Scatole e scatoline,
con scrigni e cassettine,
che i bei tesor nascondono
sacri alla dèa d’amor…
L. Balocchi / G. Rossini, Il viaggio a Reims, 1825

Una volta a Napoli ho fatto fare per gli esami un manufatto dedicato al packaging.
Manufatto perché quegli studenti lì sono più bravi con le mani che con le parole.
Packaging perché continuava a sorprendermi che in una città così grande sopravvivessero pratiche altrove completamente dimenticate.

Pizza a portafoglio

Fra le più evidenti, il centro storico pieno di negozietti di alimentari, a Roma quasi impossibili da trovare nella medesima collocazione e una serie di tecniche di incarto che andavano dalla pizza a portafoglio, ovvero piegata in modo tale che tu a un certo punto ti mangiavi per forza di cose pure la carta, al cuoppo con dentro il fritto.

Cuoppo

Il cuoppo veniva utilizzato anche per incartare le ciliegie.
Poi c’erano le coroncine di peperoncini e i grappoli di piennolo e le cocchiette di pane avvolte nella carta e tutta una serie di sistemi di packaging ancestrale, compresi i pacchi di spaghetti con il sigillo di metallo, quello che per tradizione si usa per le confezioni di burro, che si aprivano con uno strappo.

Spaghetti col sigillo

Insomma, un trionfo di soluzioni che resistevano tenacemente e che altrove il supermercato aveva spazzato via di colpo con le sue vaschette di polistirolo e le buste di plastica.
Inutile dire che mi portavo in treno una quantità di cibo che mi procuravo anche per come mi veniva consegnato e i metodi di incarto la sera, nella mia casa romana, mi sembravano ancora più esotici.
Sguinzagliai gli studenti nelle botteghe che sembravano uscite da un presepio, si divertirono tutti, ritrovarono la storia della loro città, qualcuno andò anche oltre, una ragazza arrivò con un cuscino sotto al vestito che simulava una gravidanza: più contenitore di una donna.
Ragionammo sull’uovo, il packaging perfetto offerto dalla natura.
Ci divertimmo.
Facemmo una pausa per andarci a mangiare una pizza in strada.
Solo una tipetta, particolarmente timida e particolarmente tonta, mi portò una cosa fuori tema.
In più, una di quelle cose che detesto: un contenitore per il latte a forma di mucca, con tanto di coda e campanaccio.
Una visione più brutta l’avevo avuta solo quando dissi a tutti di portare a lezione la tazza con cui avevano fatto colazione.
Dopo averla lavata.
L’aula si riempì di robaccia, tazze declinate in tutti i modi, facce, frutta, verdura, animali, piante, uno faceva colazione in un teschio giallo.

Con tutta la bellissima porcellana che c’è in giro per il mondo.

In garage il ragazzo mi ha detto «C’è un pacchetto» e mi ha consegnato una busta rosa, lucente, sembrava di metallo con delle impressioni op.
L’indirizzo era scritto a mano.
Devo aver fatto un’espressione stupita.

Lui mi ha chiesto se non l’aspettavo.
Io ho risposto sì, pensavo però di aspettare una scatola di cartone.
Ho aperto la busta in macchina.
Che c’era dentro.
I miei acquisti, ben inteso, che però passavano in secondo piano per tutto quello che ci avevano messo dentro per accompagnarli.
Ma non nel senso della salsa che ruba la vedette alla pietanza.
Ma non nel senso della pletora di fotografie che ti nascondono il volto della città nella guida turistica.
Ma non nel senso dei troppi soprammobili che uno dice ma come fai a spolverare quello che c’è sotto, che poi è la cosa importante.

No, tutto quello che accompagnava i miei acquisti stava lì per esaltare  il gusto degli stessi.
Una cartolina, che parlava della collaborazione della piccola marca con una marca di poco più grande per realizzare la culotte vichy, ispirata a Brigitte Bardot.
Una fotografia di una delle loro modelle, ma una fotografia vera, stampata, con dietro scritto Fujifilm e altra roba. Da anni nessuno mi mandava una foto vera per posta.
Un adesivo con una signorina il cui corpo è sintetizzato in un paio di gambe issate su scarpe con i tacchi alti e due belle ciliegie. Volendo, la foglia sembra la coiffure e le ciliegie sembrano altro.
Un secondo adesivo, stavolta piccolo piccolo,  con una bocca ridente e le iniziali della marca stampate sulla lingua.
Un bigliettino rosa in cartoncino con la scritta rossa in rilievo, quella che ho preso in prestito per il mio titolo.
Ah, poi c’erano i miei acquisti, che per due giorni ho solo guardato perché ti pare che andavo a guastare, aprendolo, tutto lo spettacolo.

Pensavo alla libreria grossa vicino a casa mia, quella con una quantità tale di polvere sui banchi che un paio di volte ho chiesto, pulendomi le mani con la salvietta umida, se qualcuno controllava il lavoro dell’impresa di pulizie.
Pensavo chissà se ora sanificano sullo sporco come stanno facendo in tanti.
Pensavo a quando alla cassa ti guardano scortesi dopo averti messo lì il libro o il film nudi e crudi e ti chiedono se vuoi la busta, facendotela pagare uno sproposito.
Pensavo a tutte le volte che ho pagato la busta perché mi dava fastidio mettere il libro o il film a contatto con altro, non sia mai le cose che avevo in borsa.
Pensavo a quando ho deciso di non metterci più piede perché scartare è bello, fosse pure un pacchetto Amazon.
Pensavo alle pile di carta che mia madre teneva nel cassetto della cucina, recuperando la busta del pane per il fritto o per un impacco con l’aceto quando uno dei figli sbatteva la testa da qualche parte; la carta oleata quando non era sporca per avvolgere la merenda per la scuola; la bustina di plastica che sembrava una perla rara.
Pensavo che tutta questa carta è scomparsa per ricomparire sotto l’unica forma del rotolone da cucina.
Pensavo a tutto il packaging di Napoli, alla pizza e al cuoppo, al giornale utilizzato per metterci dentro la frutta, la cocchietta avvolta nella carta leggera chiusa con le orecchie.
Pensavo alla retina per la spesa e alla sporta di paglia estiva.

Guardavo i miei acquisti e tutta la roba che li accompagnava e pensavo ma tu guarda quanto è bello essere donna, comprarti le calzettine bianche con la scritta e la biancheria che ti arriva tutta bella piegata, con il nastro rosa che l’avvolge e che sciogliere è peccato.