Economia domestica (page 2 of 3)

Mia sorella, più grande di me, alle scuole medie aveva un libro di Economia domestica che mi affascinava. Si insegnava alle ragazze come tenere una casa, usare gli elettrodomestici, risparmiare sulla spesa, occuparsi di igiene, anche in caso di malattia della prole. Sono un’intellettuale ma con l’animo da casalinga, mi piace che la biancheria sia bianca e in ordine, che nel frigorifero ci sia tutto ciò di cui ho bisogno o voglia, ho scorte di detersivi ben fatte e tengo sotto controllo i tempi di lavaggio delle tende. Non me ne importa niente di sembrare fissata, per prima cosa non lo sono, e poi, come è noto, le cose su cui ci fissiamo sono quelle che ci riescono meglio.

IL LENZUOL PRODIGO

Giovan Battista Tiepolo, I venti, Palazzo Labia, Venezia, 1750

Solstizio d’inverno.
E un vento da cani.
Penso però, niente male, se asciugo il bucato porto domani mattina le lenzuola a stirare dalla signora Anna qui sotto e tengo un po’ il ritmo.
Dunque, prima di mettermi alla scrivania a preparare una lezione, stendo.
Ma stendo con cura, le cose piccole con quattro mollette, gli asciugamani, per lungo, così non sbattono contro il muro.
Il lenzuolo con almeno dodici mollette.
Già assaporo il guardaroba tutto a posto anche per Natale.
Devo stare attenta alla persiana, che va per suo conto, penso non è che mi viene addosso e mi fa male.
Tu pensa che Natale.

Stendo e mi metto a farmi i fatti miei.
Controllo ogni quarto d’ora perché il vento, si sa, inquieta.

Fra un quarto d’ora e l’altro, la visione: il filo del bucato è praticamente vuoto, garriscono al vento, sole, due federe.

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FENOMENOLOGIA DELLA DOMESTICA, 6: dove sono gli uomini? DULCIS IN FUNDO, 2

Ildebrando D’Arcangelo, Don Giovanni, a sinistra e Erwin Schrott, Leporello, Mozart/Da Ponte, Don Giovanni

La nobiltà ha dipinta  negli occhi l’onestà
(Mozart/Da Ponte, Don Giovanni)

Gli uomini, dipende da quando li incontri
Non so se sia quella cosa che si chiama tempistica. Non è un calcolo semplice, dipende da loro e da te, cioè dalla fase della vita nella quale stanno loro e dalla fase della vita nella quale stai tu.
Ne parlavo l’altro giorno con una cassiera del supermercato che, durante la pausa, prendeva il caffè al tavolo del bar con uno dei ragazzi.
Avevo fatto la spesa e mi sono fermata a salutarli.
Lei diceva che lui le sembrava suo figlio, io dicevo che a me sembrava un uomo giovane, certo, ma adulto, insomma, lui non suscitava in me nessun sentimento materno.
Il giovane uomo adulto (trentuno anni) ci guardava un po’ imbarazzato e un po’ incuriosito. Non so se aveva voglia di squagliarsi o di stare a vedere dove saremmo andate a parare.
Io ho fatto tutto un ragionamento secondo il quale ci sono uomini che una donna dovrebbe cogliere il più presto possibile, perché poi si guastano.
Altri che, invece, acquisiscono spessore con il tempo.
E poi dipende dalla fase esistenziale nella quale sta una donna.
In tutto questo, ha ragione il mio medico di riferimento, che usa spesso metafore e paragoni e che una volta mi ha parlato del tè, ovvero di un’infusione, che ha un sapore diverso a seconda di quando lo bevi.
Per esempio, quello che prendo io la mattina, sempre il medesimo perché sono una persona abitudinaria, sta in infusione quattro minuti.
Misurati con il timer che poi fa clic e suona.
Come dice il mio medico, se tu bevi il tuo tè troppo presto, non sa di niente.
Se aspetti troppo, diventa amaro perché il tannino è uscito fuori.
Ma sempre del medesimo tè si tratta.
Pure certe persone diventano amare se aspetti troppo. E un attimo prima erano insipide, dunque, imbevibili.
E sempre delle stesse persone si tratta.

Comunque, con tutti i calcoli e tutta la tempistica possibili, valutando tutto, troppo presto, troppo tardi, il momento è propizio, anzi, non lo è per niente, vi dico che io non ho mai incontrato in nessuna fase della vita mia o della vita sua e in nessuna età, né mia né sua, un uomo come Don Giovanni.

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FENOMENOLOGIA DELLA DOMESTICA, 5: dove sono gli uomini? DULCIS IN FUNDO, 1

Gustave Caillebotte, Le déjeuner, 1876

Uno dice e che ci vuole.
Beh, insomma.
Per prima cosa, il treno.
Un espresso che sembrava quello sul quale mia madre caricava alla fine della scuola i tre figli per portarli nel Piemonte natale perché lavassero nei fossi che abbondavano da quelle parti l’eventuale accento romanesco, come se là parlassero meglio, con tutte quelle e aperte, il Gigi e la Gabriella, andiamo, su, però c’erano i conigli nella stalla della cascina del nonno, e le galline che facevano le uova.
E poi c’era la bicicletta.
Comunque, ciao neh.
Dicevo, l’espresso. Che secondo me era rimasto quello, la linea corrisponde.
Solo che io mi fermavo prima e scendevo a Massa.
Scendevo a Massa perché un anno ho insegnato all’Accademia di Carrara.
Uno dice Massa-Carrara.
E che ci vuole.
Ci vuole che fra Massa e Carrara ci sono sette chilometri e che non c’era nessun mezzo per farli.
Un collega mi dette un consiglio: «Tu ti porti la macchina alla stazione di Massa e fai avanti e indietro».
L’unico problema era che poi sarei rimasta senza macchina a Roma.
E che ci vuole.

Fatto sta che non seguii il consiglio.

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FENOMENOLOGIA DELLA DOMESTICA, 4: dove sono gli uomini? seconda parte

James Bond e Oddjob in Goldfinger, 1964

Il guardaroba maschile è difficile da cambiare perché esso si iscrive nel reale. Si spiega, ha un senso, corrisponde a dei bisogni. Il jeans è un vestito da lavoro. L’abito intero è stato per molto tempo la tenuta della rispettabilità, in senso largo. Ma è stato rimpiazzato negli open spaces da altre uniformi, come jeans-baskets. Oggi un uomo porta un abito intero nei momenti di fragilità, come per meglio affermarsi: durante un colloquio di lavoro, davanti a un giudice.
Ma più che la rimessa in discussione del maschile, ci si può anche leggere la ricerca del confort.

Marc Beaugé, direttore di redazione della rivista di moda maschile L’Etiquette

Se non ce ne fossimo accorti, gli uomini indossano tutti un’uniforme, cosa che li rende riconoscibili al volo, basta saper guardare.
Il creativo, il giurista, il commerciante, l’intellettuale, l’artista, lo scienziato, il ladro di polli.
E ciò diversamente dalle donne, che confondono le tracce, per cui, per esempio, un paio di giorni fa sono andata a farmi visitare da una signora con una pettinatura spiritosa, i tacchi troppo alti per la mattina e una maglia in lurex: che poi fosse un medico, lo si capiva solo per dove stava.
Nemmeno un camice a salvare il salvabile.

Poi dice che uno ha dei dubbi.
Pure sulla diagnosi.

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FENOMENOLOGIA DELLA DOMESTICA, 3: DOVE SONO GLI UOMINI? prima parte

Mandrake e Lothar

«Che cosa comporta, esattamente, essere un uomo, uno vero? Repressione delle emozioni. Far tacere la propria sensibilità. Avere vergogna della propria delicatezza, della propria vulnerabilità…Non domandare aiuto. Dover essere coraggioso…Dare prova d’aggressività. Riuscire socialmente, per pagarsi le donne migliori…».
Se lo dice lei, Virginie Despentes, scrittrice e punk, avrà ragione. Ho un po’ pulito queste sue dichiarazioni, anche perché di altro, come, per esempio, di dimensioni e capacità performative, lascio discutere lei, omosessuale e femminista, che avrà senz’altro fatto l’esperienza di ciò di cui parla.
Siamo in King Kong théorie, e siamo ai nostri giorni.
Ma che relazione hanno gli uomini fra di loro quando la storia li porta a essere uno padrone e l’altro servo?

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FENOMENOLOGIA DELLA DOMESTICA, 2: le relazioni pericolose

Jean-Etienne Liotard, Dama vestita alla turca e cameriera, 1742

Relazioni morbide, quelle che intrattengono fra loro le donne.
Anche nel senso originario del termine, malsano, da morbus, perfettamente conservato, per esempio in francese, morbide.
Relazioni mai statiche, in spostamento continuo, madre e figlia, sorelle, cognate, amiche.
Serva e padrona.
Qui, poi.
Alleate o rivali, a turno e a seconda di come tira il vento.
E ciò soprattutto fino a quando il padrone di casa, marito della signora, poteva permettersi di prendersi con il personale di servizio delle libertà oggi diventate, per forza di cose, meno frequenti.
Vediamo di mettere nero su bianco qualche appunto.

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FENOMENOLOGIA DELLA DOMESTICA, 1: primi appunti

Alfredo Annina, donde vieni?
Annina  Da Parigi.
Alfredo Chi tel commise?
Annina Fu la mia signora.
Alfredo Perchè?
Annina Per alienar cavalli, cocchi,
E quanto ancor possiede…
Alfredo  Che mai sento!
Annina Lo spendio è grande a viver qui solinghi…
Alfredo E tacevi?…
Annina Mi fu il silenzio imposto.

(Giuseppe Verdi, Francesco Maria Piave, La Traviata)

Da un capo c’è la servetta così ben descritta dal mio galateo degli anni ’50. Si chiama Assuntina o Erminia, a una certa ora domanda se può scendere a comprare il latte; è tentata «dall’intero corpo dei vigili urbani allogati nella caserma di fronte»;  ama la saponetta alla rosa, la Nuit de Pompei, non gradita alla signora, che le procura, in alternativa feriale, «un sapone igienico, di modesto ma pulito profumo», consentendo che il sentore suddetto rimanga «per la ragazza quello inebriante della libertà e della domenica»; è distratta e, a fine faccende, dimentica lo strofinaccio su un vassoio e la scopa dietro la porta; ha nostalgia delle fiere paesane e «allinea i soprammobili come cianfrusaglie su quegli allettanti e confusionari banchi di vendita».

Dall’altro capo, c’è Mr Carson, il maggiordomo di Downton Abbey.

In mezzo, fra un capo e l’altro, c’è tutto il personale domestico, che potete chiamare come più vi piace e che, da che mondo è mondo, si prende cura di una casa e delle persone che ci abitano.

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PRIMA STIRO. POI, AMMIRO

Avevo uno zio militare nell’Aviazione, simpatico, singolare, era il fratello più giovane di mia madre e ogni tanto la veniva a trovare, lei, a Roma, lui di stanza qui e là.
Si stirava la divisa da solo, un po’ perché era sempre in giro e nei primi tempi non aveva ancora messo su famiglia, un po’ perché lui stirava benissimo, meglio di chiunque altro.
Avevo un’amica, d’accordo, un po’ maniaca, che impiegava quarantacinque minuti a stirare una camicia del marito, anche lui pilota, ma civile.
Una volta mi sono fermata davanti a una vetrina di una lavanderia a New York e mi sono messa a guardare un cinesino che stirava, se non ha impiegato quarantacinque minuti pure lui, ci è andato vicino.
Con tutta quell’apparecchiatura professionale, vapore che usciva da tutte le parti, passava e ripassava collo e polsi, ero come ipnotizzata, il lavoro non finiva mai.
Domani riapre la signora Anna, titolare di una delle mie due lavanderie, quella sotto casa mia.
Le porto le lenzuola da stirare da un paio di anni, da quando cioè ho fatto la prova, era luglio, la domestica stava in vacanza e volevo alleggerire un po’ l’economia della casa.
Quando non c’è la signora Anna, ovvero per tutto il mese di agosto, il quartiere mi sembra vuoto.
Ammetto che da un paio di giorni giro intorno alla sua saracinesca ancora abbassata, insomma, ho voglia di vederla.

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L’INVENTARIO, 12. HOME IS WHERE THE HEART IS

Ina Hattenhaurer, Doll’s House Sticker Book, Kitchen

«C’è sporco e sporco»
Louise Rafkin, Lo sporco degli altri. Avventure di una donna delle pulizie
da New York a Kyoto
, 1998

Alla fine mia madre ha avuto quello che voleva: una figlia casalinga.
Nella sua concezione del mondo, una femmina doveva da subito imparare a tenere bene una casa, poi trovarsi un marito e in seguito fare dei figli.
Esattamente in quest’ordine.
Qualcosa nella mia educazione deve esserle sfuggito, visto che, come già accennato, a nove anni, quarta elementare, quando lei cercò di iscrivermi al corso pomeridiano di cucito organizzato dalla mia scuola, io le risistemai le bretelle e le dissi chiaro chiaro che il corso di cucito se lo andava a fare lei, perché io ero un’intellettuale e, quindi, mi andavo a fare il corso di inglese.
Quelle prime parole, «How do you do» e «How are you», furono i segnali della mia emancipazione.
Relativa, perché, non ho mai capito se per le cure materne o se perché sono fatta così, per me la casa rimane il centro del mondo.

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IL SESSO DELLE POSATE, 3. MO VE FACCIO ER CUCCHIAIO

Armando Testa, 1961

Abito vicino a piazza Re di Roma e una volta mi capitò di vedere anteposto il nome di Totti a quello della fermata della metropolitana.
Così, l’ignoto tifoso, approfittando dell’invariabilità del sostantivo, aveva dato a Cesare quel che era di Cesare.
«Totti Re di Roma» in città l’hanno pensato tutti per molto tempo.
(Esclusi i laziali, dei quali al momento non ci occupiamo e con i quali mi scuso).
Il Capitano è considerato l’inventore del cucchiaio calcistico e gli episodi precedenti, seppure noti, sembrano avere meno importanza.
Tecnicamente «Il tiro a cucchiaio o rigore a cucchiaio…, se ben eseguito, fa sì che il pallone scavalchi letteralmente il portiere…è un tiro alto e lento così chiamato perché la traiettoria assunta dalla palla prende la forma di un cucchiaio rovesciato. Nella pratica, consiste nel tirare il pallone con il collo del piede, colpendolo nella parte inferiore. È un tiro rischioso e quindi praticato di rado dai calciatori».
Ma, come dicono i telecronisti quando la partita ha un guizzo inatteso, non finisce qui.

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