William Wetmore Story, L’Angelo del Dolore, 1894

L’altro giorno a via Due Macelli mi ricordo che mi servono calzettoni per il loisir e la libera uscita.
Entro nel negozio di guanti, saluto (anche se dovrebbero essere loro a prendere l’iniziativa) e vado verso l’espositore di calze che hanno il mio medesimo nome (e viceversa).
Controllo la misura, scelgo e chiedo di pagare.
Il titolare del negozio mi guarda sgomento.
La cosa è così evidente che gli chiedo che cosa gli è successo.
«Ha già fatto?» mi fa lui.
«Sì, perché?» gli faccio io.
«Perché i clienti impiegano sempre almeno venti minuti e poi cambiano parere prima di arrivare alla cassa».
Ah, io no. A me tutte quelle righe mica mi imbrogliano.
Io sono una con le idee chiare, io ho una capacità di decisione rapida, al punto che dico sempre che sarei capace di comandare un esercito in battaglia.
(Nel mio immaginario è, quella, la situazione in cui bisogna prendere le decisioni più rapide).
E inoltre.

Al ristorante, o in trattoria, impiego meno di tre secondi a guardare il menu e a scegliere. Certo, con il vino me la prendo un po’ più comoda e mi perdo volentieri fra le etichette, però poi il vino è una faccenda da uomini, quindi di solito risolvo facendo seguire a un leggero sospiro la frase che ho messo a punto e che utilizzo nella circostanza: «Stasera avrei proprio voglia di un bianco aromatico».
Comunque, se poi devo scendere a patti con un rosso corposo, mica me la prendo.

Una delle persone che sperimentò in modo più bruciante la mia capacità di decidere fu mia madre.
Che, così, a ritroso e a posteriori, secondo me mica capì mai del tutto che cosa aveva combinato mettendomi al mondo.
Mancò presto, la povera donna, quindi non assistette a tutta la fioritura.
Ma, quando io ero in quarta elementare, quindi avevo più o meno nove anni, informata dell’attivazione nella mia scuola di corsi pomeridiani, osò dirmi che avrebbe voluto iscrivermi a quello di cucito.
A fare il corso di cucito, saltai su come morsa da una tarantola, ci vai tu, che sei una casalinga.

Io sono un’intellettuale e vado a farmi il corso di inglese.

E così fu. E fu così che entrai in contatto con la lingua di Albione.
Che mi catturò, mi invase, mi sembrò una delle cose più belle del mondo.
«Good evening, Madame».
E, inoltre: «How do you do?», che, appresi subito, non significava stai bene in salute, come va il raffreddore, il fidanzato promette di diventare un marito eccetera.
Significava solo quello che significava e voleva una risposta tale e quale: «How do you do?».
Gli inglesi saranno pure strambi, però sulla capacità di condurre una conversazione nessuno li batte.

Appena fu possibile, cominciai a frequentare la letteratura d’oltremanica.
E arrivai precocemente a conoscere il poeta John Keats, romantico, vissuto e morto di tisi a Roma a ventisei anni.
Un’età che, quando io di anni ne avevo tredici o quattordici, dovette certo sembrarmi decrepita, però quella poesia mi invase con un innamoramento che cominciò a frastagliarmi la vita, al punto che frequentavo la casa del poeta a piazza di Spagna e, soprattutto, andavo a trovarlo sulla sua tomba. Che, avevo appreso durante una lezione, era al Cimitero Inglese, detto anche Acattolico o Protestante. Insomma, quello di Testaccio, accanto alla Piramide.
Anche se non siete gotici come me, credo che conveniate sul fatto che i cimiteri sono il perfetto specchio antropologico di coloro che, a modo loro, li abitano e, come causa e conseguenza, della cultura dalla quale provengono.
Nelle sere incerte mi volge sempre l’umore al bello il ricordo di quella volta che, in fase nomade e frammentaria, accettai l’invito per una festa (una festa) che si sarebbe tenuta in un villino sulla ridente costa laziale.
Ci andai con un’amica, che aveva preso in prestito una magnifica BMW dal marito. E che la guidava come un demonio.
Il viaggio trascorse in uno spirito alla Thelma e Louise e se non ci ritrovammo entrambe con la patente ritirata (pure io che quella sera non guidavo), fu solo perché non incontrammo la Stradale.
A un certo punto arrivammo a destinazione.
«Deve essere là», dissi io, indicando quello che mi sembrava un volenteroso complesso residenziale.
«Sì», approvò lei.
E imboccammo il vialetto che si apriva dopo la cancellata.
Percorremmo almeno una ventina di metri prima che mi venisse il dubbio. E il dubbio veniva dal primo filare di tombe che si delinearono davanti ai nostri occhi.
Inutile aggiungere che, quando finalmente trovammo il villino della festa, la sua somiglianza con un cimitero compensava perfettamente la nostra prima svista.
Questa è l’architettura moderna dei luoghi di mare accessibili in un’oretta dalla Città Eterna: il camposanto che sembra un centro residenziale.
E viceversa.

Ma parliamo di cose più serie.
Il Cimitero degli Inglesi è il posto più romantico di Roma.
Di fondazione settecentesca, accoglie gli stranieri di religione non cattolica che morivano nella Capitale.
La sua divisione in due parti è chiara e suggestiva: la zona antica è quello che tutti pensiamo sia un cimitero inglese, con i prati, le panchine, i gatti e qualche tomba.

Le tombe di John Keats e di Joseph Severn

E qui è sepolto John Keats, che riposa sotto l’enigmatica iscrizione che recita: «Here lies One Whose Name was writ in Water».
Era il 24 febbraio 1821 e il poeta consegnava al mondo i suoi sentimenti estremi, con la volontà di non lasciare traccia della sua esistenza, proprio come un nome scritto sull’acqua, che tutto ingoia.
Apprendiamo di chi è la sepoltura dall’affettuosa iscrizione della tomba vicina, quella del pittore e amico Joseph Severn, che si incarica di dircelo.
Per anni sono andata a leggere seduta sulla panchina lì accanto, sentendomi in compagnia di amici.
Ancora lo faccio.
Ho organizzato visite guidate, passeggiate di lettura, di notte mi capita irregolarmente di andare a salutare Keats perché la sua tomba è visibile anche da un’apertura che dà sulla strada.
Questo è il mio posto prediletto in città, ci sono pini, mirti, allori, rose selvatiche e camelie, c’è una sospensione del tempo inaudita a pochi passi da una delle arterie più trafficate di Roma.
C’è, diffuso, il senso di una morte eroica che non fa male, oppure, un po’ alla Foscolo, che ti innalza verso un sentire  che sta un po’ più su, per quanto è possibile davanti a un evento così definitivo, rispetto alle faccende umane.
Morte come elegia, come memoria, morte come rimpianto e desiderio interrotto.

Morte come letteratura.

La tomba di Percy Bysshe Shelley

Qui sono sepolti i resti mortali di Percy Bisshe Shelley, affogato con due compagni di navigazione l’8 luglio del 1822 a Lerici, Golfo di La Spezia.
Non aveva ancora compiuto trent’anni.
La sua imbarcazione si chiamava Don Juan.
I corpi vennero ritrovati dieci giorni dopo; furono riconosciuti dagli abiti; furono cremati sulla spiaggia; Shelley aveva in tasca un libro di poesie di Keats.
Della cerimonia sappiamo tutto perché erano presenti amici letterati: Byron avrebbe voluto tenere per sé il teschio di Shelley; un gabbiano solitario volava sopra la pira funebre; il cuore non bruciò e alcuni medici moderni credono che il fenomeno fosse dovuto a una calcificazione derivante da un inizio di tubercolosi.
La moglie, Mary Shelley, per intenderci quella di Frankestein, volle appropriarsi di quel cuore, che tenne per anni con sé avvolto in un pezzo di seta, fino a che non fu ritrovato in un cassetto del suo tavolo di lavoro, con intorno alcune pagine del poema Adonais, che cantava la morte precoce di Keats.
Quell’organo così ricolmo di senso fu finalmente sepolto nella tomba di famiglia.
Sulla lastra l’iscrizione chiama Shelley COR CORDIUM, il cuore dei cuori e compaiono alcuni versi de La Tempesta di Shakespeare, altro luogo di naufragi.

(Poi dice che siamo gotici. Poi dice che siamo romantici).

Belinda Lee

E percorriamo già la parte nuova del Cimitero, dove le tombe sono più fitte e dove possiamo scegliere diversi itinerari.
Il figlio di Goethe, deceduto a Roma, ma anche Belinda Lee, attrice, morta in un incidente stradale in California a ventisei anni e riportata qui a riposare.
Ho cercato un film suo; l’ho visto. Era bella, con gli occhi un po’ obliqui. Di lei si diceva maliziosamente che la differenza fra Belinda e Piccadilly Circus era che non tutti erano passati da Piccadilly Circus.

Morte come erotismo.
Morte come seduzione che va oltre la morte.

Il cimitero, di base, è un luogo protestante, quindi rigoroso.
Non c’è nemmeno una fotografia.
Sulle tombe le iscrizioni sono spesso laconiche, sempre amorevoli.
Scrittori, artisti, storici, archeologi, diplomatici, scienziati, tutti ricordati in quindici lingue diverse, costituiscono una popolazione, è il caso di dirlo, di quattromila anime, che parla di una Roma cosmopolita, veramente caput mundi, che acquisisce colori diversi, si stacca da quella specie di provincialismo che la ricopre da un pezzo e torna a essere la meta di ogni itinerario esistenziale.

Morte come fine di un percorso individuale che ha avuto un senso, morte diversa da quella di oggi, consumata fra l’ospedale e le ceneri spesso buttate insieme a quelle degli altri.

E, a proposito di ceneri, a farsi due conti anche Gramsci morì presto: aveva quarantasei anni. Ricordato come un uomo «intimo, riservato, razionale, severo, nemico dei sensitivi e delle cose facili, fedele alla classe operaia nella buona come nella cattiva sorte», colui che fu tra i fondatori del Partito Comunista non poteva non accendere la fantasia di Pier Paolo Pasolini, che nel 1954 compone il poemetto che dà il titolo alla raccolta Le ceneri di Gramsci.
Anche questa è poesia sepolcrale, ovvero attivata dalla presenza della sepoltura, proprio come con Foscolo.
Ma l’umore è radicalmente cambiato e il Cimitero degli Inglesi diventa un «buio giardino straniero, giardino gramo, sito estraneo, silenzio fradicio e infecondo».
Pasolini parla delle officine di Testaccio; cita abiti e stoffe: parla di uno «straccetto rosso» e di se stesso «povero, vestito dei panni che i poveri adocchiano in vetrine dal rozzo splendore».
Parla delle sue contraddizioni,  di «vortice dei sentimenti», di Shelley, come sempre parla di sesso e di amore per la vita, i suoi interrogativi sono quelli dell’intellettuale alle prese con la storia, si esprime con una «bravura tecnica da sbalordire».
Poi se ne va, lasciando il compagno «nella sera che, benché triste, così dolce scende per noi viventi, con la luce cerea che al quartiere in penombra si rapprende».

Pier Paolo Pasolini

C’è una foto d’archivio che ci mostra Pasolini davanti all’urna che reca la scritta CINERA ANTONI GRAMSCI.
Lui è giovane, diciamo che ha poco più di trent’anni, ed è elegante nel suo impermeabile chiaro slacciato, ha belle scarpe e non mi stupirebbe se indossasse anche una cravatta.
Ma non riesco a vedere.
Ha le mani in tasca, quindi è ritratto in un atteggiamento privato. Non c’è traccia di ufficialità, non c’è traccia della presenza del fotografo.
La relazione fra i due intellettuali è esattamente quella che vediamo: diretta, senza intermediari, sentita, intima, e se dico intima, dico  profonda, interna, riposta, un po’ come dovrebbero essere sempre le nostre faccende intime.

Certo, il luogo aiuta questo sentimento.
Di dimensioni ridotte, circoscritto eppure visibile in più tratti, è come se entrasse e uscisse dal nostro percorso quando gli giriamo intorno.
La stessa sua ubicazione, in un quartiere che per tanto tempo è stato popolare e che ora è diventato alla moda, con il suo corteo di locali e attività notturne, ne fa un territorio franco in più sensi: certamente nel verso dell’ardimento che è servito per forgiare il suo carattere unico nei suoi trecento anni di storia; ma anche in quello della libertà che esprime quando lo frequentiamo.
E questo intendo quando dico che il Cimitero degli Inglesi è il mio luogo prediletto a Roma.
Dentro ci trovi tutto: l’esotico e l’altrove rispetto a dove vivi; il nutrimento per la mente dato dalla letteratura e quello per gli occhi che viene dalla bellezza misurata delle sepolture; l’idea che nel grande ventre della città moderna sia sopravvissuto un invaso che ti accoglie e che ti racconta storie belle come favola; la possibilità, in un fazzoletto di terra, di trovare quiete, profumi, una natura che cambia nel corso dell’anno, mai banalità, mai noia.

Morte come vita e come almeno una speranza di vita che vada oltre la morte.