Variabile. Esco dall’albergo.
Mi sono un po’ coperta, il piumino leggero va bene, è primavera inoltrata ma la sera qui fa fresco.
Linea 2 a Pigalle.
Direzione Nation.
Pigalle, scultore, Jean-Baptiste.
Per la precisione, scultore del Settecento.
Non capisco come si possa non amare l’odore della metropolitana di Parigi.
Qualcosa di simile alle noccioline tostate.
Anvers.

Barbès-Rochechouart, ci hanno girato un film di Marcel Carné, figuriamoci se non l’ho visto.
La Chapelle.
Scendo a Belleville.
Al numero 63 della via omonima c’è il bar à cocktails Combat, che prende il nome da quello antico della piazza non distante, dove avevano luogo le battaglie di animali nel secolo XVIII.
Poi, combat come il combattimento che hanno affrontato le due ragazze che hanno messo su il locale: lo raccontano, fra bancari che chiedono loro se per caso non sia meglio aprire un salon de thé e loro infantilizzazione perenne da parte dei fornitori.

Combat

Il locale è piccolo, curatissimo, dietro il bancone ci sono le mattonelle gialle che ho visto in foto.
Le bottiglie sono tutte ben allineate.
Bicchieri, piattini e tutta l’attrezzatura ossessiva del cocktail: shaker, strainer, macchina del ghiaccio, muddler, colino, pinze, cucchiai, misurini, dosatori, tutto deve essere preciso.
Mi siedo à la terrasse, benedico il mio piumino leggero, ordino un Frais Maison, vodka, gin, sciroppo di bergamotto fatto in casa, succo di limone e anguria.

Il mio Frais Maison

Ordino anche una terrina con cetriolini e pane di campagna.
Nel giro di poco, riesco a fare quello che volevo fare: ubriacarmi.
Di visioni, sapori, odori.
La sera diventa morbida, i cocktail sono di una bellezza che da sola basta a suggerire un’altra ordinazione.
Ah, Parigi.
Che voglia.

Ventoso. Faccio una prova. Compro una scatola di fazzoletti nel posto dove vendono casalinghi. In fila alla cassa, conto le volte che il logo è ripetuto da tutti i lati.

Il costo è la metà di quello dei Kleenex che compro di solito.
Rientro.
Mi fa orrore la confezione.
Prendo dal mio contenitore il nastro con infilati dentro tutti i rotoli di masking tape che posseggo e copro tutte le scritte.
Metto la scatola sulla mensola del lavandino di destra (il mio è quello di sinistra).
Quando sfilo la prima velina perché ne ho bisogno, mi accorgo che non mi sbagliavo: la qualità è mediocre, come è mediocre la confezione.
Decido di consumare tutto presto.
Poi di tornare alla mia marca prediletta.
Tentativi di risparmio sulla fornitura di carta: è l’ultima volta.

Pioggia. Vorrei sapere, e vorrei pure avere una risposta in proposito, perché l’insalata che compro in busta al supermercato quattro giorni prima della scadenza è immangiabile.

Capisco il carpe diem, ma questi esagerano.

Bel tempo. Torno dal mio parrucchiere, non faccio nemmeno il marciapiede, tutto è più calmo. Gli chiedo se per favore mi taglia un po’ la frangia.
Mi ceca.
La volta passata, dopo che eravamo stati lontani tanto tempo, lui si era rifiutato di toccarla.
Lui è uno gelido.
Io sono una calda.
Io ho capito che lui, gelido, era geloso perché qualcun altro, durante il confinamento, mi aveva toccato la frangia.
Aveva toccato la frangia, che mi cecava, a me, calda.
Ora mi osserva con occhio clinico. Mi dice che la frangia sta bene lunga, ma che, d’accordo, me la sfilza.
Nel senso che ha superato il tradimento.
Prima di asciugarmi i capelli va a prendere le forbici dal fornetto nel quale mette a sanificare tutta l’attrezzatura.
Non indossa più i guanti, fase 3, quindi sfilza liberamente.
Finisce che la frangia, comunque magnifica, continua a cecarmi, ma in leggerezza.

Umido.  Mi ero iscritta a una lezione di degustazione di vini rossi. A marzo l’appuntamento è saltato causa pandemia.
A giugno, causa prudenza.
Il sommelier che avrebbe dovuto istruirmi mi chiede se voglio aspettare ancora o se preferisco spendere la quota in bottiglie di vino.
Seguendo la regola del meglio un uovo oggi, ordino il vino e dico a lui tanto non ci perdiamo.
Seguo una degustazione on line, lo facevano anche lo scorso anno, stavano su una terrazza metropolitana che mi piaceva molto, erano simpatici, e dicevano cose semplici.
Lo spostamento di condizione cambia anche il risultato.
Ci sono tre persone in collegamento: il fondatore dell’azienda, il sommelier, il produttore.
Il fondatore dell’azienda è uno bravo, con un approccio al vino a tratti irrituale, butta lì cose interessanti, ieri per esempio diceva che se sei triste, la magnum te la fai pure da solo.
Vino & sentimenti.
Lui è milanese e sta a Milano.
Il sommelier è piemontese.
Ieri il produttore stava in Alto-Adige e parlava come parlano quelli, mezzo tedesco.
L’altra volta c’era un produttore siciliano che più siciliano di così non sarebbe potuto essere.
La cosa che più mi colpisce in queste presentazione sono questi uomini così diversi fra loro, che hanno culture regionali forti, accenti, ambienti e appartamenti di conseguenza.
Per esempio, il milanese stava con dietro una parete con delle stampe con cornici molto asciutte e lineari.
Il siciliano stava con dietro una parete con quadri con cornici dorate barocche.
L’altoatesino stava con dietro la sua cantina.
Quindi, il centro del mondo.

Molto secco. Incontro per le scale la condomina di sopra, tutta bardata.
Si ferma a quattro metri e mi dice che sta male, è stressata, ha paura.
Dice che ha perso due chili.
Siccome è secca come la commare, non me ne ero accorta.
Dice che l’ascensore è sporco, che lei non lo prende.
Ovvero, stando lei al quarto piano, lo prende solo quando è carica.
Evito di dirle che prenderlo qualche volta vanifica il non prenderlo quasi mai.
Lei mi dice che sanifica tutto al mille per mille.
Mi riservo di non crederle.
Inoltre queste percentuali strambe mi irritano.
Se è percentuale, significa che deve esserci un cento.
Mi è tornato in mente quel politico e qualcosa d’altro che distrusse la carriera, la famiglia e se stesso incontrandosi poco discretamente con un transessuale.
Disse poi in un’intervista che un transessuale è donna al 130 %.
Mi ricordo che in quel periodo tentai un discorso con qualche persona in questo senso. Da donna, mi ponevo l’interrogativo.
Reazioni, quasi nulle.
Come se superare così tanto il cento in una percentuale non avesse senso.
Come se una definizione così limpida, dolorosa e sincera della femminilità, per quanto mi riguarda una delle più lucide che abbia sentito in vita mia, non fosse degna di attenzione.
Più dell’episodio di cronaca.
In sé, goffo, mal gestito, con note di disperazione nella narrazione di quanto un uomo abbia bisogno di accoglienza e la vada cercando in chiunque sia capace di dargliela.

Tempesta. Lontano dagli occhi, lontano dal cuore?
Balle.
Semplicemente.