VERSO LE GUIDE, 3. COME IL SANGUE: NAPOLI

«…oggi mi sono dato alla pazza gioia, dedicando tutto il mio tempo a queste incomparabili bellezze…esse sono al di sopra di ogni descrizione. La spiaggia, il golfo, le insenature del mare, il Vesuvio, la città…»
J. W. Goethe, Viaggio in Italia, Napoli, 27 febbraio 1787

E ancora.
«In questo paese non è assolutamente possibile ripensare a Roma; di fronte alla posizione tutta aperta di Napoli, la capitale del mondo, nella valle del Tevere, fa l’impressione di un vecchio monastero mal situato»
Napoli, 3 marzo 1787

Incasso. Avesse ragione lui?
Del resto, basta guardare.

Sto male.
Completamente male. 
La decisione è presa, io sono una rapida, nemmeno ci ho pensato troppo.
Qualche giorno è passato in uno scambio di messaggi di saluto e di distacco, poca roba, non mi piace sbrodolare con i sentimenti.
Per fortuna è fine luglio, l’estate si incendia, nemmeno devo parlarne con nessuno, sono solo, più o meno, fatti miei.
Ho deciso di andarmene da Napoli e in cuor mio so che la decisione è giusta.
Ma, proprio nei medesimi giorni in cui spedisco con raccomandata con ricevuta di ritorno la mia domanda di trasferimento, sto sulle Guide di Napoli.
Quello che la vita e il suo disegno mi tolgono con una mano, mi restituiscono con l’altra.
Mi immergo come uno speleologo in quella grotta, come un sommozzatore in quel mare, e tiro fuori da me la città che devo raccontare e dalla quale mi sto strappando.
Sto male. 

Non resisterò.
Troppa confusione, il rumore di fondo è continuo, sono tutti agitati, non so attraversare la strada, gli scooter marciano contromano sul marciapiede, i ragazzini giocano a pallone dappertutto, appena c’è uno slargo, è probabile che sia colpa del vulcano che incombe, questo dà a tutti una frenesia insopportabile.
Ho preso servizio, certo, l’Accademia è magnifica, un grande parallelepipedo in tufo campano che subito dopo i restauri avrei visto brillare sotto il sole con riflessi d’oro.
(Giallo Napoli. Rosso pompeiano. Tufo campano. Piperno. Napoli ha materiali e colori bellissimi).
Non ce la farò mai.
Vado a mangiarmi una pizza da Bellini, mi siedo sulla terrazza, mi ronza tutto nella testa, dovrei essere contenta ma non credo di farcela.

Sono talmente agitata io che se mi infilo in quest’agitazione incontrollabile, finisce che mi disgrego.

Non mi sono disgregata, anzi. Ho trovato in me nuovi motivi di aggregazione. Non ricordo nemmeno del tutto come sia successo, più o meno sono entrata in aula e ho fatto una prima lezione. Mi sembra di esserne uscita soddisfatta come di rado mi era capitato, e dire che avevo già una bella esperienza professionale addosso.
Certo, non mi ero mai trovata davanti a un corso di studenti napoletani. Micidiali, avrei capito in tempi brevissimi, svegli, simpatici, affettivamente caldi.
Non sapevo che ancora si portassero doni ai professori, pagnotte del paese, un incredibile numero di bottiglie di vino, olio, una volta, prima della discussione di una tesi, il padre di un laureando mi consegnò tre chili di mozzarelle appena prese al caseificio. Non so se voi abbiate idea di che cosa significhi questa quantità di roba.
Quello che dico sempre: quando nei film americani l’intercalare è «fuck you», a Napoli è «ti voglio bene».
A voi pare un caso? A me, no.

I treni. L’odore del treno che non ti levi più di dosso. Certi anni cinque ore di Intercity al giorno, ritardi di 70 minuti, minuti trascorsi in piedi alla stazione con la borsa e la cartella perché non c’era un posto dove rifugiarsi. Sedili sfondati. Cimici, probabilmente. Gabinetti, meglio, ritirate, senza acqua.
Nella fase di avvicinamento all’Alta Velocità il treno si piantava ad Aversa; si aspettava il pullman; si saliva sul pullman e quello dopo tutto un giro complicato ti depositava in città.
Una volta ne ho fatta una delle mie: volevo andare al San Carlo ma non volevo fermarmi a dormire. Quindi, dopo aver applaudito lo spettacolo, ho preso un taxi e ho raggiunto la stazione. Poi ho aspettato il treno notturno, un espresso di quelli che uno pensa che stiano solo nei romanzi, e invece, no, un viaggio nella notte anche oltre la letteratura, non so come sono arrivata indenne a Roma Tuscolana, l’ambiente non era dei più signorili.
Casa mia sta a tredici minuti a piedi.
Non sono una nottambula, però quella notte fu bellissima.
(Non è che capisca granché quelli che vanno a cercare l’avventura col safari fotografico col truck e dormono nel campeggio attrezzato, sperando in cuor loro che il leone, quando loro aprono il finestrino per fotografarlo meglio, se li mangi. Basterebbe prendere un bel treno notturno che corre nel Sud dell’Italia e il gioco del brivido sarebbe fatto).
I primi tempi del Frecciarossa facevano pensare all’accoglienza che devono aver avuto i transatlantici, che so, il Rex, l’Andrea Doria: cordoni rossi, tappi di spumante che saltavano, personale tutto in tiro, giornalisti.
Fino all’arrivo del 1000, poi, il più bello di tutti, un alligatore che se ne va in giro su rotaie.
Anni di treni.
Non ho mai odiato il treno nemmeno un momento.

Decisa ad appropriarmi della città, avevo stabilito il mio quartier generale al Jolly Ambassador, quando l’albergo aveva ancora il suo volto degli anni ’50. Io che sono la persona più abitudinaria che ci sia sulla faccia della terra e faccio patti dannati con il Ricevimento per avere sempre la medesima stanza, lì cambiavo postazione continuamente. Sempre all’ultimo piano, e i piani erano 33, quindi la vista dalla finestra era mozzafiato: certe volte, avevo voglia di mare e mi piaceva vedere sotto di me il Maschio Angioino che sembrava piccolo piccolo. Altre, di città, e il Rettifilo brillava di luci nella notte: altro che America.
La sera cenavo volentieri al ristorante, che era all’ultimo piano, circondato di vetrate. Lì ho imparato a togliere tre minuti al tempo di cottura degli spaghetti: a non mettere mai il parmigiano sul pomodoro e basilico: a tenere il limone lontano dal pesce. Lacryma Christi bianco del Vesuvio. Non c’era al mondo Grande Table dove si mangiasse meglio.
E poi la prima colazione: con il sole che usciva, sforzando, dal Vesuvio. C’era in quella visione tutta la storia del mondo.
Se avevi visto, nel teatro giusto e con la giusta gente, La Gatta Cenerentola, avevi pure in testa la colonna sonora adatta.

Napoli, centinaia di studenti. Napoli, incontri. Napoli, galanteria dei colleghi (sto parlando di quelli napoletani). Napoli, dolci inauditi di Natale e di Pasqua. Napoli, corone di peperoncini. Napoli, pranzi di straforo a Borgo Marinari, con davanti il golfo che luccica. Napoli, salita sul Vesuvio, il paesaggio più lunare da me visto. Napoli, nostalgia durante le vacanze. Napoli, cibo di strada più buono di quello del ristorante. Napoli, la volta che ho dormito al Royal Continental a via Partenope nella stanza in cui tutto, perfino la chiave, era stato disegnato da Gio Ponti. Napoli, risate da scivolare sotto la sedia, in aula e nonostante tutto, certi giorni anche in Consiglio, quando tirava aria buona. Napoli, centro storico, quello vero, con il pane venduto dappertutto e pure il pesce, in negozietti che non sembrano gioiellerie.
Napoli, arte.
Napoli, Caravaggio.
Quando è arrivata a Roma la Flagellazione per la mostra del centenario e me la sono ritrovata davanti, anzi, io davanti a lei, rispettiamo l’ordine, l’emozione è stata violentissima.

Caravaggio, Flagellazione, 1607

Napoli, cerimonie.
Napoli, sangue.
E adesso sentite questa perché è bellissima.

San Gennaro

Roma, agosto, quasi mezzo. Finisco una sera San Gennaro, mi aiuta l’antropologo, che fa tutto un discorso complesso ma più che sensato in cui sostiene che la verità del miracolo è fuori discussione per il credente ed è una battaglia di retroguardia per l’incredulo.
E che poi mette in relazione  la liquefazione rituale (in questo caso, quella del sangue di San Gennaro) con il desiderio inconscio degli uomini di mestruare, cioè di appropriarsi della potenza generatrice femminile. Napoli, città ambigua sessualmente, piena com’è di «travestiti» e «femminielli».

E insiste. E dice che fra il linguaggio del sangue e quello del denaro, «liquido vitale della nostra civiltà», ci sono sorprendenti analogie: basta pensare a termini come circolazione, versamento, arresto, emorragia.
Basta pensare anche alle virtù che nei secoli sono state attribuite al sangue: i salassi purificatori (Raffaello è morto in seguito a un salasso); i tubercolotici esangui che nel XIX secolo si curavano bevendo sangue caldo al macello (ma questo l’ho letto io in un altro libro; decisamente ho avuto un’estate cruenta); Santa Patrizia, alter ego femminile di San Gennaro, anch’essa patrona della città, il cui sangue, pure, si liquefà periodicamente e puntualmente.
Inoltre, San Gennaro è nato in via San Gregorio Armeno, vicino al tempio di Santa Patrizia.
Il gioco dei rimandi e degli intrecci è esplicito e inquietante.

Vi faccio riprendere fiato e lo riprendo io.
Lavoro ai miei POI (Point of Interest) della Guida. Mi tengo nelle 200 parole, taglio, cucio, rifaccio, registro i 90 secondi di audio per ogni punto. Mi sembra tutto venuto bene, ho fatto un lavoro accurato e metodico.
Forse l’ho anche ripreso dopo cena, ho fatto un controllo.
Vado a dormire.
Non mi ricordo se sogno.

La mattina dopo mi alzo per tempo. Vado in cucina a salutare i pesci rossi, prendo altra acqua da bere al lavello.
Mi accade una cosa strana.
Sanguino dal braccio destro.
Un fiotto di sangue bello denso, non mi sono scontrata con nessuna lama, non mi sembra di aver dormito con un animale selvaggio.
Faccio pure fatica a medicarmi. Ho un buco che non ho capito come mi sono procurata, non ho alcun dolore.
Solo, perdo sangue.
Ora. Io sono una donna lucida e razionale, figlia della Ragione e dei Lumi tutti, non sono credente, ho i piedi ben piantati sulla terra.

Ma mi è venuta una stimmate.

L’identificazione è stata tale che è successo.
A un mese e mezzo di distanza, ho ancora un bel buco sul braccio. Giovedì sono andata dal mio medico estetico, non gli ho raccontato tutto perché mi avrebbe preso per matta, ho fatto una sintesi e gli ho detto appena arriva il freddo facciamo il laser, d’accordo?
Lui ha detto, sì, certo, ha dato un’occhiata e non mi è sembrato preoccupato.
Ma è tempo di passare ad altro.

Al momento abbiamo deciso di dedicare a Napoli due Guide, con, in tutto, 120 POI.
Per compilarle (crearle) mi sono trasformata in conoscitrice di: porti; musica lirica; café chantant; bar storici; acquariologia; scuole militari; botanica; archivistica; vulcani; cinema; gastronomia; presiepistica; metropolitane; antropologia; miracoli.
E, naturalmente, di cose d’arte diverse per epoca e stile, ma questo è il minimo ed è il mio campo.
Il primo itinerario vi porta dal centro civile della città fino al lungomare più bello del mondo, toccando i luoghi della nascita di Partenope e della sua leggenda.
Il secondo percorso vi accompagna nel cuore di Napoli, con le sue guglie, i palazzi, i vicoli, vi fa passare da Forcella, sia per il murale di San Gennaro, che per il capolavoro di Luigi Vanvitelli, la SS. Annunziata; e poi ancora per i decumani, per le chiese magnifiche, gli scavi archeologici, il Cristo velato, il Conservatorio, l’Accademia (ah, l’Accademia), con una puntata ai Quartieri Spagnoli, rientrando verso San Giovanni a Carbonara, piazza Garibaldi e la sua Stazione, scivolando lungo il Rettifilo.
Le Guide sono tradotte in inglese, francese e tedesco da interpreti bravissimi, che hanno fanno un lavoro di fino, conservando le sfumature  che io ho voluto dare a ogni frase. C’è ironia sorridente quando serve, precisione quando bisogna essere filologici.
Mi hanno fatto compagnia Goethe, Roberto De Simone, lady Emma Hamilton, Paisiello, Cimarosa, Mercadante, Donizetti, Rossini, Bellini e pure Cilea, Roberto Rossellini, l’antropologo Marino Niola, Curzio Malaparte, che Napoli l’ha conosciuta bene, Guido Piovene, la mia amica Mariacristina, docente di Latino e Greco (e Italiano e Storia e Educazione civica e pure Geografia) al Ginnasio del Mamiani, una delle scuole più brillanti di Roma, che mi è venuta in soccorso tutte le volte che non ero sicura di una pronuncia.
Trovate nelle Guide le Gallerie urbane, i capolavori segnalati in oro (quelli che io chiamo i soldi di zio Paperone), se ci sono riuscita: l’atmosfera.

Una volta ho visto un film in cui la protagonista, che era Isabelle Huppert, quindi siamo ai livelli più alti possibili, fra sé e sé parlava del desiderio per un uomo dicendo «lui mi scorre sotto la pelle come il sangue».
Ovvio che mi sono chiesta quante volte in vita mia ho potuto dire una cosa del genere, con tutto che sembrerebbe naturale che un uomo entri dentro una donna al punto che lei lo senta scorrerle dentro.
Ma poi sappiamo come sono imperfette le cose umane.
Alcune città, invece, manco per niente.
Alcune città ti entrano dentro e tu senti di possederle e te le ritrovi in ogni angolo della memoria e dell’anima.
E Napoli per me è una di esse.
Non so come mi troverò all’Accademia di Belle Arti di Roma, dove prendo servizio a novembre (anzi, lo so benissimo perché ci sono già passata nella mia carriera, intricata come tutte le carriere in Accademia).
Ma questo discorso al momento non ci interessa.

Solo, spero che abbiate voglia di girare per Napoli con le cuffiette indossate e con la mia voce che vi racconta le storie partenopee così come le ho vissute e apprese io.
Si dice «sudare sangue», no? Ed è una bella metafora per riferire l’impegno, la fatica, l’aspettativa che il risultato sia all’altezza dell’investimento.
Ho sempre pensato che si trattasse di un’immagine letteraria di presa immediata e certa.
Quando mi guardo, però, la stimmate sul braccio destro, quella che scomparirà con il laser con il primo freddo, comincio a pensare che dalla metafora alla realtà il passo sia breve e che passi per la passione che uno mette nelle cose.

Sarò felice di venire a conoscere i dettagli della vostra relazione con Napoli.
E di sapere se a formarvi questa vostra idea ho contribuito un po’ anch’io.

 

8 Comments

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  1. Salvatore Riccio

    30 settembre 2018 — 22:02

    Leggo questo articolo, forse uno dei più sentiti. Forse perché un addio.
    Ma non credo lo sia per la città, so bene che è un arrivederci, ma per l’Accademia Belle Arti di Napoli è una “fine”. Con tutti i sentimenti (ma proprio tutti, da una rabbia egoistica a una tristezza sconfortante) la saluto, mi dispiace che questa avventura è durata un solo anno. Non è un addio e lo sappiamo entrambi, siamo riusciti a instaurare un buon rapporto e so bene che continuerà fuori l’Accademia. Non elenco tutte le risate e le contaminazioni intellettuali che ne ho ricevuto. Quindi la saluto, dalla sempre NOSTRA Napoli.

    • Grazie, Salvatore, provo identici sentimenti. Ho parlato un po’ con Ettore, molto di più con Simone, noi due parliamo presto di persona, grazie di tutta questa delicatezza e di essere entrato così dentro. Promesso che continuiamo a vederci. E ci mancherebbe. Con tutto quello che abbiamo ancora da fare e da dirci.

  2. Mariacristina

    3 ottobre 2018 — 13:38

    Sei magnifica in ogni tua esperienza dalla storia dell’Arte alle guide di Napoli, aspetto l’inizio del nostro anno accademico per riascoltare con il piacere di sempre le tue dotte ed imperdibili lezioni .un abbraccio e grazie per la citazione
    7

    • Rosella Gallo

      3 ottobre 2018 — 14:53

      Grazie a te, Mariacristina carissima, della presenza, dell’assistenza, della sapienza. Grazie, soprattutto, dell’amicizia

  3. Rosella, leggerti e’ molto più che un piacere, non riesco a interrompere. Quando parli delle città che ti entrano sotto la pelle e altre per niente… come è vero!!
    Sono curiosa di seguirti nelle tue audio guide, a partire da Roma, tanto amata ma che strazio vederla come è diventata.
    Un abbraccio, Romana

    • Rosella Gallo

      4 ottobre 2018 — 21:21

      Romana cara, ti ringrazio per le parole e per la presenza, ci ritroviamo presto, con le guide o di persona, ancora meglio. Un affettuoso saluto a voi tutti

  4. Nei miei primi trent’anni posso vantare poche, pochissime certezze.
    Tra queste quel d’esser ‘veramente napoletano’; nulla e nessun posto, in cui io possa andar a vivere, potrà mai assopire o mutare la mia ‘napoletanità’.

    Allo stesso modo ho chiaro di amare l’arte e che io sia nato per studiarla, osservarla e condividere tutto quello che di essa io abbia assorbito. Circa quest’ultima certezza – poiché di una inamovibile e lapalissiana realtà si tratta – posso dire d’averla guadagnata anche grazie a Lei, prof.ssa Gallo. Anzi, la MIA prof.ssa Gallo.

    L’attenzione ed il rispetto infinito per l’arte, è qualcosa che – dalle sue parole – si capisce benissimo e trapela immediatamente. Io, ho deciso di dedicare la mia vita alla a questa disciplina immensamente bella. Raffinata. Preziosa. Autentica. Ed è grazie alle sue lezioni, se io, poi, ho pure avuto il coraggio di rispondere ‘alla chiamata’. Come fossi un San Matteo che risponde al reclutamento di Cristo; solo che non ero in una locanda, ma in un’aula universitaria e, analogamente alla tela ero immerso in un’oscurità tagliata dal solo fascio di un proiettore.

    Sento di dovermi confessare (ora posso); francamente, mi sono sempre detto che, ‘se mi dice bene’, io, nella vita, sarò esattamente la metà di quello che è stato Lei per me: un esempio. Ecco.

    “Le cose belle finiscono, non sono eterne”; è vero. L’Accademia di Napoli perderà MOLTO, ma io – per quanto inguaribilmente abitudinario – sono la prova che il cambiamento sia sempre positivo.

    Un abbraccio stretto, come siamo solito farci e dirci.
    Lei resterà sempre nel mio cuore, MIA cara prof.ssa Gallo.

    • Rosella Gallo

      6 ottobre 2018 — 19:10

      Temerario carissimo, questi sono per me giorni complicati, con stati d’animo diversi che vanno e vengono. Mi riempie di gioia leggerti e sapere che i nostri incontri, ovvero le nostre lezioni, hanno lasciato un segno. Ti ricordo che voi avete fatto (noi abbiamo fatto) un’Accademia splendida, con un bel po’ di respiro, tempi lunghi e possibilità di costruire insieme qualcosa. Oggi è tutto diverso, breve e frammentato, tu sai come va il mondo. Ti auguro, ora che sei un collega, di avere sempre lucidità e forza, tu sai quanto l’arte sia importante, quanto sia bella, quante emozioni sappia infuocare. Trasmetti tutto questo ai tuoi ragazzi. Avremo dato vita a una piccola tradizione, avremo fatto qualcosa di utile al mondo. Grazie delle tue parole, che mi hanno profondamente commossa. Il ricordo del tuo corso è uno dei più belli dei miei anni partenopei, grazie a te, a voi. Un abbraccio, certamente, di quelli nostri, secondo le nostre abitudini e il nostro affetto, con i migliori auguri e i migliori sentimenti

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