1° MAGGIO: GUIDA PRATICA ALL’USO DI COLORO CHE NON SANNO CHE COSA METTERSI

August Sander, Lavoratori della costruzione di strade, 1927

Il mio nonno materno, il piemontese, era un uomo alto e forte come una quercia. Trebbiatore di mestiere, di pochissime parole, sobrio all’eccesso, elegantissimo la domenica quando indossava l’abito scuro per la messa e inforcava la sua bicicletta per recarsi nella chiesa distante qualche chilometro, mi faceva paura. Soprattutto per i racconti di mia madre, alla quale lui, quando lei era ragazza, proibiva qualunque uscita, addirittura presidiando personalmente il cancello della cascina.
Per il resto, quando mia madre alla fine della scuola prendeva tutti e tre i figli e li imbarcava su una serie infinita di treni per portarli a lavare l’accento romano dalle sue parti, in un suo privato ritorno alle origini che durava per tutte le vacanze e che ricordo con piacere per via degli animali, della mia prima bicicletta e anche di qualche ballo serale all’aperto, che mi sembrava una delle avventure più eccitanti che potessero capitare a una ragazzina, il nonno, poco me lo ricordo.
Quello che mi ricordo è che rientrava nel tardo pomeriggio, si lavava, si cambiava, a tavola diceva quattro parole e poi si addormentava davanti a un bicchiere di vino, rigorosamente rosso.
Le parole divennero otto quando io, adolescente, cominciai a presentarmi alla cascina con i miei primi blue jeans.
Che, secondo lui, non erano adatti a una signorina di città che, fra l’altro, studiava, essendo quello indossato da me, e a ben guardare era vero, il suo abito da lavoro.  
Il denim è, infatti, un twill (uno spigato; un sergé) di cotone blu, naturalmente délavé, che forse, lo dicono i Francesi, viene dal sud della Francia e, alla fine del XVIII secolo, è prodotto e distribuito negli USA, diventando, vista la sua resistenza, la stoffa per eccellenza degli abiti da lavoro americani.
Che poi la storia del denim sia diventata inseparabile dai pantaloni da lavoro che presero il nome di jeans a partire dagli anni ’30, lo sappiamo tutti.
Come sappiamo che per i blue jeans c’è un passaggio di status prima degli anni ’40, che arriva al trionfo subito dopo la Seconda Guerra, dando all’indumento il sapore dell’America laboriosa e conquistatrice.
Io oggi non posso dire che vado a lavorare in blue jeans, perché in blue jeans ci sto sempre, anche se il mio paradosso, come già detto, consiste nel trattarli come un abito da sera, non mi ci siedo in posti dalla pulizia incerta e li porto a lavare in lavanderia.

Pubblicità Le Dé

Detto questo, non mi dispiace affatto indossare un capo di abbigliamento che nasce dal lavoro, considerando io gli abiti da lavoro come i più belli in assoluto che ci siano in giro e nella storia, pratici, densi di simboli, capaci di definire al primo colpo d’occhio chi li indossa e di raccontarne le vicende.

Apprezzo il camice bianco. Esso è indossato dal medico, ma anche dallo scienziato, come pure da certi creatori di moda che manifestano così un rispetto liturgico per il proprio lavoro.

Christian Dior, 1956

Certo, loro non hanno timore di sporcarsi, casomai il contrario, preservano gli abiti che disegnano dal contatto  con l’esterno, almeno fin quando è possibile.

Yves Saint Laurent

Medesimo principio in base al quale si vedono foto dello studio di Christian Dior con la carta velina stesa sulle stoffe tagliate la sera, alla fine della giornata.
Anche Yves Saint Laurent, che ereditò all’improvviso e a 21 anni il ruolo di direttore della Maison Dior,  si vede facilmente in camice bianco.

Una volta ho chiesto a un’amica medico, una donna molto elegante, se in ospedale indossava il camice sopra i suoi abiti.
Mi ha detto che si cambiava completamente.
Le ho chiesto se si legava i capelli. Mi ha detto di no.
I rituali mi affascinano, nel rituale diventiamo qualcun altro, siamo guidati da altre cose rispetto a noi stessi, il rituale ti tira fuori dalla dimensione consueta del banale e del profano e ti dà l’accesso a qualcosa che può anche essere il sacro.
Il medico che entra in ospedale e si cambia è come l’attore che, nel suo camerino, si trucca e indossa l’abito di scena. Entra, come si dice, nella parte.
Succede anche nel gioco.
Io non mi cambio quando arrivo sul lavoro però, per esempio, mi pulisco sempre la cattedra e spiego a chi mi vede tirare fuori carta e alcol che non vado a lavorare in tuta ma con i miei abiti, che intendo proteggere.
E mi sono resa conto che, quando si tratta di scegliere la biancheria, se devo fare certe lezioni in certi posti, ho bisogno di qualcosa di protettivo, che faccia un po’ corazza.

Robert Bresson, Lancelot du lac, 1974

Ecco, la corazza. Che, certamente, serve al guerriero per motivi pratici, ma che gli dà anche coraggio e appartenenza.
Come mi diceva un amico fotografo, abituato alle belle donne, quando lavora è come se indossasse una corazza.

Bruno Ganz ne Il cielo sopra Berlino, 1987

E una corazza hanno anche gli angeli de Il cielo sopra Berlino . Essa cade addosso a Damiel, che ha preso la decisione di diventare umano per amore della trapezista e che giace a terra. La corazza sarà anche la sua prima moneta, perché, venduta, gli darà la possibilità di cominciare un’altra vita.
Una corazza come abito da lavoro.
Lo sa pure S. Michele Arcangelo, che ha sempre tanto da fare, sconfiggere il drago, pesare le anime, proteggere il cristiano militante, e che è sempre ben difeso dalla sua armatura, elegante, sfolgorante, di una bellezza tale che è probabile che pure Lancillotto gliela invidi.

Carlo Crivelli, S. Michele Arcangelo, 1476

Qualcuno dei miei colleghi incisori indossa il camice, visto che l’inchiostro sporca.
All’Accademia di Napoli c’era una docente che non se lo toglieva mai, arrivava pure al Consiglio così abbigliata, sembrava un po’ uno dei personaggi de I Tenenbaum, che sono sempre vestiti al medesimo modo, del resto l’abito dice sempre tutto di tutti, figuriamoci quanto dice un abito del nostro lavoro.

Wes Anderson, I Tenenbaum, 2001

Auguste Renoir, Fragole, 1905

Auguste Renoir veniva da Limoges, città della porcellana. Figlio di un sarto e di una ouvrière en robe (un’operaia in abito, che è la persona che dirige un atelier di confezione di vestiti da donna), ha tre anni quando i genitori si trasferiscono a Parigi. A 13 anni comincia a lavorare come apprendista pittore in una fabbrica di porcellane e fa l’esperienza dei colori chiari, che rimarranno uno dei suoi tratti distintivi.
Apprende anche una certa manualità, cosa che non guasta.
L’artista ama indossare sempre la sua «blouse des décorateurs sur porcelaine», alla quale è evidentemente legato, al punto che quando un giorno stava lavorando nella foresta di Fontainebleau, viene schernito da alcuni passanti.
Lo scherzo volge al brutto e Renoir viene salvato dall’intervento di un altro pittore, Narcisse Diaz, molto bravo anche a maneggiare il bastone.
Erano in tanti a dipingere a quei tempi nella rigogliosa foresta, culla di tanta pittura en plein air,  ma Renoir, quel giorno, incontra proprio Diaz.
Ringraziamenti, presentazioni e poi arriva la domanda: «Per quale diavolo di motivo dipingete così nero?».
Patto fatto.
Si torna alla freschezza della pittura  sulla porcellana, si trova la strada. E tutto grazie (anche) all’abito da lavoro, che, quella volta, era stato un casus belli.

La blouse di Renoir doveva essere qualcosa di simile a questa. Custodita a Palais Galliera, il museo della moda di Parigi, è catalogata tale e quale a un’opera d’arte: «Blouse de travail di contadino, piccolo collo dritto ornato di impunture, apertura davanti, 2 bottoni davanti, aperture laterali alle tasche, soffietti squadrati sotto le braccia, polsini con bottoni, un bottone per ogni manica».

Blouse de travail, 1875-1889

Non è un discorso avvincente?
Sembra di leggere una favola: un indumento così quotidiano che entra al museo, viene esposto in mostra, ha il suo spazio nel catalogo.

Celebrazione del lavoro.
Sua importanza.

Nelle divise da lavoro femminili entra spesso il grembiule, altro indumento che amo molto e che mi piace indossare.
(Solo gli insipienti lo considerano impresentabile).
Guardate quanti grembiuli ci sono addosso a queste operaie di una fabbrica di profumi di Grasse, sulla Costa Azzurra, nella magia del Sud della Francia.

Qui si può fare anche un altro discorso. Dalla fotografia si è passati alla cartolina, rialzata, quest’ultima, dal colore, che in quest’immagine è significativo, visto che parliamo di rose. Sappiamo che i fiori sono portati da un uomo nell’atelier dentro dei sacchi e poi trasportati dalle donne in grandi cesti verso tavoli enormi, dove sono sparsi e selezionati da operaie sedute su banchi di legno.
Il lavoro è sorvegliato da un uomo.
(Voi pensate al profumo che doveva essere nell’aria).
Mi chiedo che lavoro sia questo, se sia faticoso, se sia ripetitivo. Mi chiedo se un lavoro ripetitivo (il mio non lo è, non faccio mai due giorni di seguito la medesima cosa) sia pesante, Kant non lasciava il suo studio tutti i giorni alla medesima ora per una passeggiata che percorreva sempre il medesimo tragitto, con una puntualità tale che i suoi concittadini, al suo passaggio, rimettevano gli orologi?
E le abitudini, forse, non fecondano la vita, dando un altro senso a un atto anodino?
Ma forse, con il lavoro, questo discorso non regge.
Forse.

Siamo fuori calendario, ma l’argomento è importante e poi il lavoro si celebra oggi. Dunque, vi propongo tre immagini della vendemmia di qualche tempo fa, complete di vendemmiatori.

Ciò che mi colpisce sempre in questo tipo di immagine è l’eleganza delle persone ritratte: le donne ordinate e ben pettinate, gli uomini con il cappello. In Borgogna è fotografata la Paulée, che è il pasto collettivo finale al quale si ritrovano enofili, vignaioli e vendemmiatori, in una situazione che non può non essere di festa.

Lucas Mary Lancaster, Piccole ricamatrici, sec. XX

Lo so, che c’è lavoro e lavoro, che c’è il lavoro disgraziato, il lavoro malpagato, il lavoro maledetto e pure il lavoro minorile.
Ma non riesco a sottrarmi al fascino, per esempio, dei grembiuli-farfalla di queste ragazzine, che trasformano in creature leggiadre le piccole operaie.

La storia si ripete.
Le giovanissime ballerine di Degas erano ben lungi dall’incarnare il mito romantico che oggi viene attribuito loro.

Edgar Degas, L’attesa, 1882

Spesso abusate dagli abbonati del teatro, che hanno anche il diritto di assistere alle prove e di guardarle con calma, sono spinte a prostituirsi sia dalle loro dure condizioni economiche che dalle madri, le ben note mères maquerelles, autentiche sensali, che hanno un droit de cuissage sulle figlie, una specie di ius primae noctis, da loro concesso sulla base del censo e dell’offerta.
Dunque, questa parte della produzione dell’artista ci dice che lui è un realista e che non è insensibile ai grandi temi sociali dei suoi giorni.
Poi è pur vero che Edgar Degas è un maestro straordinariamente complesso, molto attento al movimento e all’anatomia, capace di inquadrature audaci e di impaginazioni di una modernità che ancora oggi ci appare violenta.
Ma niente esclude tutto il resto e siamo autorizzati a guardare le sue ballerine cogliendo in loro anche una pratica alla quale sono votate e che darà loro lo statuto di artista. E ammirando i loro abiti da lavoro, una delle invenzioni più fantastiche di tutti i tempi, veli di zucchero filato e di panna montata a un tempo, colori pastello, nastri, incarnazione della grazia.

E mi vengono in mente le scarpe antinfortunistiche; la tuta del meccanico rosso di pelo che sbirciavo da adolescente fra le stecche della persiana e che lavorava spesso sul marciapiede della bottega sotto casa mia (mi piaceva la tuta, ma mi piaceva anche il meccanico); il frac del direttore d’orchestra e del pianista (ma ho visto Claudio Abbado dirigere in maniche di camicia perché al Comunale di Ferrara c’era stato un guasto all’impianto di aria condizionata senza perdere un’oncia di carisma);  i camici dei miei amici del supermercato, che si lamentano delle macchie che non vengono via nemmeno con la candeggina; le calze a rete delle prostitute nei vecchi film;  gli abiti da sera delle cantanti liriche al concerto; il mantello di ermellino del re; le uniformi militari; il saio degli inizi di Francesco, quando si avviava sulla strada della santità, e quello dei suoi compagni, di un colore «sbiadito, dal grigio, al marrone, al verde stinto», perché le tinte brillanti erano costose e loro erano poveri e la povertà desideravano incarnare.

L’abito «grosso e rozzo» con addosso il quale Gian Lorenzo Bernini ricevette «nella propria casa» la regina Cristina di Svezia, proprio quell’abito «col quale soleva lavorare il marmo» e che, proprio per questo, egli stimava più degno di tutti gli altri del suo guardaroba.
(E la regina volle toccarlo «con le sue proprie mani»).

Tutto abbigliamento da lavoro.

E il più grande nel ritrarre i lavoratori e quello che indossano è stato senza dubbio alcuno August Sander, che già vi ho presentato in apertura di questo articolo e con il quale termino, un ritrattista immenso, di uomini e di quello che gli uomini fanno per guadagnarsi da vivere.

August Sander, Lavoratore straniero, 1941-45

Nelle sue fotografie ci sono la dignità e la fierezza di queste persone e si tratta di gente semplice, che spesso viene dal paese e che posa con l’orgoglio del proprio mestiere, senza compiacimento, senza la iattanza che avrebbero assunto in seguito alcuni loro colleghi (voi pensate solo ai cuochi). Mi viene sempre da chiedermi se sanno che passeranno alla storia.
E voglio chiudere con il più elegante di tutti, che indossa l’abito della festa.
Quello che indossava il nonno Ernesto la domenica e che faceva la differenza rispetto agli altri giorni della settimana.
Un ragazzo di cui non conosciamo il nome e che, proprio per questo, è capace di rappresentarci tutti: giovane, appoggiato a un albero dal quale sembra trarre forza, lo sguardo dritto di chi è intenzionato a farcela, la giacchetta stretta e con le maniche un po’ corte, la camicia bianca (amo molto le camicie bianche), il basco.
E poi le mani, quelle mani in primo piano.
Ha anche i gemelli ai polsi.
E così mani e gemelli raccontano la sua storia, fatta di coraggio, determinazione, eleganza.
Sempre, anche e soprattutto sul lavoro, perché sul lavoro bisogna essere eleganti, aiuta, dà una mano a resistere, dice a chi ci guarda che di quel nostro lavoro siamo contenti. E che lo amiamo.
E amare il proprio lavoro è importante, per noi e per chi lavorando incontriamo: per i pazienti, gli studenti, i clienti, per tutti coloro che abiteranno nelle case in costruzione, saranno a teatro ad applaudire, indosseranno quegli abiti, mangeranno quel pane.

Buon 1° Maggio a tutti.

2 Comments

Aggiungi il tuo →

  1. Grazie sempre, Amica mia.

    Andrea

Lascia un commento

quattro − due =