LA VITA SENTIMENTALE DEGLI ANIMALI

David Shrigley, Lost Pigeon, 1996

Ieri ho aperto la finestra del mio studio e ho trovato un piccione sul davanzale.
Ci siamo spaventati entrambi, sembrava la scena di Blade Runner quando Pris si nasconde nella spazzatura sotto casa di J. F. Sebastian e ha paura di lui.
E lui di lei.
(Sia chiaro che J. F. Sebastian era interpretato dal piccione).
«Sciò», gli ho detto, come si fa con le galline e come c’è scritto fuori dal deposito di zio Paperone (è la mia scritta prediletta).
Mi sono anche dovuta giustificare, gli ho detto che era uno sporcaccione e che quindi la sua presenza non era ammessa.
Lui si è offeso ed è volato via.
Mi si è stretto il cuore e mi sono ricordata che nell’altra casa una volta trovammo due uova deposte in uno dei vasi del balcone, che era un balcone vero, non un balconcino da due metri quadri in tutto come quello che ho adesso.
E le uova le covava una picciona.
Non la disturbammo e un giorno nacquero dalle uova due piccioncini.
Picci e Pocci.

Crescevano, uno più dell’altro, non mi ricordo se Picci o Pocci, ero pure preoccupata, mi ricordo che andai a piazza Vittorio, dove vendevano ancora animali vivi nelle gabbie, a chiedere consiglio a un allevatore, che mi vendette un pappone supervitaminico col quale rinforzare il miserello.
Le ore che passai accovacciata accanto a quel nido sdutto, cercando di imboccare con un bastoncino quel coso ancora con le piume gialle addosso, niente, non apriva il becco, era evidentemente un piccione inappetente.
Una volta la mattina molto presto assistetti al primo volo del grosso, fu spettacolare, prese la rincorsa per tutta la lunghezza del balcone, poi lo vidi che si librava nell’aria.
L’altro impiegò altri dieci giorni, rimase stentato, ma stava al mondo.
Lavavo il balcone con l’acqua bollente e il detersivo tre volte al giorno, ma con i piccioni non ti difendi, per cui, quando vennero di nuovo, e secondo me erano sempre loro, a deporre le uova nel vaso dell’altra volta, le ruppi, diventava una questione di sopravvivenza.
Però ieri mi è dispiaciuto cacciare il piccione che mi era venuto a trovare, fra l’altro l’ultima settimana ho visto per due volte una scena toccante, un piccione che corteggiava una piccioncina, con lui che si era gonfiato tutto per sembrare più grosso e lei che faceva la distratta ma lo guardava di sottecchi per controllare che le stesse ancora appresso.
Di questi tempi avari, solo i piccioni si fanno la corte, ciascuno a suo modo, uno con l’altro.

Due giorni fa uno mi ha fatto vedere la foto del suo cane.
Era orrendo, gli ho detto «Tu e questa bestiaccia», lui mi ha detto che era un bulldog inglese, che era femmina e che si chiamava Gaia.
Io gli ho detto che era orrendo lo stesso, gli ho chiesto se ci dormiva insieme, lui mi ha risposto ogni tanto, ho chiosato che schifo, sicuramente sbava.
Lui ha concluso dicendo che anche la sua ex ringhiava e sbavava.
Che brutti ricordi che siamo capaci di lasciare certe volte, noi donne.

Ho avuto in vita mia due gatte, entrambe importanti.
La prima più della seconda.
La sua morte è stata il dolore più grande che io abbia provato.
Mi capita ancora di sognarla.
Era bellissima e con un gran carattere, svelta come solo un felino, quando qualcuno apriva la porta di casa, gli si infilava fra le gambe e se ne andava a spasso.
Andava giù alle fontane o su in terrazza, aveva corteggiatori dappertutto, uno era un gattone che entrava fierissimo nel portone e la chiamava, a me lui stava molto simpatico.
Meno nelle mie grazie era il gatto della signora dell’attico, chiatto e con le zampe corte, una volta li trovai che facevano l’amore con lui che si era dovuto arrampicare sul tubo dell’acqua perché non arrivava a montarla, lei era una gatta longilinea e alta.
Una volta fece un solo cucciolo, io nemmeno mi ero accorta che era incinta, una sera mi venne a cercare, inquieta, mi dava testatine, mi chiamava.
Partorì dopo poco un gattino robusto, lo chiamammo Bolshoi, che significa il Grande. Dopo qualche giorno capimmo che era una Bolshova, ma andava bene lo stesso.
La prima gatta era bianca.
La seconda, nera. Timida, paurosa, elegantissima, sembrava una gatta egizia. Una volta una persona mi chiese quanto l’avevo pagata.
Ebbe anche lei i suoi cuccioli, al primo parto mi ricordo che fece le fusa ininterrottamente dall’inizio delle doglie, di solito si acchiappava una gravidanza in estate, quando la portavamo in campagna. Il mese di ottobre era sempre un tripudio di cuccioli e andavamo avanti fino a Natale, con tutto il mucchio selvaggio che poppava, che poi cominciava a mangiare dei bocconcini di carne e che faceva agguati dappertutto in casa e ti saltava sui piedi appena li vedeva nudi.
Soffiando.
Tutti gli amici, i parenti, le domestiche e le loro famiglie avevano un cucciolo di una delle mie gatte.
Poi, d’accordo, basta, non è più possibile.
Morta l’ultima, ho chiuso con gli animali ingombranti.
Resta che sono contenta di aver assistito allo sbocciare di nuovi lati del loro carattere, la maternità aveva arricchito di una variegatissima serie di sfumature il loro comportamento, avevano scoperto nuove emozioni.
E io con loro.
Sotto casa mia, nel giardino intercondominiale, c’era una colonia di gatti.
Le femmine facevano figli, li vedevi che a un certo punto uscivano dal buco dove erano stati infilati e, in parata, si arrampicavano sulla recinzione del giardino per andare a prendere il sole.
Una gatta era bianca e nera, si chiamava Zelletta, come il protagonista di una canzone romana. Lei faceva sempre cuccioli con qualche deformità fisica.
Era una madre sfortunata, ma li accudiva lo stesso.
Anche lì, ormai, più niente. Tutti sterilizzati, morti, scomparsi. È rimasta una specie di gatta grassa, per forza di cose solitaria, che sta spesso sul pilastrino verso la strada, ogni tanto mi capita di grattarle la testa, ma fra noi niente altro.

Lo so, che sto facendo un discorso senza capo né coda, lo so che poi i cuccioli dove li metti, però non posso non provare pena per questo mondo di gatti tutti grassi, che passano le giornate dormendo e aspettando l’ora di cena, sembrano quegli uomini franati davanti alla televisione, di cui, se ti metti a osservare lo stomaco, quello che loro chiamano pancia, lo vedi crescere a vista d’occhio.
Manco un soufflé gonfia così rapidamente.

Per non parlare dei cani, da salotto, da borsa, da compagnia, da grembo, una vita senza un’avventura vera, in cambio della garanzia di una ciotola di cibo secco, una rinuncia all’esistenza.

E chissà i miei pesci rossi, di cui non capisco mai il sesso, so che il primo a mangiare è il maschio e che la femmina lo lascia fare, però tu va’ a capire se si tratta di un altro tipo di rapporto, per esempio di due maschi, uno dei quali più prepotente.
Inoltre, cambiando l’acqua della vasca ogni tre giorni, se pure facessero le uova, andrebbero disperse.
E ho letto che il pesce rosso in amore indossa la livrea nuziale, non so immaginarla e vorrei tanto vederla.

Sto leggendo una storia a fumetti, è di una disegnatrice francese famosa. Per gli altri, perché io chissà dove avevo la testa, per tutta la vita non ho saputo che lei esisteva.

Catherine Meurisse, Les grands espaces, 2018

Lei ha passato l’infanzia in campagna, un’infanzia coltivata anche nel senso della letteratura, ha visto partorire la capra e ammazzare il maiale.
E ha assistito all’invasione di parole inventate dai professionisti del sogno di paesaggi dove le parole erano rare.
E dall’invasione sono nati i festival rurali, la città d’arte e di storia e quella bio, le sale polivalenti per gli anziani che giocano a tombola, la cittadina di carattere.

La storia: la partenza dalla città; regno umano; regno animale; regno della casa

L’orrore del turismo che arriva dappertutto e che tutto nomina e divora.
Ma il libro è bellissimo, poetico, feroce, ironico e  consolatorio e mi ha fatto venire voglia di andare anch’io a vivere in campagna.
Non ora, bensì fra molti anni.
Quando avrò chiuso la partita con la metropoli, che ancora mi affascina, abiterò una casa con una gatta che farà l’amore con tutti i maschi dei dintorni; con una capretta che mi accompagnerà nelle mie passeggiate; con un maiale che si potrà grattare la schiena contro gli alberi, visto che ho appreso ieri che il maiale non arriva a farlo con le sue zampe e che negli allevamenti intensivi, fra le varie cose, soffre anche di questo.

E ci saranno anche i miei pesci rossi che allora, finalmente, indosseranno, come tutti gli altri animali che mi saranno vicini, la livrea nuziale.

Celebrando così, anche loro, una vita non da salotto e non da grembo, nella quale non verranno a mancare le serenate notturne, le fughe amorose e i fiocchi che festeggeranno le nascite: azzurre e rosa.

2 Comments

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  1. Molto bella! Grazie sorella!

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