizio.

Tilda Swinton per Olivier Saillard, 2012

E, ringraziandovi per la lettura, vi offro un’invenzione tutta in rosa, diventata un grande classico, capace oggi come ieri di farci sorridere e di avvincerci.

4 Comments

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  1. Bellissima lettura.
    Peccato che l’uomo visto da lontano in rosa so sia rivelato da vicino di un deludente grigio.
    Ti auguro un incontro con qualcuno che mantenga le promesse.

    • Caterina cara, il ‘grigio’ è in arrivo e quel ‘rosa’ là è stato, comunque, pieno di risvolti e di anfratti, spesso belli. Non ti auguro la medesima cosa perché non ne hai bisogno. Però, e comunque, ti stringo forte forte in un abbraccio tutto nostro. E della tua lettura, ancora una volta, ti ringrazio

  2. Meglio così allora.
    Resto in attesa del grigio e, anche, della tua prima regola esistenziale. Della seconda ne ho fatto tesoro, sono certa che anche la prima mi sarebbe estremamente utile. Spero vorrai svelarla quanto prima, magari in questo tuo bellissimo spazio.
    Ti abbraccio

    • Rosella Gallo

      1 marzo 2018 — 11:49

      Grazie, il grigio arriva presto e vedrai, Caterina cara, che è meno grigio di quanto non sembri

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