IN NOME DELL’ARTE, DELLA POESIA E DELLA BELLEZZA

Roland Penrose, Lee Miller, Ady Fidelin, Leonora Carrington e Nusch Éluard, 1937

Le donne hanno tutte i seni piccoli.
È l’estate del 1937, loro sono in Costa Azzurra, al di là di ogni sospetto di turismo di massa.
Le donne nel 1937 hanno tutte i seni piccoli, proprio come nel 1950 le donne hanno tutte i seni grossi.
Come questo sia possibile, in epoca non ancora soccorsa dalla chirurgia estetica, per me rimane un mistero.
Forse c’era una selezione naturale: nel senso che le donne che non erano conformi, ovvero che non avevano nel 1937 i seni piccoli e nel 1950 i seni grossi, se ne stavano a casa a piangere sulla loro difformità fisica.
Ma torniamo all’estate del 1937. Che deve essere stata allegra e, diciamo così, disinvolta, se è vero quello che vediamo in foto.
L’immagine è famosa e ritrae un gruppo di amici che fanno un picnic.

Ci sono, anzi, più scatti della medesima scena, che parlano tutti di bohème, gioia di vivere, promiscuità.
E di seni piccoli.

Lee Miller, Picnic, Île Sainte-Marguerite, 1937

Gli uomini sono artisti, pittori, poeti e fotografi.
Qualcuna delle donne ha talento, per esempio quella che ha scattato la foto del picnic e che è la prima a sinistra nella foto di apertura.
Lei è Lee Miller, sulle qualità intellettuali della quale non nutro alcun dubbio: lei fu descritta da una collega come «uno spirito libero americano avvolto nel corpo di una dea greca».
Lei è stata una grande fotografa, coraggiosa e in prima linea in guerra.
Le altre donne del picnic sono, da sinistra, Nusch Éluard e Ady Fidelin, il cui ruolo di modelle e, forse, muse, è fuori discussione.
Ci sono anche foto di Lee e Ady abbracciate, con una che fruga l’inguine dell’altra e l’altra che le tocca il seno.
Le foto sono di Man Ray, uno dei massimi fotografi del XX secolo. Che però compare in un altro scatto e si vede benissimo che lui sta sistemando le modelle, sposta la mano di una, guida quella dell’altra.
Dunque, siamo davanti a una scena costruita per il suo gusto.
Per anni, alla bohème, ci ho creduto.
Anche alla libertà di costumi di queste donne e per me Lee Miller rimane un mito assoluto.
Poi, però.
Poi però abbiamo una testimonianza di Arthur Penn, il regista, fratello minore del fotografo Irvin Penn, che dice che a New York, in quel periodo, «c’era un doppio standard. Le ragazze erano artiste ma ornamentali – intelligenti, dotate di talento, ma prima, ragazze».
A ciò si aggiunge la dichiarazione dell’artista americana Lee Krasner, per inciso, la moglie di Pollock, che disse che «i Surrealisti di Parigi trattavano le loro donne come barboncini francesi».

Lee Krasner

Tutti gli artisti che abbiamo visto finora sono Surrealisti di Parigi.
Insomma, non si scappa.
In quest’ottica, mi sembra normale il commento di un uomo pubblicato sul profilo di un amico a proposito di come si chiamano le donne.
L’amico aveva scritto un post sul doppio cognome, quello del padre e quello della madre, che è possibile dare a un figlio, per esempio in Spagna.
E quello aveva commentato che, comunque, le donne si chiamano col fischio. Quelle belle.
Se non mi sbaglio, col fischio si chiamano i cani.
Commuove, il filo che unisce attraverso la storia i Surrealisti di Parigi con i maschi nostrani.

Un paio di giorni fa ho chiacchierato con un uomo a proposito dei suoi gusti in fatto di seni femminili.
Lieve senso di scollamento.
Manco Pigmalione.

Jean-Léon Gérôme, Pigmalione, 1890

L’analisi era talmente dettagliata e meditata, che ho pensato che avesse dietro anni e anni di cultura, casomai da caserma o da spogliatoio virile.
Lui era precisissimo.
Mentre elencava, mi sono interrogata sui gusti miei e mi sono resa conto che, forse perché non ho fatto il militare o perché frequento poco o niente le palestre, mai sarei stata in grado di produrre un qualunque straccio di manifesto simile.
Riferito a che cosa, poi.
Le mani.
Gli occhi.
I glutei.
I polpacci.
Forse solo a proposito dei peli potrei dire che non mi piace l’uomo-lupo. Come non mi piace l’uomo glabro, modello pollo spennato nella vaschetta di polistirolo al supermercato.
Prediligo un uomo che si capisce che è maschio.
Quello, invece, era uno sapiente: la dimensione, la forma, la consistenza, il peso, il portamento.
Dei seni.
A un certo punto, però, l’asino ha fatto uno scivolone.
E ha espresso il suo parere, apodittico, sull’aureola.
Ho chiosato, brevemente: «Forse stai parlando dell’areola. Quella che dici tu ce l’hanno in testa i santi».
Lui si è risentito e mi ha rimproverata di badare troppo al dettaglio.
Lui, invece, sì, che era capace di cogliere l’insieme e di apprezzare il tutto.

L’orrore non sta nemmeno nel fatto in sé. A rigore, ognuno si sceglie i giocattoli che vuole.
Anche se si tratta di maschi adulti, che di solito giocano con la macchina, la barca a vela, la motocicletta.
Quando non accade che giochino ancora con la playstation, insomma, lì è una faccenda generazionale.
Quando gli uomini giocano, non so se mi fanno invidia (io gioco pochissimo) o se mi innervosiscono.
Certo, quando un uomo gioca con le bambole, c’è da insospettirsi.
Anni fa lessi un articolo che mi lasciò perplessa. Si poteva acquistare in internet una bambola dal peso di circa sessanta chili, con i capelli, gli occhi, la bocca e il resto, ovviamente sessuata, in materiale plastico.
Essa arrivava confezionata in qualcosa di simile a una bara da morto. Dopodiché, buon divertimento.
C’erano uomini che dichiaravano di avere finalmente trovato la compagna ideale, cenava con loro, con loro dormiva, mai un capriccio, mai un mal di testa, sempre presente.
C’era un uomo che la portava a passeggio in macchina, legandola con la cintura di sicurezza.
C’era anche una donna, che raccontava di averla accolta nel suo ménage matrimoniale, che diventava così à trois, senza nemmeno troppi attriti fra le parti.
(Al momento, non mi viene in mente niente di più immondo).
La cosa mi aveva colpita così tanto, che ci ragionai con gli studenti in Accademia.
Una delle ragazze, bravissima, si mise a fare la bambola da cento euro, una pupazza con la faccia da scema, che sedeva scomposta, e quella da centomila, che diventava tutta sexy, allusiva, maliziosamente capace di guardarti con fare invitante.
Non sto a raccontare le risate che percorsero quel semestre.
Lunedì scorso ho fatto una lezione su Oskar Kokoschka, artista austriaco vissuto novantaquattro anni, che ha attraversato, così, tutta la modernità ed è uscita fuori la sua bambola.
Che lui si era fatto costruire da Hermine Moos, una donna che le confezionava, probabilmente con altri scopi e per un altro tipo di committente.
La bambola di Kokoschka nelle intenzioni doveva avere le fattezze di Alma Mahler, l’amante di cui lui era innamorato pazzo e che lo aveva lasciato.
La forma dei fianchi, l’ombelico, i seni (ci risiamo, ma stavolta si parte da un modello umano), la delicatezza della pelle, la pienezza dell’imbottitura di crine di cavallo, tale da far ben figurare gli abiti leggeri di cui lui voleva rivestirla e da renderla morbida al tatto, ci sono appunti in cui lui è molto preciso e dettagliato (quasi come quello dei santi).
Il risultato è orripilante.
Ve lo mostro.

La bambola di Alma

L’artista visse un po’ con la bambola, da essa tirò fuori una produzione di circa ottanta ritratti, poi, deluso dal risultato, dette uno champagne party e, quando tutti furono ubriachi, la decapitò.

E chi s’è visto s’è visto.

Secondo me, me lo dice il mio istinto, anche la parte professionale di esso, Kokoschka non era né pervertito, né matto.
Voleva solo avere per sé un feticcio d’amore, voleva comprargli dei vestiti e metterglieli addosso.
Era solo esaltato, ossessionato, perseguitato da un ricordo.
Alzi la mano chi non si riconosce, almeno in parte, in questi stati d’animo.
Ma, soprattutto e come sempre accade agli artisti, lui era avanti nel tempo.
Gli sarebbe bastato arrivare fino ai nostri giorni, fare un altro piccolo sforzo e superare il secolo di esistenza, e le sue richieste sarebbero state soddisfatte.
Mi sono messa a cercare i siti che vendono le bambole. Forse era la prima volta che ne visitavo uno.
E prima avevo trovato un video di un signore serissimo, o che sembrava tale, che abitava con sette bambole. Le presentava, faceva vedere come le pettinava, comprava loro degli abiti e spiegava il carattere dell’una e dell’altra.
Si era praticamente messo su un harem, il sogno di ogni uomo, senza avere il problema delle liti nel pollaio.
Ho visitato il sito delle bambole.

I loro nomi sono un capitolo a parte.
Chissà perché questa, russa, si chiama Caroline e non, mettiamo, Anastasia, Sonia o Anna, proprio come Anna Karenina, quella che si è buttata sotto al treno a causa della sua relazione andata a male con quel moscardino di Vronskij.
In questo mio occuparmi di queste faccende, mi è tornato in mente un amico, chiamiamolo, di famiglia che una volta, tenendo in mano un giocattolo in plastica morbida di un pupetto, era la fase in cui tutti si sposavano e facevano figli, ebbe a dire, accarezzandolo: «A quando, le donne nello stesso materiale».
Ne hai fatta di strada, eh, Petruccio, da quando eri un giovane laureato saccente. Ho sentito alla radio che sei diventato rettore di un’università. Per quanto piccola e di provincia.
E, volendo, adesso, le donne, di plastica morbida le hanno fatte.
Con la possibilità di scegliere: con i peli e senza i peli.
Con la vagina incorporata oppure estraibile.

(Questa cosa della vagina estraibile meriterebbe un articolo a parte. In primo luogo corrisponde metaforicamente all’abitudine diffusa, anche presso il genere femminile, di fare a pezzi le donne che, stringi stringi, sono fatte di carne: filetto, lombata, braciola, petto, pancia, noce, fesa e fesa interna. Per non parlare della comodità. Tu la estrai, la presti a un amante che ti annoia, quando te la ridà, le dai una sciacquatina sotto al rubinetto come fai col bite la mattina e rimetti tutto a posto: il bite, nella scatoletta colorata; la vagina, nell’apposito vano. Ogni tanto, bite e vagina, una nettata di fondo, ultrasuoni, detersivo, quello per il piatti va benissimo, una spazzolata negli interstizi, non c’è nemmeno bisogno di strofinare troppo, un’igiene ossessiva non è richiesta. Come mi dice sempre il mio oculista, l’occhio non è sterile, puoi metterti il collirio pure con la mani sporche. Lo stesso dicasi per la bocca e la vagina).

Nella bambola puoi scegliere il colore della pelle e quello degli occhi (mi pare il minimo).
Con la capacità di stare in piedi oppure no.
E solo una questione di prezzo.
Le opzioni, ormai, ci sono tutte.
Il neo rettore di provincia di strada ne ha fatta, da quando accarezzava il giocattolo del pupetto pensando ad altro.
Lui.
Le donne, mi pare di no.
Giusto oggi ho sentito alla radio due poetesse, che pure stimo, che hanno affermato che loro sono poete.
Ma che brutta parola.
Ma come suona male.
Il poeta. La poeta.
I poeti.
Le poete.
Brave e avanti così.
Tanto ci sono le bambole: Anastasia, Sonia e pure Anna.
E poi c’è pure Caroline: ibrida, quindi, moderna, morbida morbida, con i seni di misura a comando.
Che meraviglia.
Un autentico mostro.
Per quanto soffice, lì dove deve essere soffice, e praticabile.

Lì dove si deve potere praticare.

(Il titolo l’ho preso da Paul Éluard. E già è stato il titolo di una lezione di un mio seminario di dieci lezioni che, tutte insieme, si intitolavano Chi dice donna.  Poi, bisogna vedere che cosa stiamo dicendo).

8 Comments

Aggiungi il tuo →

  1. Rossella R.

    5 marzo 2021 — 8:50

    L’ho vista, l’ho vista la bambolona Alma di Kokoschka nel suo museo in Austria! E mi ha sinceramente lasciata un po’ sgomenta; diciamo che fa un tantinello impressione non essendo appunto né donna né bambola ma qualcosa di oscuro…
    Quanto a Vronskij, altro che moscardino!
    Felice giornata di venerdì, anzi buon inizio di weekend!

    • Rosella Gallo

      5 marzo 2021 — 9:04

      Beh, sì, Vronskij (ho deciso di seguirti nella traslitterazione, ora sistemo anche il testo) è qualcosa più di un moscardino, ma il destino e il personaggio di Anna sono così struggenti, che come fai, a non essere dalla parte di lei. Grazie del commento, pure Kokoschka mi strugge, con la sua bambola e il suo innamoramento. Felici giornate a te, appena ci incontriamo mi racconti tutto

  2. Giulia spalla

    7 marzo 2021 — 16:46

    Prof. La devo ringraziare. Apre sempre una finestra nuova sul mondo 🥰.

    • Rosella Gallo

      7 marzo 2021 — 16:49

      Grazie a te, è un vero piacere incontrarti. Sempre con viva simpatia e i miei migliori auguri per tutto

  3. Giulia spalla

    8 marzo 2021 — 23:41

    ❤️

  4. roberto matarazzo

    17 ottobre 2022 — 11:22

    lee miller una vera gran donna! ottimo articolo che sa riflettere! sul concetto “seni grandi-seni piccoli” ma, più in generale sul concetto-seno, invio per mail il mio “colori da un seno”, con stima

    r.m.

Rispondi a Rosella Gallo Annulla risposta

sedici − 5 =