Come in quei film noir d’autore, hai una cosa sotto il naso e non la vedi perché è un po’, ma solo un po’, nascosta.
Stava lì da sempre, insomma, da quando sto io in questa casa ed è evidente che stava pure sotto il naso di coloro che in questa casa hanno vissuto prima di me.
A mia parziale discolpa, cito il mio vecchio idraulico, ormai andato in pensione, che, mi ricordo benissimo, fermò l’imbianchino che stava facendo i lavori e che aveva provato a togliere la vernice con il raschietto dicendogli che se fosse stato in lui non l’avrebbe fatto.
Mi ricordo benissimo perché ero anch’io presente e mi preoccupai.
L’idraulico aveva molta esperienza e sapeva quello che diceva.
L’idraulico si intende di acqua, acqua fredda e acqua calda.
Quest’ultima, quella che circola nei termosifoni.
Poi, però.

Altra corsa, altro giro.
Pittore, ovvero imbianchino nuovo.
Che, visto che ho anche cambiato idraulico e che comunque qui l’idraulico non era previsto, si è messo in testa di togliere gli infiniti strati di vernice al termosifone della mia stanza da bagno.
E nessuno lo ha fermato.
Tantomeno io, che ormai volevo vedere che cosa c’era sotto.
E che sono felicissima di questa scoperta.

Sto in questa casa da un po’.
È casa mia, con il mio nome sulla targhetta di ottone fuori dalla porta.
La conosco, ci sto bene, ne sono gelosa, ci faccio entrare pochissima gente.
La casa è dans son jus, ovvero ha conservato tutto quello che è stato possibile conservare dalla sua costruzione, che data al 1937: gran parte dei pavimenti, infissi, serramenti, maniglie, battiscopa, stucchi, lì dove c’erano.
Altri stucchi, ma pochi e molto lineari, sono stati aggiunti in guardaroba, perché ci stavano bene e perché si armonizzavano con il resto.
E sono stati conservati tutti i termosifoni di origine, compreso quello del bagno, piccoletto e niente di che, che a me, che sono freddolosa, è sempre sembrato insufficiente e che con sufficienza ho sempre guardato.


Fino a che il pittore, dopo alcune ore di lavoro, non mi ha chiamato per farmi vedere che cosa aveva trovato.
Un oggetto in ghisa, all’improvviso bello, qualcosa di molto simile a un tesoro, per il quale non era servita una mappa perché il tesoro manco era sepolto.
Questa era la condizione del termosifone dopo mezza giornata di lavoro e io ho anche detto che già così andava bene.
Ma era possibile arrivare a uno stadio successivo con uno sverniciatore e io ho detto ancora meglio.
Il risultato, alla fine di un’altra mezza giornata di lavoro è quello che vedete nella foto di apertura.

Roma, «Nasone» SPQR, foto Andrea Di Carlo

Ghisa, per la Treccani: lega ferro-carbonio di solidificazione eutettica, con tenore in carbonio tra 1,9 e 6,5%. (Eutettico = miscuglio di due o più sostanze che presenta un punto di fusione o di solidificazione…più basso di quello dei singoli componenti).
Ghisa, per me: uno dei materiali più suggestivi che conosco, l’incarnazione della modernità, il senso profondo della città. Lampioni, tombini, cesti per la spazzatura, scale a chiocciola, balaustre.
E le fontanelle di Roma, i Nasoni.
Mai visti nasi più belli.

Sandro Veronesi è uno simpatico.
Non fosse che perché una volta ha detto una cosa di importanza capitale: basta con tutti questi puntini di sospensione, che ce li mettete a fare e in ogni caso la tastiera dovrebbe avere un tasto con soli tre puntini, non uno di più, cosa che impedirebbe l’utilizzo smodato e sbagliato del tasto con un punto solo.

Sandro

Geniale.
Lui è uno che scrive libri.
E non è che tutti coloro che scrivono libri in Italia siano degli scrittori.
O abbiano delle idee.
Ne parlavo ultimamente con un tipo, intelligente, che però sosteneva che quello là che ha venduto otto milioni di libri è uno che fa letteratura.
Gli ho detto, come diceva mio nonno quando non era d’accordo con qualcuno o qualcosa, al tempo.
Gli ho detto ma tu ti rendi conto di quello che stai dicendo.
Gli ho detto facciamo che tu stai dicendo una castroneria e che otto milioni di libri venduti non fanno letteratura.

Ma, dicevamo: Sandro Veronesi.
Di lui avevo letto un libretto dal titolo Live. Ritratti, sopralluoghi e collaudi, nel quale era pubblicato un racconto di viaggio del 1993, Piombino.
È vero che uno dice Piombino e pensa: imbarchi per l’Elba e acciaierie.
Lui fa un discorso sociale ed economico, perciò ci racconta la crisi della siderurgia di stato, dalla quale è derivato lo sconvolgimento dell’economia di un comprensorio che sta fra le province di Grosseto e di Livorno.
Lui è molto bravo anche a raccontare l’effetto che gli fa quello scenario siderurgico, che, come quelli analoghi di Genova e di Napoli, «procura un misto di suggestione e di orrore».
Ciminiere, nastri trasportatori, altoforni. Vede pure una colata, che descrive come uno spettacolo dantesco. E due dannati gli sembrano i fuochisti, «che controllano il torrente di lava proveniente dalla pancia del mostro, e ridacchiano fra loro, a una temperatura infernale, circondati di faville, a torso nudo, in apparente simbiosi con la brutalità di questo ambiente protozoico».
Uno legge queste cose e si interroga sul senso della parola lavoro, soprattutto su un lavoro che non ha la ferocia e la durezza di quello di un operaio dell’acciaieria.
(Per esempio il lavoro mio).
Il ferro, simbolo originario del mondo industriale, è stato spodestato dal silicio, dal carbonio e da chissà che altro.
Ed è cambiata la classe operaia.
Un po’ come il macchinista del Frecciarossa che scende dal suo abitacolo spaziale, vestito da manager e con uno zainetto alla moda sulle spalle. Molto poco a che vedere con Il Ferroviere di Pietro Germi, interpretato dallo stesso regista, che alla fine del turno se ne va all’osteria e canta stornelli, con davanti uno schieramento di Tubi, Fogliette e Quartini, presto vuoti.

Pietro Germi, Il Ferroviere, 1956

Veronesi cita in chiusura del saggio la zona delle antiche ferrerie dismesse di Follonica.
Io ricordo che presi la guida rossa del Touring della Toscana, feci il bagaglio e partii in macchina, decidendo di percorrere, come in quel film là, l’Aurelia.
Volevo vedere la chiesa di San Leopoldo, la più strana creazione dell’età del ferro, consacrata nel 1838.

Follonica, San Leopoldo, 1838

Rimasi esterrefatta, non per la bellezza, perché bella non l’avrei definita, ma per il coraggio di aver costruito una chiesa con molta ghisa in un posto che la ghisa la produceva.
Tutto mi sembrò un’invenzione straniante, un atto eversivo di creatività pura in una tradizione di chiese costruite diversamente.
Ma sbaglio, perché le chiese più belle, cosa che vale per tutti gli edifici, sono quelle che citano il territorio in cui sorgono, proprio come accade nella gastronomia, per cui per la panzanella l’olio ideale è quello toscano e mai dimenticherò l’accordo perfetto fra il sapore della mozzarella e quello del pane cafone che mi portavo in treno da Napoli.
Ma torno alle chiese e vi invito a guardare San Zeno, con la sua facciata in marmo rosa di Verona, che prende il nome dalla città in cui fu costruita la chiesa.

Verona, San Zeno, sec. XII (più o meno)

Ed è così, secondo il medesimo criterio, che Roma si sposa con il suo travertino (cave abbondanti nei dintorni) e i suoi riflessi dorati e che mi sento autorizzata a guardare in tralice quello che mi invita a mangiare il sushi.
Ma non sei una donna di mondo.
No, per niente.

Il mondo è pieno di ghisa.
Vi mostro in Galleria il bottino di una mia breve passeggiata sull’Appia.
Non sempre bisogna guardare il cielo. Certe volte c’è qualcosa di molto alto anche in basso.

Nemmeno per un attimo ho avuto dubbi sullo stato del termosifone: non andava più toccato.
Ma il fatto interessante è che la scoperta ha portato con sé una serie di altre decisioni relative alla ridipintura di altri oggetti: il tavolo di marmo della cucina, che ha la base in ferro e che ha poco meno di cento anni; le sedie, più recenti, ma pure loro con una storia; lo sgabello in metallo del bagno, che stava nella mia casa precedente e che mi sono portata dietro insieme a tutti i mobili.
E lo sgabello è del medesimo periodo del termosifone.
Tutto si tiene e tutto si parla.

Ci ho dormito sopra una notte, ma già avevo deciso.
Quando ho chiesto a un amico antiquario che è un grande decoratore d’interni e che, visto che qui di interni quasi nessuno capisce niente, non vedo perché non metta su uno studio di consultazione, quando ho chiesto, dicevo, alla persona che ha la casa più bella che frequento che cosa pensava della mia scelta, mandandogli tutte le fotografie a partire da quella di apertura, abbiamo avuto uno scambio approfondito e stabilito di non toccare niente, di non lucidare il marmo e di non ricoprirlo nemmeno con un velo di cera, per non alterarne la pelle.
E di non ridipingere nulla.

Ma il suo commento più bello è stato quello riferito al termosifone: «ovviamente non c’è colore migliore di questa non coloritura».

Ora non mi resta che riprendere fiato prima di attaccare la ripulitura del resto della casa.
Considerando che ci sono altri tre termosifoni, più grandi, tutti ricoperti di vernice, che nessuno ha mai avuto il coraggio di eliminare.
Chissà che cosa ci sta sotto.

Dunque, sono pronta a spostare la mia torta di cartone con il nastro e con la scritta CELEBRATE, che uso nelle occasioni di festa, da dove l’ho messa adesso.
Insomma, sono pronta per la scoperta di altri tesori.