A Camilla, a Perlascura, ai Props e a tutti gli altri animali che sono entrati e usciti nella e dalla mia vita o che ancora la abitano

Allora qualcuno mi dice scegli un solo film da vedere e rivedere fino alla fine dei tuoi giorni e non ho alcun dubbio.
Scelgo Blade Runner, quale versione delle tante poco importa, mi importa che nel film ci siano quella pioggia eterna, quei dialoghi, quella colonna sonora e quei personaggi.
E che non ci siano gli animali.
Come sempre, tutto si tiene e tutto torna e un mondo senza animali è proprio quello di quella Los Angeles del 2019 (e quando mi sono accorta che ci eravamo arrivati, a quell’anno, mi era passata la voglia, che avevo coltivato per tanto tempo, di andarci): buio, pieno di solitudini che faticano a incontrarsi, dove si parlano lingue incomprensibili l’una all’altra, dove il ricordo di una terra popolata di esseri viventi che però non sono umani, sullo schermo, esce e entra continuamente.
E fa male.
La nostalgia degli animali in Blade Runner è tangibile, te la senti addosso e addosso ti senti anche la voglia di un animale.
Quando hai chiuso la relazione con gli animali, diventi postumo. Non hai più sentimenti, non ti rispecchi più in un altro essere, non vedi più che gli animali sono belli, che ti somigliano, che ti aprono a possibilità diverse da quelle umane.

Blade Runner, Los Angeles, 2019

Ma procediamo con ordine.
Da un pezzo volevo fare una lezione dedicata ai sentimenti che ci legano agli animali e mi sono messa da parte delle note, dei saggi, un paio di film, insomma, un po’ di materiale.
Comincio con il ringraziare i miei amici filosofi, che ci sono sempre e che forniscono sempre risposte alle mie domande.
E che, di domande, me ne pongono tante.
Dunque.
Noi esseri umani esprimiamo nei confronti degli animali una gamma infinita di emozioni e di sentimenti: affetto, paura, ammirazione, repulsione, compassione, crudeltà.
Ma non siamo solo noi ad andare verso gli animali, sono anche loro a venire verso di noi, certo, è più facile constatarlo con quelli dotati di un’intelligenza a noi accessibile, il cane, il gatto, il cavallo.
Scambi di natura affettiva sono all’ordine del giorno, un animale si affeziona a chi lo nutre e lo cura e tornano spesso i racconti di uno stato doloroso di perdita nel caso in cui il padrone venga a mancare.
Ciò che noi chiamiamo lutto.

Edwin Landseer, Old Shepherds Chief Mourning, 1887

Capita spesso che si vada oltre lo stato dei sentimenti e che si arrivi a qualcosa di concreto come una carezza.
Non sempre gli animali gradiscono  essere toccati e certi sono umorali tanto quanto noi, però accade che qualcuno di loro venga a strusciarsi contro di noi, che solleciti un contatto, che apra delle possibilità che attengono all’eros, quella vicinanza fisica che abbatte le barriere della specie.

Henri Matisse, Pesci rossi e scultura, 1912

Si fanno accarezzare cani e gatti, ma anche le carpe, che pure sono pesci. E non mi sembra che i miei pesci rossi gradiscano che io mi avvicini a loro per vezzeggiarli. Ciò non toglie che stiano ad aspettarmi quando rientro, certo, probabilmente perché vogliono mangiare, ma voglio illudermi che non sia solo quello.
Nella vita, quello, da solo, non è mai.

Ma torniamo all’eros.
Che fosse possibile la nascita di un sentimento erotico fra uomini e animali i Greci lo sapevano molto bene.
Inventarono, infatti, creature fantastiche, ciascuna delle quali con una sua storia, all’origine della quale era un rapporto amoroso.

La sirena è una metafora dell’amore proibito fra l’uomo e il pesce ed è associata al canto e alla seduzione.
Il centauro è «brutale, lascivo e amante del vino» e, in quanto tale, compare nel corteo di Dioniso; anche se nella categoria c’è pure Chirone, precettore di Achille,  considerato molto sapiente (certi Sagittari riservano certe sorprese. Ogni tanto).
Al Minotauro, poi, sono legate alcune delle narrazioni più ammalianti del Mito: nato da Pasifae, moglie di Minosse, re di Creta, e da un toro, fu rinchiuso nel labirinto e pretendeva di avere in sacrificio ogni nove anni sette giovani e sette giovinette ateniesi. Pesante impegno da cui il re di Atene Teseo liberò la sua città. Certo, con l’aiuto del filo di Arianna, figlia di Minosse e di Pasifae, quindi, come ci fa notare l’amata Francesca Rigotti, sorellastra del mostro.
Che poi l’eroe abbia abbandonato a Nasso (piantandola, quindi, in asso) colei che lo aveva salvato, è un’altra storia.
Nemmeno troppo dolente, se andiamo a scegliere, come facciamo, la versione secondo cui sarebbe intervenuto di lì a poco nientemeno che Bacco in persona, che a lei si sarebbe unito, portandola in trionfo.
Ammettiamo che una compagnia dionisiaca sia più interessante per una donna di una eroica e diamo un’occhiata all’affresco con il Trionfo di Bacco e Arianna  di Annibale Carracci, che ci dà l’opportunità anche di verificare quanti animali siano impegnati nel festeggiamento della nuova coppia: tigri, capre e anche un asinello, tutti lì, presenti nel corteo.

Annibale Carracci, Trionfo di Bacco e Arianna, 1602

E, nel corteo di Bacco, non possono mancare i fauni. Nati dall’unione fra il pastore e la capra, si identificano in Pan, divinità grandiosa, capace di regnare su boschi, prati, greggi, di giacere con tutte le menadi e di passare da un aspetto giovane e bello nell’Antichità a quello rozzo e volgare seicentesco. (Se vi interessa Pan, trovate qualche approfondimento qui).
Preferisco la prima incarnazione, vi ricordo che in greco παν significa tutto e vi propongo come orientamento il Fauno danzante che dava il nome alla casa di Pompei dove è stato ritrovato. 

Fauno danzante, sec. II d. C., part.

Ci interessa che tutte queste creature che abbiamo citato, loro, sì, davvero ibride, non fossero mai percepite dai Greci come dei mostri.
E ricordiamo ancora una volta che quando Zeus vuole sedurre, praticamente di continuo, si trasforma spesso in animale.
Qui possiamo ritornare all’eros che attraversa le diverse specie e che, invece di mutare l’uomo in essere bestiale, lo innalza allo stato di divinità olimpica, «eterna, come se si trattasse di una potenza sovrumana, cosmica».

E sovrumano e potente è Zeus, che si trasforma in cigno per sedurre Leda; in toro per rapire Europa; in aquila per ghermire Ganimede.
Per illustrare queste avventure del padre degli dei, scelgo autori che amo e aggiungo che la versione di Rembrandt di un Ganimede bambino, con in mano le ciliegie che stava cogliendo e che si fa la pipì addosso per la paura, aprirebbe da sola ulteriori e fantastici orizzonti.

Proviamo ora a ragionare su un paio di animali, scelti non del tutto a caso nel nostro serraglio, a proposito di vicinanza e di affinità.
Il pipistrello in francese è detto chauve-souris, che non solo è un topo calvo ma che è pure femminile. Però si trova anche la parola vespertilion, che viene da vesper = sera.

Essere vespertino, quindi, che compare nella terza delle quattro parti in cui tradizionalmente è divisa la giornata, cioè nell’ora più propizia alla malinconia, il pipistrello è un animale ambiguo.
Già è un mammifero con il corpo di uccello; poi ci mettiamo che da una parte rappresenta «la veglia della notte, la vigilanza, l’ardore del lavoro»,  tutte cose che riguardano l’artista, ripreso qui nel pieno della sua attività.
Dall’altra, è vero che esso può anche alludere agli effetti nefasti di questo medesimo lavoro e, ancora una volta, siamo rimandati all’artista, inquieto e angosciato.
Un angelo che, nonostante le ali, non vola. Come ci dice chiaramente Albrecht Dürer nella sua Melencolia I, che non può non essere il suo autoritratto e nella quale compare un pipistrello, che reca il cartiglio con il titolo dell’incisione fra le zampe. Un altro pipistrello compare in un acquerello del grandissimo artista tedesco, quindi c’è un ritorno e una conferma.
Aggiungiamo a tutto ciò che questo animale, spaventoso e affascinante a un tempo, è dotato di un sonar, che è un sistema di percezione.
Ora, domando io a voi se per caso questo suo dispositivo non possa essere assimilato ai nostri sensi.

E non devo ricordarvi qui che, uscito dritto dritto da questo immaginario, c’è anche Batman, l’eroe del fumetto creato da Bob Kane, al quale è stato dedicato più di un film, spesso in un’atmosfera di notte, vendetta e superumanità, degna in tutto dei trascorsi artistici del pipistrello.

Michel Pastoureau è il più grande storico dei colori in azione e anche un uomo molto simpatico.
Nel suo Dizionario dei colori del nostro tempo, che si legge come un romanzo, compare la voce Maiale. E lui attacca dicendo che il porco domestico è un animale magico e che viene rappresentato sempre con le setole rosa. Come, però, non è, visto che i maiali sono bianchi, crema, rossastri, bruni, neri, bicromi eccetera.

Porcellino salvadanaio

E lo scarto fra immaginazione e realtà non riguarda solo il colore, perché tutta l’anatomia e l’aspetto dell’animale sono come travisati, dalla coda a cavatappi a una rotondità accentuata.
Lo studioso suggerisce che questa manipolazione sia un segno della profonda intimità che lega l’uomo al porco.
Lo chiama anche «cugino amato male». Cugino, rendiamoci conto. Geneticamente, il maiale è più vicino a noi di certe razze di grandi primati. La sua intelligenza è sottovalutata e la nostra tradizione religiosa e culturale l’ha identificato con la sporcizia, la lussuria, la gola, l’accidia e l’avidità.
Insomma, il porco «è la bestia impura per eccellenza».
Tranne poi uscire dal suo stesso porcile e diventare un simbolo di fortuna e di ricchezza: vi mostro in proposito un esempio di porcellino salvadanaio.

I tre porcellini

Ma non finisce qui perché, come sappiamo, c’è nella nostra relazione con il porco anche la fantasia dei cartoni animati, fra i quali scelgo quello storico e indimenticato di Walt Disney, 1933, talmente radicato in noi da aver avuto il privilegio di una dedica in una composizione della raccolta di Michele Mari Cento poesie d’amore a Ladyhawke, cronaca di un altro degli innamoramenti matti e disperatissimi che ci consolano di quelli, disperati e matti, che viviamo noi:

Puntavo sulla paglia o sul legname
ma dei tre porcellini 
tuo marito
doveva essere quello in salopette con la cazzuola
perché ho soffiato e soffiato
ma la tua casa
non è venuta giù

Per raddrizzare l’umore, ci mettiamo sotto la protezione di S. Antonio Abate, eremita dell’alto Egitto, che distribuì alla morte dei genitori tutte le ricchezze di famiglia ai poveri e si ritirò nel deserto.

Considerato l’iniziatore del monachesimo, è sempre rappresentato in compagnia del maiale, allevato da allora dai monaci antoniani e il cui lardo veniva usato come antidoto contro il fuoco di S. Antonio, patologia sgradevolissima, che è una riattivazione della varicella e che ci auguriamo che il santo, nel caso malaugurato dovessimo averne bisogno, sappia risolvere oggi come faceva in passato.

E per concludere, un paio di film.
Procedo in ordine di apparizione e cito per primo Au hasard Balthazar, capolavoro di Robert Bresson, 1966, storia straziante di un asino paziente, che viene al mondo facendo felice una ragazzina, subisce una serie di rovesci di fortuna, soffre le angherie di teppisti, rivoltosi e miserabili e trova la morte, carico di merce di contrabbando, per mano dei finanzieri in mezzo a un gregge di pecore.

Film tragico di sapore biblico (e, ciò, a partire dal nome del somarello, che è quello di uno dei Re Magi), rigoroso e austero come solo un film di Bresson sa essere, lacerante per l’identificazione alla quale non siamo capaci di sottrarci, è intriso del pensiero di Dostoevskij: «Amate gli animali, Dio ha dato loro il pensiero e una gioia tranquilla, non tormentateli togliendo loro questa gioia, non contrastate il piano di Dio».

E noi gli animali li amiamo.

E non possiamo non provare emozioni intense davanti al loro supplizio, del quale, parlo almeno per me, siamo complici.
Il film di Maud Alpi Gorge Coeur Ventre (Gola Cuore Ventre) del 2016 prende il titolo da una poesia di Pasolini.
Mi sono procurata il dvd, l’ho messo da parte, ero sicura che vedendolo avrei preso la decisione di diventare vegetariana e, quando ho trovato il coraggio di inserirlo nel mio lettore, questa cosa non è successa.
(Di cose, ne sono successe altre).
La regista ha filmato un macello e, per la precisione, la zona della bouverie, che è la stalla che sta prima dell’uccisione degli animali, che rimane, peraltro, fuori campo.
Lei guarda intensamente, le immagini sono dolci e carezzanti ed esprimono «ciò che c’è di vita in una macchina di morte».
Le bestie sono vulnerabili, resistono, soffrono, sono all’erta, hanno un’espressività implacabile, sentiamo il loro respiro, un maiale, uno dei maiali di cui abbiamo appena parlato, si è addormentato e sogna.


Praticamente unico protagonista umano del film è un giovane vagabondo, un lavoratore precario che divide la sua vita, e anche la sua tavola, con un cane, che diventa inevitabilmente l’anello di congiunzione fra lui e le bestie che lui manda a morire e che, quando si mette sulle spalle un agnello, assume la grandezza del Buon Pastore.
E il cane apporta al film una dimensione magica.
Gli animali diventano simbolici, l’inaudita finezza delle riprese, peraltro inevitabilmente drammatiche, ci lacera, ci porta a sentire più forte in noi quel flusso di emozioni che ci suscitano queste creature vulnerabili, potenti quando possono disporre di se stesse, deboli quando entrano in contatto con noi.

Sentiamo che siamo tutti legati, noi, loro, il ragazzo, il cane, sentiamo circolare la vita, la domanda di vita, che si fa più esasperata davanti alla morte e che, alla fine, è forse ciò che maggiormente ci lega a queste creature, amiche, figlie, sorelle, più di quanto siano amici, figli, fratelli gli esseri umani, gli altri, quelli che appartengono alla nostra specie, quelli che dovrebbero essere come noi.