Illustrazione Ryo Takemasa

Stanotte ho sognato che mi avevano rubato la macchina.
L’avevo parcheggiata poco distante da un albergo dove dovevo andare per una cosa di lavoro. Alla reception avevo trovato uno dei commessi dell’alimentari di via della Croce dove, quando vado in Accademia, mi faccio fare un panino.
Sono uscita e al posto della mia macchina ce ne erano altre due.
Ho guardato meglio.
Non l’ho vista.
Ho sentito la mia voce che implorava «Qualcuno può aiutarmi? Qualcuno può aiutarmi?» un numero infinito di volte.
Mi sono svegliata alle sette e un quarto con il cuore il gola.
A quel punto mi sono detta approfitto del mattino e vado a fare quello che devo fare.
Un po’ mi è dispiaciuto, avevo deciso di dormire fino a tardi.
Subito dopo colazione, ho chiamato il garage e ho chiesto di prepararmi la macchina perché dovevo uscire.

Al garage ho trovato il titolare, che con me è sempre affettuoso, quando mi arriva un pacco, mi manda pure un messaggio, gli ho detto cento volte di non preoccuparsi, oltre che mi fai la cortesia.
Gli ho raccontato il sogno, lui ha commentato ma figurati, la tua macchina non te la ruba nessuno perché te la guardo io.

Io sto sempre a trafficare con le piante e i pesci.
(Per non parlare di quanto traffico con la lavanderia, il supermercato e l’organizzazione domestica).
Oggi avevo intenzione di approfittare del sabato di fine luglio e di andarmi a riprendere il bonsai.

Welcome Home

Lo so, che non si pota a luglio, me lo dice sempre anche il garagista, il padre aveva duecentocinquanta ulivi e lui se ne intende.
Ma io ad aprile non ce la faccio ad attraversare Roma per la potatura.

Oggi, però, Roma era deserta.
O quasi. Sembrava un po’ uscita da un romanzo di Scerbanenco, il mio prediletto, ambientato in estate, anche se lui racconta sempre di Milano. Ma l’atmosfera era quella, soprattutto, mi sono chiesta  anch’io come mai «in quei giorni roventi…la metropoli non era giudicata abitabile da un gran numero di cittadini che, chi sa perché, la trovano abitabile con la nebbia, lo smog e la neve».
(Quasi quasi mi rileggo per la centesima volta Venere privata. Mi piacciono i gialli? No, mi piace Scerbanenco).
Roma non ha la nebbia di Milano, però ogni tanto anche qui c’è la neve.
Comunque,  pure i miei concittadini non considerano abitabile la metropoli in questi giorni roventi.
E vanno fuori.
Fatti loro.

Le strade hanno cambiato linea, i palazzi sono usciti fuori, è un po’ come quando un taglio di capelli ti libera il collo o la fronte, non si riconosce più il senso di marcia, se non sto attenta, mi sono detta, qui finisce che imbocco una strada contromano.
Gusto dei settanta all’ora sul Muro Torto. E quando mai.
Gusto del Lungotevere, di piazza Cavour, gusto del parcheggio regolare.
Speriamo che non mi rubino la macchina come è successo stanotte.
Faccio dei giri perché mi è venuta un’idea e passo del tutto casualmente a via Pietro Cossa, dove due giorni fa c’è stato un brutto fatto di cronaca.
Lo capisco con un secondo di ritardo, quando vedo un cameraman con una grossa camera da presa su una spalla e i mazzi di fiori che sono stati deposti sul marciapiedi dove è avvenuto l’accoltellamento. Facendo esercizio di umana pietà e sfidando il caldo.

Lewis Carroll, Alide Liddel, 1858

Alla radio stanno leggendo Alice.
Nessuno parlerà mai a sufficienza dei benefici della lettura ad alta voce. Lei è diventata grande più di tre metri, ha trovato un ventaglio e si sventola.
La colonna verbale è perfetta, nel caldo straniato della città vuota, mi aspetto anch’io che mi si pari davanti il coniglio bianco.

Voglio andare al Carré Français, di solito raggiungibile solo a piedi.
Oggi è facile facile.
Chiedo baguette, Quiche lorraine, prendo un barattolo di cornichons, faccio anche une petite conversation con una squisita signora, l’altra, antipatica come solo una francese può essere, è stata chiamata in cucina.
Sono sempre affascinata dal rituale senza fine dei saluti, dal suono della lingua, la signora mi dice che è di un posto vicino a Marsiglia, le rispondo che ci sono stata più di una volta, la città è magnifica, sembra Napoli, è tutta rotta e piena di rumore, anche loro si vantano di aver inventato la pizza.
Non so scrivere il francese; lo parlo decentemente; capisco quasi tutto; lo leggo agevolmente, da Proust ai fumetti.
Risultato dei corsi serali, dove ti buttano in aula senza insistere sulla grammatica, pure nel posto più serio del mondo.
Mi impongo di non visitare il reparto vini, ne ho appena ordinate due casse.
Mi impongo di lasciare perdere il banco dei formaggi.
Oggi ci mancano i formaggi francesi, casomai con la crosta fiorita.
Però, uno a pasta dura, almeno avrei potuto assaggiarlo.
Faccio esercizio di temperanza.

Prima del bonsai sono già stata in cartaria, di solito, a piazza Zama, lascio la macchina in terza fila, oggi, nelle strisce blu, lei ci stava tutta comoda.

Ora devo occuparmi dei Props.
I props sono gli attrezzi di scena o da set per il cinema e la fotografia. Sono anche gli applausi e i complimenti.
I Props, da un po’, sono anche i miei pesci rossi.
Abbiamo cominciato con Cinema Prop e Photo Prop; poi è arrivato Mascherina Prop; il mese scorso ne è morto uno e ho preso Wine Prop; quattro giorni fa è morto Mascherina, era diventato grosso come una triglia, secondo me ha mangiato troppo.
Ho detto a Wine adesso vedi tu, se vuoi morire, fallo in poco tempo, così ne riparliamo a settembre, ho capito che boccheggiate e che avete caldo, abbiamo caldo tutti.

Pesce rosso triste

Wine Prop è stato solo triste e in disparte.
Non è morto.
Allora stamattina, con in macchina la carta, il bonsai e la baguette, sono andata al negozio di animali sulla via Appia.

C’è almeno un artista per il quale il pet shop è stato decisivo. Sto parlando di Joseph Cornell, colui che «preferì il biglietto al viaggio, la cartolina al posto», un vero campione della staycation,  dunque, un compagno ideale per i miei viaggi immaginari.

Joseph Cornell, Habitat Group for a Shooting Gallery, 1943

Non si mosse mai  dalla sua casa di New York, cercando negli «antique bookshops and dime stores» (che sono i negozi di libri vecchi e quelli di merce da pochi soldi) di Manhattan i materiali con cui realizzare le sue «shadow boxes», capolavori in miniatura, tesori che incantano, nei quali le cose di tutti i giorni sono trasfigurate. Lui fu un «un poeta della luce; un architetto delle stanze fratturate della memoria e un connoisseur di stelle, quelle celesti e le altre».
Non mi meraviglia che il pet shop sia stato per lui determinante. Fra i negozi tutti uguali dell’Appia, quello della signora Clotilde, anziana e quasi sempre scorbutica, ha il suo fascino.
Voi pensate solo alle voci degli animali, agli odori che escono dalle gabbiette.
Discorso diverso per i pesci, eleganti, silenziosi, scivolano e intrecciano movimenti nelle vasche e nell’acquario. Quest’ultimo è sempre alimentato dall’acqua corrente e ospita i pesci rossi.
Qui il mio interlocutore è Francesco, giovane, poetico, conosce la vita sognata dagli animali ed è capace a raccontarla.
Eh, il caldo è problematico per i pesci rossi, ho cambiato l’acqua più spesso come lui mi aveva detto?
Faccio facilmente la scelta, uno è magnifico, è pronta la busta, Francesco pesca con il retino il nuovo acquisto e mi dice che ha una linea bellissima.
Il nome esce subito subito, con questo caldo: Hot Summer Prop.
Lo appendo al gancio della cintura di sicurezza, lui mi guarda.
Garage, poche chiacchiere, ho le creature.
Il garagista vuole vedere il bonsai, lo vede e dice che sembra un ulivo vero: è un ulivo vero, in vita sua, cinquant’anni circa, ha fatto pure due olive.

L’acclimatamento del pesce rosso è delicatissimo: si immerge la busta nella vasca per trenta minuti e si aspetta.
Nel frattempo si guardano le reazioni.
I Props fanno conoscenza, uno sta al centro, incapsulato nella sua busta da trasporto, l’altro gli gira intorno.

John Everett Millais, Leisure Hours, 1864

Ho messo il timer, preso il retino, fatto il passaggio: le acque non devono mescolarsi.
Ora la conoscenza diventa diretta e posso anche vedere se i due pesci si accordano come colori e dimensioni.

Insieme stanno benissimo.
Starò a guardarli per tutto il pomeriggio, pochissimo cibo all’inizio, domani do loro un vero pasto.

Pubblicità Fanta, 2019

Mi sono appena abbonata a un média (che in francese è un mezzo di comunicazione) on line, indipendente, dedicato all’impresa e all’economia, quindi, al lavoro, che affronta i diversi soggetti sotto una luce nuova, «nutrita dalla filosofia e dalle scienze umane».
Otto euro al mese.
Tutti benedetti.
In uno dei primi articoli che leggo (cinque minuti di tempo di lettura, una cosa moderna), un professore di Marketing dell’ESCP, che è un’importante business school fondata a Parigi nel 1819 e che è, ora, ancora più nell’aria del tempo, affronta il tema del «fun artifice»: prende a pretesto la nuova pubblicità della Fanta, sorella della Coca-Cola, bevanda che costa 4.000 volte più dell’acqua corrente e che lui definisce «un simulacro di succo di frutta che non contiene, a dirla tutta, che zucchero e aromi» per occuparsi dell’immaginario del ludico.

Risale fino a Jean Baudrillard che, in La Società dei consumi, ci dice che divertirsi diventa un imperativo, e la gioia, un’imitazione.
Questo, nel 1970.
L’imperativo del divertimento: come non mai in questo momento, sabato quasi sera, fine luglio.

Vi state divertendo?

Simpatico, questo Uomo-Marketing.
Sottile, intelligente, avvertito.

Non credo di aver mai bevuto una Fanta in vita mia. Certo, parecchie Coca-Cola, che però ho smesso di avvicinare insieme al caffè e alle sigarette e per via della caffeina.
E non venitemi a dire che c’è anche la Coca-Cola Zero, io di Zero non consumo niente, se devo consumare, consumo intero.

Quasi sera.
Vento anche prepotente che fa sbattere le mie finestre.
L’Uomo-Marketing mi ha fatto venire voglia di bere e poi è l’ora dell’aperitivo.
E c’è anche un Prop nuovo.
Quindi decido che è il caso di aprire la bottiglia di spumante rosé prodotto da una viticoltrice (chissà se si dice, ma pure vignaiola mi fa strano, troppe vocali) di Calerno di Sant’Ilario d’Enza.
Se lo sapesse Scerbanenco e se io volessi mandare una cartolina, lui direbbe che è un indirizzo troppo lungo, per scrivere il quale rischi di finire tutta la penna biro.

Inoltre, questi produttori hanno il vizio (il vezzo) di non dire mai in che provincia stanno. Quindi, devo andarmi a cercare io che siamo nei paraggi di Reggio Emilia.
Indicazione Geografica Tipica.
L’ho comprato per la scheda e per il nome, se nel nome c’è una Rosa, non vedo perché dovrei fare esercizio di temperanza.

I Props sembrano sani come pesci: Hot Summer è perfettamente a suo agio e Wine ha messo da parte la tristezza.
Se sono maschio e femmina, ho fatto bingo.
Me ne accorgerò quando avranno stabilito le loro priorità: mangia prima il maschio e la femmina aspetta.
Mi sembra pure corretto.

Mentre lascio i Props organizzarsi, organizzo io la giornata di domani, devo rimettermi a lavorare.
Voglio pure lavarmi i capelli, più di un’ora di tempo, altro che l’articolo, comunque intelligente, che fai fuori in minuti 5.

E domani è prevista pioggia.
Quindi, rinfresca.
La città, vuota, sarà dunque pulita.

E tutta mia, ancora una volta.